31 Ott 2018

Mobbing lavorativo: come individuarlo e difendersi.

Mobbing lavorativo: come individuarlo e difendersi.

Che cos’è il mobbing?

La parola “mobbing” deriva dal verbo inglese to mob, che significa accerchiare, circondare, assediare, attaccare, assalire in massa qualcosa o a qualcuno. L’etologo Konrad Lorenz utilizza questa espressione nei suoi studi per indicare il comportamento di alcuni animali della stessa specie che si coalizzano contro un membro del gruppo attaccandolo ed escludendolo dalla comunità di appartenenza.
Negli anni Ottanta, lo psichiatra e psicologo del lavoro tedesco Heinz Leymann applica per la prima volta il termine coniato da Lorenz all’ambito lavorativo in seguito all’osservazione di alcuni operai e impiegati svedesi vessati psicologicamente sul luogo di lavoro. Egli considera il conflitto il presupposto fondamentale per la nascita del mobbing. Poiché il conflitto è caratterizzato dalla divergenza di opinioni ed ogni parte è convinta dell’esattezza delle proprie e non intende scendere a compromessi, è facile intuire come dal conflitto al mobbing il passo sia breve. Ege evidenzia, invece, come tale fenomeno consista essenzialmente in un problema di comunicazione, in un conflitto routinario e in un atteggiamento ostile nei confronti di una o più persone dovuti a sentimenti di rivalsa da parte del mobber verso il mobbizzato. L’Associazione tedesca contro lo Stress Psico-sociale ed il mobbing, fondata nel 1993, ha fornito una definizione ufficiale del fenomeno del mobbing, secondo la quale esso consisterebbe in una “comunicazione conflittuale sul posto di lavoro tra colleghi o tra superiori e dipendenti nella quale la persona attaccata viene posta in una posizione di debolezza e aggredita direttamente o/e per lungo tempo con lo scopo e/o la conseguenza della sua estromissione dal mondo del lavoro”. Questa definizione sottolinea gli aspetti legati a una forma negativa di comunicazione tipica dei luoghi di lavoro che prevedono la convivenza obbligatoria e forzata con soggetti non scelti, ma imposti dall’organizzazione lavorativa. Negli ultimi anni il termine mobbing viene utilizzato abitualmente per indicare quelle forme di violenza psicologica attuata sul posto di lavoro, caratterizzate da comportamenti violenti e oppressori ripetuti nel tempo.
Tra le condotte riconducibili al fenomeno del mobbing si identificano: isolamento, critica,  diffamazione, derisione, affidamento di compiti declassanti, spostamento da un ufficio ad un altro, esclusione dalla comunicazione organizzativa, violenza e molestie sessuali.

Come identificarlo?

Si possono individuare tre criteri basilari che rappresentano gli elementi identificativi del mobbing:

  1. Intenzionalità dell’attività vessatoria e percezione del mobbing;
  2. Carattere asimmetrico della relazione di potere tra l’aggressore (mobber) e la vittima (mobbizzato);
  3. Frequenza e durata delle azioni negative.

Nell’esperienza negativa del mobbing, le vittime sembrano attribuire la causa della loro sofferenza a fattori esterni come ad esempio la personalità sadica dell’aggressore, e dunque la sua effettiva intenzione nel colpirle. Considerando però che il mobbing consiste nel susseguirsi di azioni negative che permangono nel tempo, è difficile pensare che non vi sia l’effettiva intenzione dell’aggressore di creare nocumento.
Per quanto concerne la relazione che intercorre tra gli attori del mobbing è stata posta molta enfasi sulla relazione tra superiore e subordinato considerando le situazioni in cui la vittima percepisce di essere inferiore all’aggressore e di non potersi difendere. Il potere, cioè la capacità di produrre un cambiamento negli altri, è una condizione fondamentale nel funzionamento dell’organizzazione e conseguenti disuguaglianze di potere sono inevitabili.
Riguardo alla frequenza del fenomeno, condizioni di conflitto “momentanee” non sono indicative, ma situazioni in cui i comportamenti vessatori sono all’ordine del giorno e di significativa intensità, determinano un’insostenibilità psicologica che può condurre ad un cedimento psico-fisico del soggetto mobbizzato.

Quali sono le cause?

Tra le determinanti del fenomeno del mobbing si individuano tre aree di indaginepersonalità dei soggetti interessatidinamiche di gruppo e  contesto organizzativo.
Considerando i tratti di personalità si presuppone che le persone siano a priori destinate ad essere dei mobber o dei mobbizzati sulla base delle proprie caratteristiche, indipendentemente dalla specifica situazione. In particolare, le principali categorie di vittime più frequentemente riscontrate dalla Clinica del Lavoro di Milano sono:

  • “i creativi”. Propositivi, innovatori, brillanti, spiccano nel proprio gruppo di lavoro caratterizzato da  valori medi di capacità. Essi possono divenire obiettivi da colpire da parte dei colleghi (mobbing emozionale o orizzontale);
  • “gli onesti”. Soggetti operanti in gruppi molto uniti in cui chi non è complice può essere escluso o emarginato dagli altri (fenomeno tipico nelle manifestazioni di disonestà sul posto di lavoro);
  • “i disabili”. Persone deboli e facilmente escluse e ghettizzate.
  • “i superflui”. Categoria che si costituisce in occasione di fusioni tra aziende, accorpamenti, riorganizzazioni. In questi casi, il mobbing si configura come una strategia di “alleggerimento” del personale (mobbing pianificato dai vertici aziendali)

Un’altra tipologia di soggetti divenuta attualmente “a rischio” sono coloro che hanno un’elevata anzianità lavorativa e, pertanto, hanno un costo più elevato rispetto a risorse più giovani.

Per quanto concerne le dinamiche di gruppo è argomento controverso stabilire quali possano essere i fattori scatenanti dell’emarginazione. L’elemento considerato il più probabile consiste nella diversità del soggetto emarginato dal resto del gruppo. Accade, infatti, che nel contesto lavorativo si costituisca una piccola comunità coesa e chi si discosta da questa può esserne escluso. La figura considerata “il capro espiatorio” possiede perciò caratteristiche comportamentali “devianti” rispetto al gruppo, tali da considerarlo un bersaglio.

Riguardo al fattore organizzativo, invece, le principali determinanti del mobbing riscontrate sono: comportamento inefficace della leadership, carenze nell’organizzazione del lavoro, cattivo clima aziendale. Una leadership autoritaria e accentratrice, fondata sulla critica, sulla supervisione esasperata ed orientata ad una logica di “premi e punizioni”, può favorire un clima sociale poco sereno caratterizzato da competizione e invidia. La leadership dovrebbe ricoprire un ruolo di supervisione nel controllare che siano rispettate le regole in vigore nell’ambiente di lavoro sorvegliando, riconoscendo e risolvendo tempestivamente i conflitti. Non ottemperando a questo dovere promuove volutamente o inconsapevolmente l’escalation del conflitto nella direzione del mobbing. Per quanto riguarda gli aspetti organizzativi, l’Inail (allegato 1 alla circ. n. 71/2003) riconosce quadri patologici ricollegabili a “fattori di costrittività” dell’organizzazione, rappresentati da:

  • Demansionamento, mancanza di adeguati strumenti di lavoro, trasferimenti ingiustificati ripetuti;
  • Attribuzione di compiti declassanti rispetto al proprio ruolo professionale;
  • Prolungata attribuzione di compiti eccessivi che il lavoratore non è in grado di svolgere anche in relazione ad eventuali handicap psico-fisici;
  • Difficoltà o impossibilità all’accesso di notizie;
  • Fornitura di informazioni inadeguate all’ordinaria attività di lavoro;
  • Ripetuta estromissione del lavoratore rispetto ad iniziative qualificanti, formative e di aggiornamento professionale;
  • Forme di controllo esasperate e superflue.

Come difendersi?

La vittima di mobbing mette in atto dei tentativi di fronteggiamento (coping) per difendersi dagli attacchi subiti. Tali strategie di coping attuate dai mobbizzati per affrontare le situazioni di disagio vissute sul lavoro sono:

  • Manifestazione di una forte riduzione del livello di commitment nei confronti del proprio lavoro (abbandono);
  • Strategie di problem solving attivo quali il confronto con i diretti responsabili del loro disagio, o ricerca di conforto e appoggio da colleghi e/o familiari (dialogo);
  • Strategie di problem solving passivo, proseguendo con il lavoro con devozione verso l’organizzazione sperando nell’aiuto del management (fedeltà);
  • Abbandono del posto di lavoro (uscita).

Tali strategie sono tendenzialmente messe in atto con questa successione, poiché le vittime intraprendono un complesso percorso di tentativi diversi per risolvere il problema, dove la scelta di abbandonare il posto di lavoro rappresenta “l’ultima spiaggia”.

Qual è il rapporto tra stress lavoro correlato e mobbing?

Il tema specifico delle molestie e della violenza tipiche del mobbing sul posto di lavoro non è oggetto dell’accordo europeo sullo stress lavoro correlato siglato dal sindacato europeo e dalle associazioni datoriali europee in data 8 Ottobre 2004 (recepito in Italia il 9 Giugno 2008). Tuttavia appare evidente che molte delle dinamiche messe in atto per esercitare maltrattamenti morali sono analoghe ai fattori di stress presenti in organizzazioni inadeguate, anche senza una precisa volontarietà lesiva.
Le condizioni lavorative che causano stress lavoro correlato sono in grado di rendere l’ambiente di lavoro un focolaio in cui possono prender vita fenomeni di mobbing. Di conseguenza, valutare e tenere sotto controllo tutti i possibili stressors legati al contesto organizzativo ed ai rapporti interpersonali sul lavoro, è fondamentale per creare un ambiente che scoraggi l’esercizio di forme di violenza di natura volontaria.

23 Ott 2018

La psicologia al servizio dei datori di lavoro

La psicologia al servizio dei datori di lavoro
L’ Art. 28 del D.Lgs. 81/08, che invita ad eseguire la valutazione dello stress lavoro-correlato, appare a molti imprenditori come l’ennesima pressione da sopportare e da“sbrigare” nel modo più economico, veloce e meno invadente possibile, oltre ad essere magari l’ennesimo decreto da sabotare o da dirottare politicamente perdendo l’occasione di utilizzare nuove conoscenze date dalle scienze psicologiche per provare ad attuare dei cambiamenti.
Per abitudine, per cultura, per stili di gestione l’Italia è un paese che troppo raramente investe nella formazione continua, non ama mettere in discussione modelli gestionali che assicurano o che hanno assicurato lo stipendio a fine mese, in altre parole si teme l’ignoto e tutto ciò che in qualche modo appare estraneo; inoltre qualora si voglia investire per esempio nella formazione si fatica a trovare un’offerta che sia qualitativamente e quantitativamente adeguata alle esigenze aziendali.
Le difficoltà, la confusione e la sfiducia espressa da parte dei datori di lavoro trova espressione nella richiesta di essere sottoposti a test che rilevino il loro livello di stress individuale causato dal D.Lgs. 81/08 poiché irrompe prepotentemente nelle loro aziende e nella loro tranquillità lavorativa assodata nel tempo.
Ad oggi, la mancanza di chiare Linee Guida, per la valutazione dello stress lavoro-correlato, ha permesso alle molteplici fantasiose personalità di esprimersi senza regole troppo precise, lanciando sul mercato prodotti accattivanti per cercare di “rosicchiare” ancora un po’ un mercato già pesantemente “azzannato”.
Come eseguire quindi una valutazione, non fine a se stessa, i cui ingredienti siano capacità preventiva e valutativa in un approccio organizzativo globale?
Il D.Lgs.81/08 individua chiaramente nel datore di lavoro la figura deputata a tale valutazione ma non fornisce, purtroppo, altrettante indicazioni su come eseguirla. Le figure già previste dal decreto e di supporto al datore di lavoro quali l’RSPP e il MC si offrono spesso di partecipare a tale valutazione, pur non avendo approfondita conoscenza e consapevolezza rispetto all’ambito psicologico da indagare.
Una buona valutazione richiede l’utilizzo di molteplici tecniche psicologiche; gli psicologi maturano, nel loro percorso formativo, grande consapevolezza e conoscenza dei fattori umani e dei rischi psicosociali insiti nelle organizzazioni.
Grande o piccola l’azienda è comunque fatta di persone la cui consulenza richiede una specifica preparazione, offrendo così un supporto non invadente capace d’essere un reale aiuto qualitativo,a sostegno dei datori di lavoro e di tutti i lavoratori.
Metodologie psicologiche integrate
In questo ultimo mese si parla molto di analisi qualitativa (interviste, osservazioni, colloqui) e quantitativa (questionari), in una sorta quasi d’opposizione l’una all’altra.
In aziende piccole, medie ed oggi anche grandi, una mera valutazione quantitativa (oggettiva) non riesce sempre ad evidenziare potenziali rischi psicosociali, né come la raccolta degli indicatori oggettivi aziendali (giorni di malattia, assenteismo, turnover, etc.) possano definire la soglia al di sopra della quale tale valutazione sia opportuno eseguirla, aprendo un’interessante sfida sull’argomento e sull’applicazione di queste tecniche. Piccole o grandi le aziende sono create da persone, basate su una o più culture, con mille o più difficoltà; l’analisi qualitativa, eseguita attraverso colloqui, interviste, osservazioni, etc. si dimostra essere quella mano che conduce “i numeri” in una specifica dimensione, e ancora, quell’occhio che riconosce i risultati quantitativi contestualizzandoli.
Conclusione
Da ciò si possono evincere una serie di considerazioni finalizzate alla valutazione dello stress lavoro-correlato: da una parte l’importanza dell’utilizzo di molteplici metodologie (sia qualitative che quantitative), ogni qual volta sia possibile, in un’ottica complementare ed integrativa; dall’altra l’importanza d’avere esperti della materia che abbiano conoscenza e consapevolezza delle metodologie da utilizzare affinché la valutazione assuma un carattere non solo valutativo bensì preventivo al servizio del datore di lavoro e dell’intera organizzazione.
16 Ott 2018

La motivazione al lavoro

La motivazione al lavoro

La motivazione è in gran parte determinata dalla psicologia di un individuo. Le nostre vite, soprattutto la nostra vita lavorativa, sono fortemente influenzate dai sistemi di ricompensa creati dal nostro cervello.

Per capire come la gente interpreti la ricompensa, i leader possono capire quale sia il modo migliore per motivare con successo la loro squadra, e come comunicare in modo più convincente con i loro clienti. Ricordati, il termine ricompensa non implica sempre un significato economico.

Avere un team adeguatamente motivato significa in genere avere clienti più soddisfatti e felici.

Quando pensiamo al lavoro, di solito mettiamo la motivazione e il pagamento sullo stesso piano valoriale, ma la realtà è che probabilmente dovremmo aggiungere al nostro concetto di motivazione anche: il significato, la creazione, le sfide, la propria identità, l’orgoglio.

Per saperne di più su ciò che rende le persone più produttive e più felici al lavoro, sono stati eseguiti numerosi studi riguardanti questo affascinante argomento. Qui di seguito, diamo uno sguardo ad alcuni degli studi di Dan Ariely (economista comportamentale) contenenti interessanti implicazioni riguardanti ciò che ci fa sentire bene nel nostro lavoro.

1. Vedere i Frutti del Nostro Lavoro Può Renderci Più Produtti

L’esperimento: In uno studio condotto presso la Harvard University, Dan Ariely ha formato due gruppi e a entrambi i partecipanti ha chiesto di costruire i personaggi della serie Lego Bionicles, che sarebbero stati pagati loro con un importo decrescente per ogni successiva realizzazione: 3 dollari per il primo, 2,70 dollari per il successivo, e così via.

Mentre le realizzazioni del gruppo A venivano conservate sotto il tavolo, per essere smontate alla fine dell’esperimento, i Bionicles del gruppo B venivano invece smontati non appena erano stati costruiti, in un ciclo infinito di in cui quelli che costruivano vedevano distruggere le proprie creazioni davanti ai loro occhi.

I risultati: gli individui del gruppo A hanno costruito in tutto 11 Bionicles, in media, mentre chi partecipava nel gruppo B ne ha fatto solo 7 prima di smettere.

Il risultato finale: Anche se la posta in gioco non era elevata, e anche se gli appartenenti al gruppo A sapevano che il loro lavoro sarebbe stato distrutto al termine dell’esperimento, poter vedere i risultati del loro lavoro, anche per un breve periodo di tempo è stato sufficiente per migliorare sensibilmente le prestazioni.

2. Meno Viene Apprezzato il Nostro Lavoro, Più Sono i Soldi che Vogliamo in Cambio per Farlo

L’esperimento: Ariely ha dato ai partecipanti allo studio (studenti del MIT) – un pezzo di carta sul quale erano scritte lettere a caso, e ha chiesto loro di trovare le coppie di lettere identiche.

Ad ogni fase venivano offerti loro sempre meno soldi rispetto al turno precedente. Le persone del primo gruppo dopo aver scritto i loro nomi sui fogli e averli consegnati allo sperimentatore, questo dopo aver pronunciato un ambiguo “Uh huh”, riponeva quei fogli in un mucchio.

Gli individui del secondo gruppo non avevano scritto i loro nomi, e lo sperimentatore metteva le schede da loro consegnate in un mucchio, senza nemmeno guardarle.

Gli appartenenti al terzo gruppo hanno visto triturare il loro lavoro immediatamente dopo averlo completato.

I risultati: le persone che hanno visto distruggere il loro lavoro, al fine di continuare a fare quel compito necessitano del doppio di soldi rispetto a quelli il cui lavoro è stato riconosciuto.

Le persone del secondo gruppo, il cui lavoro è stato conservato ma ignorato, occorrono quasi tutti i soldi delle persone il cui lavoro è stato tagliuzzato.

Il risultato finale: Ignorare le prestazioni lavorative delle persone equivale quasi a frantumare il loro sforzo davanti ai loro occhi. La buona notizia è che aggiungere un po’ di motivazione non sembra essere così difficile. La cattiva notizia è che eliminare la motivazione è incredibilmente facile, e se non stiamo attenti potremmo esagerare.

3. Più Difficoltoso è un Progetto, Più ci Sentiamo Fieri di Lavorarci

L’esperimento: In un altro studio, Ariely diede a un gruppo di costruttori di origami principianti, carta e istruzioni per costruire una forma (abbastanza brutta, tra l’altro).

 

A chi aveva fatto il progetto origami, così come agli spettatori, fu chiesto alla fine quanto avrebbe pagato per quel prodotto realizzato.

In una seconda variante Ariely nascose le istruzioni da alcuni partecipanti, che realizzarono un prodotto più brutto facendo anche più fatica.

I risultati: Nel primo esperimento, chi aveva costruito gli origami avrebbe pagato il prodotto finito cinque volte di più rispetto a chi lo aveva solo valutato da spettatore.

Nel secondo esperimento, la mancanza di istruzioni ha enfatizzato questa differenza: i costruttori avevano valutato i prodotti brutti ma costruiti con difficoltà con un prezzo ancor più elevato rispetto a quelli realizzati con più facilità ed esteticamente migliori, mentre la valutazione degli osservatori era ancora inferiore.

Il risultato finale: la valutazione sul valore del nostro lavoro è direttamente legata allo sforzo che abbiamo speso per compierlo. Inoltre, pensiamo erroneamente che anche le altre persone attribuiscano lo stesso valore che noi diamo al nostro lavoro.

4. Sapere che il Nostro Lavoro Aiuta gli Altri Può Aumentare la Nostra Motivazione Inconscia

L’esperimento: Come descritto sul New York Times Magazine, lo psicologo Adam Grant ha condotto uno studio presso il call center per la richiesta di fondi per l’Università del Michigan, in cui uno studente che aveva beneficiato della borse di studio grazie alla raccolta fondi del centro, ha parlato per 10 minuti alle persone che lavoravano nel call center per richiedere via telefono donazioni alle persone.

I risultati: Un mese dopo, gli addetti del call center trascorrevano il 142% di tempo in più tempo al telefono rispetto a prima e i ricavi erano aumentati del 171%. C’è da dire però che questi hanno negato che l’intervento dello studente che aveva ricevuto la borsa di studio li avesse in qualche modo influenzati.

Il risultato finale: i buoni sentimenti hanno scavalcato i processi cognitivi consci degli addetti al call center, andando ad attingere ad una risorsa motivazionale subconscia. Sono stati spinti maggiormente ad avere successo, anche se non hanno individuato il fattore scatenante di tale forza motivazionale.

5. L’impegno di Aiutare gli Altri ci Rende Più Propensi a Seguire le Regole

L’esperimento: Grant ha condotto un altro studio in cui ha messo dei cartelli nelle aree adibite al lavaggio mani di un ospedale, sui quali si leggeva “L’igiene delle mani ti protegge dall’insorgenza di malattie” o “L’igiene delle mani previene ai pazienti di contrarre malattie”.

I risultati: Medici e infermieri utilizzarono per il 45% più sapone o disinfettante nelle stazioni con i cartelli che menzionavano i pazienti.

Il risultato finale: Aiutare gli altri attraverso quello che viene chiamato “comportamento prosociale” ci dà una forte motivazione al lavoro.

6. Il Rinforzo Positivo sulle Nostre Capacità Può Aumentare le Prestazioni sul Lavoro

L’esperimento: degli studenti della Harvard University hanno parlato e condotto finte interviste con due gruppi sperimentali: con i partecipanti al primo gruppo gli sperimentatori annuivano e sorridevano, mentre si erano rivolti al secondo gruppo scuotendo la testa inarcando le sopracciglia e incrociando le braccia.

I risultati: i partecipanti al primo gruppo in seguito risposero più accuratamente ad una serie di domande numeriche rispetto a quelli del secondo gruppo.

Il risultato finale: le situazioni stressanti possono essere gestibili, dipende tutto da come ci sentiamo. Ci troviamo in uno “stato di sfida” quando pensiamo di poter gestire un determinato compito (come ha fatto il primo gruppo). Quando invece siamo in uno “stato di minaccia“, la difficoltà del compito ci travolge, e ci scoraggiamo.

Siamo più motivati ​​e lavoriamo meglio all’interno di una stato di sfida quando abbiamo fiducia nelle nostre capacità.

7. Le Immagini che Innescano Emozioni Positive Possono Davvero Aiutarci a Focalizzarci sul Lavoro

L’esperimento: I ricercatori dell’Università di Hiroshima chiesero agli studenti universitari di eseguire un compito di destrezza prima e dopo aver guardato le immagini di animali cuccioli e adulti.

 

I risultati: in entrambi i casi si sono verificati miglioramenti di prestazione, ma un miglioramento superiore del 10% si è verificato quando i partecipanti hanno guardato le immagini di simpatici cuccioli e gattini.

Il risultato finale: i ricercatori suggeriscono che l’emozione positiva sella “carineria-scatenante” ci aiuta a focalizzare la nostra attenzione, aumentando le nostre prestazioni su un compito che richiede molta concentrazione.

09 Ott 2018

Le competenze necessarie nei team di lavoro

Nel mondo del lavoro di oggi è importante che i team siano altamente performanti, inter-funzionali e formati da persone in grado di adattarsi prontamente ai cambiamenti ed alla flessibilità richiesta nei contesti organizzativi.
La capacità di lavorare efficacemente in squadra, per il raggiungimento di obiettivi comuni, rappresenta quindi una competenza fondamentale per il successo delle persone e delle aziende.

 

Ecco le competenze fondamentali per una buona riuscita di un team.

1. Entusiasmo e Commitment

Un membro del team esemplare trasmette entusiasmo e commitment agli altri. L’impegno per la causa passa attraverso la condivisione degli ideali, della vision e della mission dell’organizzazione.

2. Competenza
Un buon team player si assicura di essere preparato. All’interno di un team composto da persone competenti, infatti, è più facile che le persone abbiano fiducia nel raggiungimento della qualità del risultato. La competenza costruisce una squadra forte e riduce l’ansia.

3. Perseveranza e Impegno
La perseveranza, la focalizzazione verso l’obiettivo, è facile per coloro che sono impegnati e concentrati. Quando si è impegnati, inoltre, si è fermi nella convinzione di farcela.

4. Creatività
Il pensiero fuori dagli schemi è la chiave per la trasformazione organizzativa e genera innovazione. Un team che risolve problemi in maniera creativa è vincente perché fatto di persone che non hanno avuto paura di condividere il loro pensiero, anche se non convenzionale, unite a persone che sono state capaci di accogliere nuove idee.

5. Senso dell’umorismo
La leggerezza tiene unita la squadra, insieme ai valori e alla visione condivisi. La dedizione e l’impegno nei confronti dei valori condivisi non impediscono ai membri del team di divertirsi!

6. Curiosità
I migliori membri del team fanno domande aperte, non sono portatori della verità assoluta e sono curiosi per natura, aperti ad ascoltare altri punti di vista.

7. Affidabilità
Un membro ideale del team comprende l’importanza dell’impegno preso verso se stessi e verso gli altri. Affidabilità è mantenere la parola data, di volta in volta.

8. Collaborazione
La collaborazione è prima di tutto dare il proprio contributo, prima ancora che offrirsi di aiutare gli altri. I membri forti del team valorizzano il potere e la sinergia create da un’efficace collaborazione.

 

02 Ott 2018

Il lavoro e la felicità

Si chiama Chief Happiness Officer e sviluppa la felicità sul posto di lavoro. Aiuta le aziende a misurare la felicità attraverso nuovi parametri come il grado di soddisfazione, la crescita del brand e la diminuzione degli infortuni.

Ecco alcuni consigli da seguire per perseguire la felicità sul posto di lavoro.

Iniziamo con aiutare gli altri
Parliamo di azioni di gentilezza nei confronti di un collega (offri aiuto con un progetto, fai un complimento sincero, fai spuntare un sorriso in un momento difficile, offri un caffè, etc). Se un collega è in difficoltà, invece di parlare di lui con gli altri, aiutalo.

Dedichiamo del tempo ai colleghi
Fermati a parlare con qualcuno alla macchinetta del caffè, instaura nuove relazioni, siediti ad un tavolo con persone nuove a mensa, connettiti con le persone e mantieni questi rapporti.
Un buon rapporto con gli altri, sul posto di lavoro, ci aiuterà a sorridere di più, ad alleviare la tensione, stimolare la creatività e migliorare le prestazioni.

Non fermarti, impara cose nuove
Prova a fare cose per la prima volta; impara da un collega, segui il modus operandi del capo, leggi un libro inerente un argomento che può aiutarti sul lavoro.
Imparare cose nuove ci fa sentire bene, ci mantiene curiosi ed entusiasti, inoltre ci dona un senso di successo e realizzazione che aumenta la fiducia in noi stessi.

Rimani positivo
Le emozioni positive, oltre che farci stare bene, ci permettono di lavorare meglio aumentando la nostra capacità di affrontare situazioni negative e la nostra flessibilità. Allenati ad essere positivo quindi in ogni situazione ed a guardare il bicchiere mezzo pieno svolgendo compiti che ti fanno stare bene, sorridendo e cercando di dire qualcosa di positivo quando si entra in ufficio. La reazione degli altri potrebbe sorprenderti.
Lasciamo fuori la negatività.

Stare bene con noi stessi
Cerca di essere con te stesso gentile allo stesso modo in cui lo sei con gli altri.
Guarda ai tuoi errori come a opportunità di crescita e celebra i tuoi successi, anche se piccoli.

Sviluppa la resilienza
E’ la capacità di gestire lo stress in modo sano, esercitandosi a riflettere prima di agire ed a mantenersi ad un certa distanza dai problemi, che non vuol dire fuggire e scansarli nascondendosi, ma guardarli dall’esterno.
Avremo un senso di stima e soddisfazione più elevato, saremo in grado anche di aiutare maggiormente i colleghi e soffriremo meno gli effetti negativi dello stress.