26 Giu 2019

Yoga della risata: che cos’è?

Yoga della risata: che cos’è?

Lo Yoga della Risata è una pratica che nasce in India grazie all’intuizione del Dottor Madan Kataria, un medico indiano che, a seguito degli studi sui benefici della risata, comunicati da Norman Cousins, e quelli di Ekman sulle emozioni, si rende conto che ridere fa davvero benissimo e che si può innescare la risata anche svincolandosi dall’umorismo e dalle barzellette.
Nasce così l’idea dello Yoga della Risata, una pratica di gruppo in cui la risata viene stimolata a livello fisico attraverso dei veri e propri esercizi fisici di risata.
Si inizia con un riscaldamento che sfrutta il contatto visivo – e quindi l’azione dei neuroni specchio, che permettono di attivare le aree motorie legate alla risata facilitando il contagio che avviene se qualcuno del gruppo ha una risata divertente – e che mette in relazione i componenti del gruppo in movimento, invitandoli a battere le mani con un clapping e ad agire la gioia. Sfruttando anche la giocosità e la riconnessione al nostro bambino interiore, che non vede l’ora di attivarsi e divertirsi, di “essere visto”, la risata si trasforma presto da risata autoindotta a risata spontanea ed autentica.
Al centro della pratica c’è la cosiddetta meditazione della risata, il cuore della sessione, e il momento in cui si ride liberamente e incondizionatamente, non più legati agli esercizi fisici, ma fluendo nella risata.
E poi l’incontro si chiude con una fase di rilassamento – che può essere uno Yoga Nidra, un Humming o una danza di radicamento, chiamata Grounding Dance – utilissima per rimettere in equilibrio il sistema e permettergli di giovare al massimo di tutta l’energia e la produzione biochimica prodotta nei dieci e più minuti di risata.
E’ un metodo efficace per ridere senza motivo, facendo emergere la gioia in chi lo pratica e quindi una felicità assoluta che non ha bisogno di stimoli esterni.
L’idea di fondo è quella rivoluzionaria di potersi concedere una risata anche quando non hai voglia, per fare bene al corpo, alla mente e allo spirito. Si parte dal principio che se immagini un’emozione, la produci attivamente e fai credere alla mente che stiamo bene e che ci stiamo divertendo.

PERCHÉ FUNZIONA LO YOGA DELLA RISATA?
La pratica si basa sugli studi scientifici di Paul Ekman, che testimoniano che il nostro corpo non distingue la differenza tra risata spontanea e risata autoindotta: entrambi mandano lo stesso segnale al cervello e in particolare all’amigdala (la parte più antica del nostro cervello, allenata a riconoscere cosa è familiare e quindi sicuro, e cosa non è conosciuto e quindi potenzialmente pericoloso) attraverso gli impulsi neuronali legati ai nostri muscoli, e attivano una produzione biochimica molto intensa, che noi chiamiamo joy cocktail: endorfine, i nostri antidolorifici naturali e le sostanze che ci generano uno stato di gioia ed euforia, serotonina, uno dei nostri antidepressivi naturali, autoprodotto, e l‘ abbassamento di cortisolo, ormone dello stress, con un conseguente aumento delle difese immunitarie. Tutto questo se si pratica la risata per almeno 10/15 minuti in maniera continuata, che è l’obiettivo della parte centrale di una sessione tipo di Yoga della Risata, la cosiddetta meditazione della risata.

DOVE SI PRATICA LO YOGA DELLA RISATA E QUALI SONO LE APPLICAZIONI?
Lo Yoga della risata nasce nel 1995 ed è diffuso in tutto il mondo in oltre 100 stati e in ogni continente. Si pratica principalmente nei Club della Risata, spazi gratuiti dove si è guidati da un leader, da un conduttore, e dove si ride in gruppo attraverso le fasi di una tipica sessione di Yoga della Risata.
Esso ha anche moltissime altre applicazioni e si può praticare dovunque ci sia un gruppo attraverso dei progetti: aziende, per gestire lo stress e i conflitti e fare team building, anziani e case di riposo, bambini e scuole, ospedali, disabilità, Alzheimer e demenza, carcere, comunità di recupero, genitori e figli, sport e squadre, con animali domestici e davvero moltissimo altro.

I BENEFICI DELLO YOGA DELLA RISATA
Lo Yoga della Risata è in grado di agire a più livelli, portando davvero tantissimi benefici, sul piano fisico, emotivo, mentale e spirituale.
Intanto a livello fisico la risata diaframmatica prolungata produce tantissime meraviglie: abbassa lo stress, il nostro killer numero 1, alla base di moltissime patologie, e permette di aumentare la nostra resilienza e avere più energia per gestire i momenti difficili e prepararci a situazioni che richiedono alta performance.

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La risata diaframmatica potenzia il lavoro polmonare e stimola l’apparato respiratorio, aumentando la nostra capacità polmonare e migliorando notevolmente il nostro umore.

Lo Yoga della Risata migliora il lavoro del cuore e del sistema cardiovascolare, potenziando l’endotelio e lo stato dei vasi sanguigni e con la pratica abbassando la pressione.

Lo Yoga della Risata garantisce salute anche al sistema nervoso, con l’attivazione del sistema nervoso parasimpatico, quello che ci calma, collegato ad un corretto lavoro del diaframma. Migliora anche la gestione del dolore, grazie alla produzione di endorfine.

Lo Yoga della Risata è anche considerato una sorta di antidepressivo naturale, perché aiuta nei casi di ansia e ci permette di attivare sentimenti di felicità.

A livello emotivo, lo Yoga della Risata aiuta a sviluppare una corretta intelligenza emotiva, la nostra capacità di esprimere correttamente le nostre emozioni, di gestirle e di comprendere le emozioni dell’altro.

A livello sociale, lo Yoga della Risata migliora la connessione tra le persone, perché è la nostra parte profonda che ride con l’altro, e si migliorano cooperazione e comunicazione, rendendoci più uniti e solidali, più inclini a sentimenti di cura e condivisione

A livello di pensieri, ridere fa bene quindi alla salute mentale e rompe il ciclo della negatività psicologica, aiutandoci anche a relativizzare i pensieri negativi e a focalizzarci sul positivo, anche grazie ad affermazioni e ripetizioni di frasi positive, come “Tutto andrà bene”.

A livello spirituale, lo Yoga della Risata è potente perché attiva il cosiddetto “spirito interiore della risata”, un’inclinazione al sentire di cuore, a sentire l’altro come nostro prossimo, a praticare apprezzamento, gratitudine, gentilezza, generosità, perdono.

16 Giu 2019

L’Outdoor Training

L’Outdoor Training

L’Outdoor Training è una metodologia di formazione esperienziale che va oltre una concezione strumentale dell’apprendimento, non più finalizzato alla carriera e al successo, ma all’individuo nella sua totalità affinché questi possa realizzare tutte le proprie potenzialità e quindi divenire attore sociale. La nuova formazione tende, infatti, a superare la vecchia concezione di costruire profili professionali specifici poiché intende permettere l’acquisizione di competenze, attraverso itinerari diversificati, utilizzabili in molteplici contesti.
Il fattore discriminante della nuova metodologia, pertanto, non si fonda su elementi quantitativi – maggior numero di conoscenze o competenze possedute – quanto piuttosto su aspetti qualitativi – migliore gestione delle conoscenze o competenze possedute. Di fatto, gli elementi che caratterizzano l’Outdoor Training sono sintetizzabili nei seguenti punti:
– La sperimentazione attiva e l’esperienza rappresentano la dimensione fondante l’apprendimento e la costruzione della competenza;
– L’osservazione e la riflessione che consistono in contesti spazio-temporali creati per ripensare all’esperienza appresa affinché si possa originare quel processo definito ‘apprendere ad apprendere’ e dunque si possa acquisire consapevolezza della formazione avvenuta;
– La generalizzazione che implica la possibilità di trasferire gli apprendimenti verificatisi in contesti diversi rispetto a quelli in cui si è prodotta la formazione.

In sintesi, l’Outdoor Training, a differenza delle modalità formative a bassa distanza analogica, si caratterizza per l’attivazione di esperienze che sono analoghe a ciò che si deve apprendere. Questo, inevitabilmente implica la presenza di un trainer che deve essere in possesso di specifiche competenze e soprattutto che sia in grado di gestire situazioni relazionali, dinamiche di gruppo, circostanze emotivamente impegnative e che sia capace di cogliere e sviluppare le potenzialità del singolo individuo e del team verso cui è rivolto il proprio intervento.

In Italia l’Outdoor Training è riconosciuto come metodologia valida per la formazione aziendale. Esso gode di tutte le ricerche che dagli anni ’40 – anni della sua prima applicazione per opera del pedagogista tedesco Kurt Hahn – a oggi sono state prodotte da psicologi e studiosi di “experential learning” o di “learning by doing”. “Apprendere facendo” è infatti la parola d’ordine dell’Outdoor Training che permette di migliorare non solo le competenze tecniche o di business nei lavoratori, ma anche le loro competenze interpersonali e sociali. Il fine didattico della formazione Outdoor è sviluppare determinati comportamenti e competenze nei partecipanti, coinvolgendoli sul piano fisico, cognitivo ed emozionale. In diverse aziende sono state realizzate attività all’aria aperta non solo per quadri e dirigenti ma anche per operai e impiegati, prendendo in prestito l’idea e i materiali da altri contesti come il mondo della natura, dello sport e del gioco, al fine di migliorare:
– le capacità comunicative: dare feedback costruttivi, proporre le proprie idee, parlare in pubblico, costruire rapporti collaborativi con altri;
– le capacità cognitive: risolvere problemi, divenire più creativi, ecc;
– il benessere psicofisico: gestire lo stress, gestire l’ansia, promuovere stili di vita sani, ecc.

L’Outdoor Training si svolge, con una modalità ludica ricreativa, all’aria aperta non solo per consentire uno sviluppo più armonioso dell’individuo con l’ambiente circostante e di cui è parte ma anche per consentire ai partecipanti di incontrarsi e sperimentarsi in diversi ruoli e contesti organizzativi. Anche se apparentemente fa sorridere l’immagine di manager, normalmente pensati con la ventiquattrore e la cravatta, che si lanciano da un paracadute o fanno rafting con gli altri impiegati, il training outdoor permette ai vari individui di uscire dagli schemi predefiniti e di vivere un’esperienza di apprendimento emotivamente coinvolgente per cui più resistente alle forze dell’oblio. A livello del singolo soggetto, infatti, il training outdoor consente:
– Lo sviluppo e la restituzione di abilità e competenze cognitive, culturali, sociali e lavorative;
– Lo sviluppo dell’autostima, attraverso la sperimentazione con successo di identità e ruoli funzionali.

Non si dimentichi come, inoltre, l’apprendimento esperienziale implica dei benefici a livello di gruppo. Così, se è vero che l’individuo si sviluppa sotto l’influenza del suo ambiente, è anche vero che, durante il suo sviluppo, modifica lo stesso ambiente. L’organizzazione aziendale che utilizza l’Outdoor Training come esperienza formativa si arricchisce infatti di:
– Una maggiore conoscenza delle interazioni tra individuo e ambiente interno;
– Una più efficace gestione delle dinamiche di relazione interpersonale attraverso lo sviluppo di un “clima di compartecipazione”.

A fronte dei numerosi benefici generati dalla nuova metodologia è doveroso indicare anche i punti deboli della stessa. Nello specifico, l’Outdoor Training comporta:
– costi elevati;
– tempi lunghi nella messa in atto;
– la difficoltà del trasferimento in azienda di quanto appreso nel corso dell’esercitazione soprattutto se la stessa non è seguita da una puntuale attività di restituzione e riflessione.
Da qui la necessità, per quanto possibile, di svolgere l’Outdoor Training in modo programmato e funzionale alle esigenze aziendali. Diverse sono, infatti, le attività che possono essere organizzate per applicare la metodologia dell’Outdoor Training. Naturalmente esse vengono scelte a seconda della tempistica, della logistica e degli obiettivi che si intendono perseguire. In ogni caso tutte le attività sono precedute dal briefing e sono seguite dal debriefing, in entrambi i casi guidati dai facilitatori. Il briefing è l’incontro volto alla definizione degli aspetti operativi e degli obiettivi di una determinata iniziativa. Il debriefing è invece il momento di riflessione che si verifica dopo aver vissuto l’esperienza outdoor. Secondo il modello di Mitchell, il debriefing si compone di 7 fasi:
1. Introduzione alla spiegazione dell’attività svolta e al lavoro di gruppo;
2. Discussione dei fatti accaduti durante l’attività attraverso le “narrazioni” e le prospettive multiple dei partecipanti;
3. Discussione dei Pensieri/Cognizioni avuti durante lo svolgersi dell’attività;
4. Discussione delle Emozioni provate durante lo svolgersi dell’attività;
5. Discussione degli effetti eventualmente conseguenti all’attività;
6. Informazioni aggiuntive sull’attività svolta, in modo particolare quelle che non sono emerse durante la discussione ma che presumibilmente, in base all’esperienza del facilitatore, possono riguardare ogni gruppo;
7. Conclusione anche con modalità informali tipo cena, aperitivo o altro.

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Nello specifico, le attività che normalmente vengono considerate parte della grande famiglia dell’Outdoor Training possono essere distinte in due grandi categorie: le piccole tecniche e le grandi esperienze. Nelle prime rientrano delle brevi e non troppo intense attivazioni volte a promuovere nei partecipanti la prospettiva di una nuova modalità di apprendimento. Si tratta, in altre parole, di piccole esercitazioni create per alfabetizzare e preparare il gruppo a situazioni più cariche e coinvolgenti, chiamate grandi esperienze. Queste ultime, di fatto, sono una serie di attività progettate ad hoc per far emergere precisi comportamenti che l’organizzazione intende promuovere e potenziare nel gruppo. Molteplici sono le esperienze realizzabili per la formazione aziendale, tra quelle più diffuse ricordiamo:
– La vela. La vita in barca, guidata dal gruppo dei partecipanti che costituisce l’equipaggio e dal trainer tecnico che rappresenta lo skipper, riproduce un’ottima situazione in cui si può misurare la capacità di adattamento psicofisico, lo sviluppo del lavoro di squadra, la tolleranza allo stress, il problem solving e la puntuale definizione dei ruoli e il rispetto delle regole;
– Il rafting. Si tratta di uno sport estremo che permette di sperimentare il lavoro di squadra, il coordinamento del gruppo e l’orientamento all’obiettivo. Il forte impatto emotivo prodotto da tale esperienza serve inoltre ad aggregare il gruppo nelle difficoltà, nella gestione del rischio e dell’incertezza;
– Il free climbing. Implica oltre che il potenziamento di gesti atletici e capacità fisiche anche e soprattutto il tema della fiducia e della responsabilità. Chi arrampica, infatti, si affida al compagno che in quel momento sta facendo da “sicura”, mentre chi è sotto si assume l’incombenza di vigilare sul proprio collega. Inoltre tale sport, comporta anche notevoli capacità di adattamento a situazioni atmosferiche diverse visto che in montagna è possibile fronteggiare caldo, freddo, sole e pioggia;
– L’orienteering. È una disciplina che si avvale di mappe, bussole e walkie talkie al fine di raggiungere una meta finale passando per dei punti nevralgici denominati “lanterne”. Oltre al senso dell’orientamento è facile intuire che tale esercitazione consente al gruppo di sperimentarsi in una situazione nuova e di incertezza che richiede collaborazione, problem solving, gestione delle risorse, raggiungimento degli obiettivi.

12 Giu 2019

L’effetto alone nel marketing

L’effetto alone nel marketing

L’effetto alone fa parte del repertorio classico della psicologia sociale, è un bias cognitivo, un pregiudizio che porta ad un errore di valutazione. L’alone è una sfumatura che percepiamo attorno a una fiamma o a un’altra sorgente luminosa.
Un fenomeno ottico, quindi, dato dall’impressione che la luce illumini un’area maggiore rispetto a quella reale.
E’ la difficoltà a valutare la realtà. Quante volte ci capita di giudicare una persona intelligente soltanto perché è di bell’aspetto? Le star di Hollywood dimostrano di possedere l’effetto alone. Perché spesso sono attraenti e simpatici e supponiamo naturalmente che siano anche intelligenti, amichevoli; insomma viene rimarcato su di loro un buon giudizio. Ma le nostre valutazioni, sono poi così accurate?
Percepiamo in maniera corretta la realtà dei fatti? La maggior parte delle volte questo non succede!
I politici per esempio conoscono molto bene i vantaggi di creare l’effetto alone. Cercano di apparire cordiali, amichevoli, sorridenti, mentre parlano di argomenti che spesso sono privi di sostanza o facendo giri di parole senza rispondere alle domande. Eppure le persone tendono a credere che la loro politica sia buona, perché la persona appare buona.

Il primo studio sull’effetto alone risale al 1920 con un’intuizione dello psicologo americano Edward Thorndike, noto per i suoi contributi alla psicologia dell’educazione, il quale osservò che quando veniva chiesto alle persone di valutare gli altri sulla base di una serie di tratti, una percezione negativa di uno dei tratti influenzava tutti gli altri.

Un inganno della mente quindi, successivamente studiato anche conducendo diversi esperimenti su gruppi di persone che hanno portato a risultati che confermano quanto potente sia questo effetto.
L’effetto alone trova molti esempi anche per quanto riguarda il marketing: è facile infatti che l’immagine di un prodotto o di un brand proveniente da un certo paese possa influenzare (positivamente o negativamente) l’opinione di altri prodotti provenienti da quello stesso paese.

Tra l’altro un effetto duraturo, difficile a morire, che funziona sia in direzione positiva che negativa, e che quando funziona in direzione negativa viene indicato come “devil effect”.
Un giudizio quindi che solo evidenti prove contrarie possono modificare, dato che sia l’effetto alone che l’effetto del diavolo influiscono su di noi senza che ce ne rendiamo conto.

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Pensiamo a quanto ciò possa influenzare i nostri giudizi sia sulle persone sia su tutto ciò che ci circonda: prodotti, canali di comunicazione, organizzazioni, politica: tutto è sottoposto a questo effetto.
Un grande impatto anche sul marketing, dove non è raro trovare “prodotti alone” appositamente lanciati per promuovere le vendite di un intero brand.

Basti pensare a quando, da utenti, approdiamo su un sito di cui ci piace un certo aspetto: è molto probabile che continueremo ad averne un giudizio positivo e torneremo a visitarlo.
Stesso vale per il contrario: un’esperienza negativa riguardo un certo aspetto farà sì che, sebbene nel frattempo quel sito venga migliorato, difficilmente torneremo a visitarlo.

Sempre per quanto riguarda il web marketing, è stato notato che la qualità dei risultati di ricerca interna ad un sito influenza notevolmente il giudizio che hanno gli utenti sulla qualità del marchio e dei suoi prodotti.
Un ragionamento non logico, certo, ma è proprio questo l’effetto alone: passare direttamente dall’impressione di un aspetto al giudizio complessivo.

Cosa di non poco conto, ad esempio, per chi analizza le prestazioni di un sito, in quanto un calo degli utenti potrebbe rispecchiare l’effetto della loro prima impressione negativa su alcuni elementi di progettazione, contenuti o grafica.

La conclusione è che, non potendo essere immuni dall’effetto alone, dovremo sempre farci i conti, sia per considerare i nostri giudizi sia, per chi lavora nel marketing, tenerlo in considerazione

05 Giu 2019

Il ruolo della Gamification nella rivoluzione HR

Il ruolo della Gamification nella rivoluzione HR

Le aziende stanno attraversando un periodo di grandi trasformazioni e cambiamenti. Il modo di vivere e intendere il lavoro sta cambiando. Sul posto di lavoro vengono richieste sempre meno azioni meccaniche e ripetitive e sono necessari piuttosto creatività, coraggio e leadership.

I cambiamenti del mondo del lavoro hanno fatto nascere nuove esigenze, come la flessibilità in entrata e in uscita, la libertà di gestire il proprio orario, un mind setting diverso che punta all’obiettivo e alle soluzioni.

Termini come smart working, employee advocacy, paradigma BYOD (Bring Your own Device – porta il tuo device a lavoro), lavoro da remoto e intrapreneurship hanno fatto la loro prepotente comparsa nelle aziende, già profondamente cambiate dalle nuove tecnologie e dai nuovi modi di organizzare il lavoro.

Ad accelerare questo processo che dà sempre maggiore rilevanza alle soft-skill e alla capacità di imparare rapidamente adattandosi a un contesto mutevole sono diversi fattori.

Ma cos’è la Gamification? Il termine, com’è facile intuire, deriva dalla parola “Game”, cioè gioco, anche associato al semplice divertimento senza scopi particolari. La Gamification tuttavia non è semplicemente questo, non solo: traendo vantaggio dall’interattività concessa dai mezzi moderni ed ovviamente dai principi alla base del concetto stesso di divertimento, la Gamification rappresenta uno strumento estremamente efficace in grado di veicolare messaggi di vario tipo, a seconda delle esigenze, e di indurre a comportamenti attivi da parte dell’utenza, permettendo di raggiungere specifici obiettivi, personali o d’impresa. Al centro di questo approccio va sempre collocato l’utente ed il suo coinvolgimento attivo.
Il mercato videoludico si è fortemente sviluppato negli ultimi anni, con numeri che continuano a crescere senza segnali di cedimento o rallentamento, soprattutto in funzione dei profitti. Quella del videogioco è ormai un’industria enorme, in grado di creare prodotti per molteplici piattaforme, dalle console dedicate ai telefoni cellulari alle TV domestiche.

How-Gamification-Can-Take-Digital-Employee-Engagem

Ma la gamification funziona davvero?
Possiamo davvero ricreare quel legame motivazionale che esiste da oltre trent’anni tra videogioco e videogiocatore in ambito lavorativo? O, in realtà, queste società stanno vivendo una sorta di allucinazione collettiva, e le leve di motivazione e ingaggio possono essere usate solo in un contesto ludico e disinteressato, proprio perché esse stesse rappresentano un momento di evasione e relax?
È davvero possibile trasferire gli sforzi mentali e fisici a cui il videogiocatore è abituato durante le sessioni di gioco all’ambito lavorativo.

Quel mix di concentrazione, attenzione al particolare, coordinamento, strategia, creatività e attitudine al problem solving o al lavoro di squadra?
La risposta è sì, come dimostrato da moltissime case histories.

Case studies nel mondo aziendale
Nel mondo del lavoro la gamification può servire a completare le informazioni che riceviamo dal CV di una persona, permettendoci di avere un riscontro sulla sua tenacia, resilienza, capacità di adattamento, problem solving, gestione del breve-medio-lungo termine, sulla sua capacità di creare strategie e sulla costanza nel perseguirle. Per questa ragione molte aziende scelgono di arricchire i propri processi di recruitment, performance management e talent acquisition con tecniche di engagement e gamification.
Non a caso la neonata scienza della Gamification da 100 milioni di dollari di fatturato attestato nel 2010 ha raggiunto i 2,8 miliardi nel 2016.

Nel Febbraio 2015 MSC crociere ha inaugurato Inner Islands, un progetto digitale che ha portato 8 studenti e giovani laureati a un contratto di stage retribuito presso le sedi in Italia, Francia, Spagna e Germania. A essere rivoluzionaria è la modalità di selezione del nuovo personale, non più attraverso colloqui standard bensì con un grande gioco che funge da tool di recruiting e validazione delle capacità dei candidati.

Un esperimento affascinante e di larga portata sicuramente da citare in questo ambito è la partnership del 2012 di Yammer e Badgeville, che hanno interfacciato le loro due piattaforme: quella di Badgeville che è una “Behaviour Platform” con la quale è possibile introdurre logiche di gamification in contesti aziendali guidando azioni e change behaviour, permette agli utenti di ottenere dei badge, che in seguito all’accordo sono notificabili all’interno del network Yammer, nota piattaforma creata per facilitare la comunicazione e la condivisione all’interno dei team aziendali.

Altro importante esempio nel campo del recruiting viene dall’Ungheria: una soluzione creata da T-System, denominata “I KNOW IT“. Un business game che mette alla prova i candidati in quattro specifiche aree di interesse aziendale: service desk, support/operation, testing e project management. La piattaforma analizza i risultati e fornisce agli aspiranti lavoratori dei feedback utili e, contemporaneamente, sgrava l’azienda dalla lettura di migliaia di CV attraverso un primo screening automatico.
Siamo pronti a scommettere che la Gamification e l’engagement design giocheranno un ruolo di primo piano nella rivoluzione in atto, cambiando il loro mindset e arricchendo gli strumenti di gestione delle risorse umane a disposizione della Direzione del personale.

Un esempio pratico? L’integrazione di una piattaforma di talent assessment con l’ATS aziendale permetterà alle aziende di sfruttare la gamification e incorporarla nei propri processi di ricerca e selezione.

In questo momento storico, tutto ciò che interagisce con l’uomo sta cambiando e il settore HR, essendo la funzione aziendale più vicina alle persone, rappresenta un enorme “touching point” tra l’azienda e coloro che in essa vivono, lavorano e si sviluppano. Un laboratorio dove tutto viene progettato, sperimentato e divulgato ad un ritmo che si fa sempre più veloce e dove le innovazioni diventano sempre più radicali, pervasive e rilevanti per il miglioramento della vita delle persone.

Se sfruttate nel modo corretto le dinamiche di gioco possono davvero aiutarci a migliorare la qualità della vita delle persone (sia come singoli sia come collettività) sotto tantissimi punti di vista.

La gamification è quindi tutt’altro che un gioco: si tratta anzi un’importante risorsa da conoscere meglio e applicare con attenzione.