25 Nov 2020

FEMMINICIDIO: LA PSICOLOGIA DI UN DELITTO

FEMMINICIDIO: LA PSICOLOGIA DI UN DELITTO

Il femminicidio è l’omicidio di donne in nome di sovrastrutture ideologiche di matrice patriarcale. Si riferisce all’uccisione di una donna, bambina o adulta, da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, come conseguenza del mancato assoggettamento fisico e psicologico della vittima. Il femminicidio differisce dal generico omicidio, definito come “qualsiasi azione che abbia come conseguenza la morte di un soggetto da parte di un altro soggetto”.

La violenza che non sfocia in un gesto che provochi l’uccisione della vittima può, all’interno del rapporto personale o familiare, essere traumatica e dare l’avvio a disturbi post-traumatici da stress.

Sono state individuate due tipologie di sindromi conseguenti a maltrattamenti:

  • La sindrome di Stoccoloma domestica (Domestic Stockholm Syndrome, DDS) – è una condizione psicologica in cui una persona, vittima di un sequestro o di una condizione di restrizione della propria libertà, può manifestare sentimenti positivi nei confronti del proprio abusatore. Nelle donne maltrattate, tale sindrome si realizza come meccanismo di coping per fronteggiare le violenze intime. Le vittime credono che la propria sopravvivenza sia completamente nelle mani del suo abusante e che l’unico modo per sopravvivere sia di essergli fedele.
  • La sindrome della donna maltrattata (Battered Woman Syndrome, BWS) – è simile alla sindrome di Stoccolma, ma si iscrive all’interno di un “ciclo della violenza” che si articola in una prima fase di accumulo della tensione, una seconda fase di aggressioni e percosse, ed una terza fase di cosiddetta “luna di miele” (una fase “amorosa” di sollievo, che in realtà amplifica il disagio, creando nella vittima speranze illusorie sul fatto che il partner possa cambiare e la violenza possa cessare).

LE RICADUTE SULLA SALUTE

Le conseguenze sulle donne vittime delle violenze sono devastanti.

Un atto di violenza, fisico, psicologico o sessuale cambia una donna per sempre. Può colpire la sua salute fisica, distruggere la sua salute mentale e provocare danni e sofferenze che porterà con sé per il resto della sua vita. Spesso le vittime riportano:

  • lividi e contusioni;
  • gravi infortuni;
  • problemi ginecologici e riproduttivi;
  • gravidanze indesiderate e aborti;
  • malattie sessualmente trasmissibili, come l’HIV;
  • depressione e ansia;
  • disturbi alimentari;
  • disturbi del sonno;
  • dipendenze da alcol, fumo o droghe.

Nel peggiore dei casi arrivano al suicidio.

Quando la violenza è vissuta nell’infanzia le conseguenze sono ancor più drammatiche e irreversibili.

IL PROFILO DEL FEMMINICIDA

L’aggressore domestico secondo quattro tipologie:

  • Il controllatore – colui che teme che il proprio dominio e la propria autorità siano messi in discussione e che pretende un controllo totale sugli altri familiari;
  • Il difensore – che non concepisce l’altrui autonomia, vissuta perciò come una minaccia di abbandono, e sceglie quindi donne in condizione di dipendenza;
  • Colui che è in cerca di approvazione e deve continuamente ricevere dall’esterno una conferma per la propria autostima, mentre qualsiasi critica scatena una reazione aggressiva;
  • L’incorporatore – colui che tende ad un rapporto totalizzante e fusionale con la partner, e la cui violenza è proporzionale alla minaccia reale o alla sensazione di perdita dell’oggetto d’amore vissuta come catastrofica perdita di sé.

Isabella Betsos distingue alcune tipologie di uomo abusante:

  • I narcisisti – hanno necessità di continua ammirazione, sono insofferenti alle critiche, indifferenti alle esigenze altrui, risultano inclini a sfruttare gli altri e hanno la tendenza ad attribuire a questi ultimi la responsabilità di quanto di negativo capita loro.
  • I soggetti con “disturbo antisociale di personalità”, in passato denominati psicopatici e sociopatici – non riescono a conformarsi né alla legge, per cui compiono atti illegali, né alle norme sociali, per cui attuano comportamenti immorali e manipolativi. Elemento distintivo del disturbo è lo scarso rimorso mostrato per le conseguenze delle proprie azioni. Altre caratteristiche rilevanti sono l’impulsività e l’aggressività.
  • Gli individui che presentano un “disturbo borderline di personalità” (DBP) – caratterizzati da repentini cambiamenti di umore, instabilità dei comportamenti e delle relazioni con gli altri, marcata impulsività e difficoltà ad organizzare in modo coerente i propri pensieri. Possono esperire sensazioni di vuoto interiore, elevata irritabilità e attacchi di collera; vi può essere il ricorso ad alcol e droghe o a comportamenti autolesivi per ridurre la tensione emotiva. Essi presentano, inoltre, relazioni con gli altri tumultuose, intense e coinvolgenti, ma ancora una volta estremamente instabili e caotiche. Non hanno vie di mezzo, sono per il “tutto o nulla”, per cui oscillano rapidamente tra l’idealizzazione dell’altro e la sua svalutazione. In molti casi le due immagini dell’altro, quella “buona” e quella “cattiva,” sono presenti contemporaneamente nella mente del soggetto borderline.
  • I perversi narcisisti – allo stesso tempo più controllati e controllori, ma il controllo non è esercitato attraverso la violenza brutale, bensì per mezzo del plagio e della menzogna. Si nutrono dell’energia di quelli che subiscono il loro fascino ed è l’invidia a guidarli nella scelta del partner.
  • Le personalità paranoiche – coloro che hanno una visione rigida del mondo in generale, e dei ruoli dell’uomo e della donna in particolare, fino ad essere veri e propri tiranni domestici secondo i quali la donna dev’essere sottomessa, non deve prendere decisioni, né essere autonoma, coltivare interessi, tanto meno frequentare altre persone, magari neppure i familiari. Il loro atteggiamento allontana la partner, cosicché essi si sentono autorizzati a ritenersi nel giusto lamentando il disamore di questa.

Combinando le dimensioni delle caratteristiche di personalità e della gravità delle violenze, si distinguono:

  • l’aggressore dominante-narcisista – per il quale la violenza è al servizio del controllo sulla partner al fine di affermare la propria fragile autostima;
  • il geloso-dipendente – che utilizza la violenza sempre in funzione del controllo, ma soprattutto nel timore dell’abbandono da parte della compagna;
  • gli aggressori antisociali – caratterizzati in realtà da diversi livelli di gravità, ma accomunati dalla caratteristica di praticare la violenza dentro e fuori le mura domestiche, come pattern generale di violazione dei diritti altrui.

IDENTIKIT PSICOLOGICO DELLE VITTIME DI FEMMINICIDIO

Si è osservato come la determinazione familiare e culturale della violenza possa innescare quel meccanismo di “propensione alla vittimizzazione” che le vittime presentano. Tra le dinamiche individuate nella “passività” delle vittime di fronte ad aggressioni anche ripetute, è spesso citato il concetto di “incapacità appresa”, secondo cui chi è ripetutamente esposto a una punizione da cui non ha vie di fuga sviluppa la tendenza a non assumere il controllo del proprio comportamento anche quando tale controllo sarebbe possibile.

Tra i motivi per cui queste donne non sanno sottrarsi alla violenza (che sfocia spesso in femminicidio) c’è quello del mantenimento della credenza che vi sia mancanza di alternative, e gli abusanti lo sanno bene, tant’è vero che l’isolamento e la violenza economica sono forme di abuso abitualmente praticate: in questi casi, scomodare il “masochismo” o parlare di collusione per donne prive di alternative sociali ed economiche è solo aggiungere ingiustizia all’ingiustizia.

Un altro fenomeno che occorre considerare nell’illustrare le dinamiche di comportamento delle vittime di femminicidio è il “legame traumatico”, potente e distruttivo, che è talvolta osservato tra le donne maltrattate e i loro abusanti.

COSA FARE?

In primo luogo, è necessaria la valutazione del rischio; successivamente si agisce sulla riduzione del rischio, facendo leva, quando possibile, sulle possibilità di autoprotezione e sulle risorse della persona. Per capire se questo è attuabile, è necessaria una precoce valutazione degli aspetti dissociativi, che comprometterebbero chiaramente le azioni autoprotettive, rendendo quindi necessario l’allontanamento immediato da casa.

Nei casi in cui questo non avviene, si può iniziare a lavorare con la vittima perché incominci a ritagliare un piccolo spazio fisico e mentale in cui stare senza il persecutore, in cui possa incominciare a riappropriarsi di sé, ad avere dei segreti, piccoli momenti in cui ciò che domina dentro di lei non è la mente dell’altro.

Il percorso procede poi con lo svelamento del gioco relazionale dell’aggressore: la vittima deve poterlo comprendere e pian piano acquisire un punto di vista esterno alla dinamica relazionale che la domina. Grazie a questa presa di coscienza, poi, incominciare il distanziamento emotivo dal persecutore; questo apre alla possibilità di ricominciare a fare scelte autonome.

Una volta costruita l’alleanza, il lavoro psicoterapeutico che segue procede per fasi e obiettivi:

  • Ricostruzione della storia personale
  • Affrontare le memorie traumatiche
  • Elaborazione del lutto
  • Ricostruzione di legami affettivi
  • Imparare a combattere
  • Riconciliarsi con sé stessi.
25 Nov 2020

VIRTUAL TEAM E VIRTUAL TEAM BUILDING

VIRTUAL TEAM E VIRTUAL TEAM BUILDING

I lavoratori virtuali e i virtual team sono una parte essenziale delle operazioni aziendali odierne. I virtual team possono essere costituiti da professionisti che lavorano da casa a tempo pieno o part time, altri che prendono parte al lavoro mobile (che non lavorano in ufficio per una parte della settimana) o persone che lavorano in una località remota. La pandemia da COVID – 19 ha avuto un forte impatto sul lavoro a distanza. Intere organizzazioni in tutto il mondo devono ora improvvisamente lavorare a distanza da casa per un periodo di tempo indefinito. Questo evento globale senza precedenti ha reso più importante che mai affrontare le sfide che derivano dall’essere parte di un team virtuale.

SFIDE PER I VIRTUAL TEAM

Una delle sfide maggiori poste dai virtual team è la cattiva comunicazione. Poiché non si può avere una comunicazione faccia a faccia, con i dipendenti virtuali, può essere difficile trasmettere messaggi. Le ragioni principali di questa barriera di comunicazione sono le differenze culturali e le differenze di fuso orari. Inoltre, mancano i segnali visivi e i gesti che si coglierebbero nella comunicazione di persona. Tuttavia, riunioni regolari e strumenti di gestione dei progetti collaborativi possono risolvere questa sfida.

Un’altra sfida deriva dalla mancanza di interazione sociale. Parte della costruzione di una cultura del posto di lavoro si riduce al divertimento insieme. I lavoratori di un virtual team non possono avere momenti di condivisione, come ad esempio andare nell’ufficio di un collega per qualche minuto di battute. Inviare una mail a un collega, ospitare un riunione del team per conversare può aiutare le persone a conoscersi a vicenda nello spazio di lavoro digitale.

Infine, potrebbero essere insufficienti gli strumenti. Se la leadership aziendale non fornisce a un team online tutti gli strumenti di collaborazione di cui ha bisogno e non istruisce i membri su come utilizzare tali strumenti, l’esperimento fallirà. La buona notizia è che sono disponibili diversi strumenti economici e gratuiti.

PERCHÈ È IMPORTANTE IL TEAM BULDING VIRTUALE?

Questa struttura aziendale richiede ai manager di trovare modi creativi per promuovere la comunicazione e la fiducia tra i membri del loro team. Senza un impegno di squadra, i dipendenti non sono altro che individui che lavorano in modo indipendente verso un obiettivo.

Le attività di team building per dipendenti in remoto non sono un concetto nuovo, ma sono una delle opportunità più sottoutilizzate per le aziende di avere un impatto sulle loro operazioni. E non è senza motivo: con una mancanza di interazione faccia a faccia, le aziende con dipendenti in remoto trovano difficile progettare team building efficaci per i virtual team.

È facile per i dipendenti che lavorano in remoto non sentirsi in contatto con ciò che sta accadendo in ufficio. Si può controllare questo isolamento costruendo forti legami personali tra dipendenti e manager. Anche i lavoratori a distanza possono sviluppare quel senso di comunità, ma è necessario uno sforzo maggiore da parte del datore di lavoro. È una buona idea promuovere il team building poiché i dipendenti isolati potrebbero non sapere a chi rivolgersi per ricevere consigli sulla gestione delle sfide sul posto di lavoro.

ATTIVIÀ PER IL TEAM BUILDING VIRTUALE

Anche quando si parla di team building virtuale, trovare l’attività giusta per il proprio team fra le tante possibili non è semplice.

Le attività si possono classificare sulla base di alcuni criteri come:

  • tempistica;
  • durata;
  • finalità;
  • frequenza.

Incrociandoli è possibile capire quale di queste può essere più indicata alla situazione specifica. Dalla Gif Battle alla condivisione delle foto delle scrivanie in disordine, passando per la compilazione del proprio manuale d’uso, esistono tantissime attività ed esercizi utili per il team building virtuale.

QUALI SONO I VANTAGGI DEI GIOCHI PER IL VIRTUAL TEAM BUILDING?

Le attività di team building virtuale possono fornire al team e all’organizzazione un’ampia gamma di vantaggi durante questi tempi difficili. Tra questi troviamo l’esperienza di connessione per offrire al team l’opportunità di riconnettersi e ottenere un po’ di tempo insieme, può migliorare il morale e distogliere la mente dagli eventi, usare la creatività.  Stimola inoltre, la comunicazione con un’attività di team building che offre al gruppo l’opportunità di lavorare insieme. Infine, aiuta ad alleggerire l’umore, a divertirsi e a distogliere la mente dallo stress e dalle incertezze di questo periodo.

18 Nov 2020

ALESSITIMIA ED EMPATIA

ALESSITIMIA ED EMPATIA

ALESSITIMIA deriva dal greco “Alexis thymos”, letteralmente “non avere parole per le emozioni”, ed indica un insieme di caratteristiche di personalità riscontrabili negli individui psicosomatici.

Furono John Nemian e Peter Sifneos ad introdurre tale termine agli inizi degli anni Settanta. Nello specifico, Sifneos lo coniò per indicare “un disturbo specifico nelle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo dei pazienti psicosomatici”. Non tutti i soggetti psicosomatici, però, esibiscono chiari elementi alessitimici.

Gli individui alessitimici, in genere, oltre ad avere un pensiero simbolico nettamente ridotto o assente, manifestano una serie di difficoltà rispetto a:

  • identificare, descrivere ed interpretare i propri e gli altrui sentimenti;
  • distinguere gli stati emotivi dalle percezioni fisiologiche (corporee);
  • individuare quali siano le cause che determinano le proprie emozioni;
  • utilizzare il linguaggio come strumento per esprimere i sentimenti, con conseguente tendenza a sostituire la parola con l’azione fisica.

I soggetti alessitimici, pur mostrando una normale attivazione fisiologica in presenza di emozioni, hanno ridotte capacità di riorganizzare gli elementi che caratterizzano la loro esperienza corporea in una rappresentazione mentale intrapsichica. Solo apparentemente, sono ben inseriti nella società. Di solito, assumono una postura rigida ed il loro volto manca di movimenti espressivi, presentano processi immaginativi coartati e tendono ad avere esplosioni di collera o di pianto incontrollato e, se interrogati sui motivi di queste manifestazioni, sono incapaci di dare spiegazioni e di descrivere quello che provano. Inoltre, tendono al conformismo sociale ed a stabilire relazioni interpersonali fortemente dipendenti, oppure preferiscono stare da soli ed evitare gli altri, tendendo quindi all’isolamento.

In più, gli individui alessitimici tendono ad assumere alcuni comportamenti compulsivi quali:

  • l’abbuffarsi di cibo;
  • l’abuso di sostanze;
  • il vivere in modo perverso la sessualità per liberarsi dalle tensioni causate da stati emotivi non elaborati.

Taylor, Bagby e Parker, a tal proposito, considerano l’alessitimia un disturbo dell’elaborazione degli affetti che interferisce con i processi di auto-regolazione e riorganizzazione delle emozioni.

Studi e ricerche recenti dimostrano che l’alessitimia è uno dei fattori di rischio per diversi disturbi, sia fisici (coronaropatie, ipertensione, disturbi gastrointestinali) che psicologici (anoressia e bulimia nervosa, depressione, disturbi d’ansia). Caratteristiche alessitimiche, inoltre, sono state individuate anche in pazienti con: dipendenza da sostanze, disturbo post-traumatico da stress, depressione. Infine, l’alessitimia è stata evidenziata anche nei pazienti cha hanno subito un trapianto, che sono in dialisi o in terapia intensiva.

COME SI SVILUPPA L’ALESSITIMIA?

Probabilmente non esiste un’unica spiegazione sulle cause di un fenomeno tanto complesso.

Gli stili di comunicazione, infatti, sono influenzati da fattori socioculturali, dall’intelligenza e dai modelli familiari di conversazione, oltre che da fattori genetici, neurofisiologici e intrapsichici.

In generale, una carente funzionalità dell’emisfero destro potrebbe spiegare non solo la difficoltà dei pazienti alessitimici a riconoscere e descrivere le loro emozioni, ma anche la loro minore capacità empatica.

Tra le varie definizioni possibili, l’alessitimia può essere considerata un deficit della funzione riflessiva del Sé per la mancanza di consapevolezza emotiva che la caratterizza.

COSA SI INTENDE PER EMPATIA?

Al contrario dell’alessitimia, l’EMPATIA è quell’abilità che consente alle persone di entrare in sintonia con i propri e gli altrui stati d’animo. Quanto più si è aperti verso le proprie emozioni, tanto più abili si è nel leggere i sentimenti altrui, infatti tale abilità si basa proprio sull’autoconsapevolezza e consente di capire come si sente un’altra persona. La capacità empatica permette di leggere e capire non solo le emozioni che le persone esprimono a parole, ma anche quelle che, più o meno consapevolmente sono espresse con il tono di voce, i gesti, l’espressione del volto e altri simili canali non verbali. Questa capacità entra in gioco in moltissime situazioni, da quelle tipiche della vita professionale a quelle della vita privata.

Secondo Goleman, l’empatia e l’autocontrollo sono due competenze sociali che aiutano l’individuo a costruirsi una vita relazionale ricca ed emotivamente soddisfacente, la quale influenza positivamente anche il benessere psico-fisico della persona.

18 Nov 2020

PERCHÉ PRENDERSI UNA PAUSA A LAVORO

PERCHÉ PRENDERSI UNA PAUSA A LAVORO

Non siamo macchine e questo vuol dire che non possiamo essere produttivi 24/7. Fare pausa mentre si lavora può sembrare un lusso, ma la verità è che è uno strumento per diventare davvero efficienti sul lavoro. Nonostante ci si può sentire spesso sopraffatti da tante cose da fare, non possiamo essere sempre concentrati e vigili. Ogni tanto serve una pausa, un momento per fermarsi e sgomberare la mente.

Prendersi una pausa è quindi necessario ed essenziale se si vuole dare il meglio di sé. Uno studio dell’Università dell’Illinois del 2011 ha rilevato che le risorse attenzionali del cervello umano diminuiscono dopo un lungo periodo di concentrazione su un singolo compito, diminuendo la nostra capacità di concentrazione e ostacolando la prestazione.

LA REGOLA DEL 52/17

La società Draugiem Group, utilizzando il software DeskTime, ha individuato il metodo di lavoro più efficace: la proporzione giusta è 52 minuti di lavoro e 17 di pausa. Questa alternanza consente ai dipendenti di essere pienamente concentrati su ciò che stanno facendo. Il break serve prima di affrontare un nuovo compito. Ma attenzione, si parla di una pausa vera, che deve essere svolta lontana da qualsiasi apparecchio digitale. Niente mail, Facebook, Whatsapp o Instagram. Se il tempo è poco meglio alzarsi dalla scrivania per uno snack, fare qualche passo per muoversi o parlare con un collega.

LA TECNICA POMODORO

È un metodo per gestire il tempo. Utilizza un timer per suddividere il lavoro in intervalli. Questa tecnica prevede 5 passaggi fondamentali: scegliere un’attività, impostare un timer per 25 minuti, lavorare senza interruzioni, pausa di 5 minuti, dopo aver completato 4 timer prendersi una pausa di 20-30 minuti.

VANTAGGI DEL PRENDERSI UNA PAUSA

  • Le pause aiutano a elaborare e conservare le informazioni. Il nostro cervello ha due modalità di funzionamento: concentrato e “diffuso”. Quando si opera in modalità diffusa, il nostro cervello è più rilassato. Alcuni studi hanno dimostrato che risolviamo i nostri problemi più difficili quando siamo in questo stato diffuso.
  • Aiutano a rivalutare gli obiettivi della giornata. Anche dedicare cinque minuti ogni paio d’ore a rivalutare i propri obiettivi quotidiani può fare una grande differenza nel modo in cui va la giornata.
  • Possono aiutare a coltivare abitudini più sane. Quando si è occupati o stressati, abitudini sane, come mangiare pasti nutrienti, fare esercizio fisico e dormire molto, possono essere facilmente dimenticate. Fare una pausa pranzo adeguata dà il tempo di incorporare queste sane abitudini nella normale giornata lavorativa. Fare pause regolari lontano dallo schermo del computer o dello smartphone può anche aiutare a prevenire la sindrome da visione artificiale, che comunemente si manifesta come affaticamento degli occhi e mal di testa.
  • Aiutano ad avere un’idea migliore del quadro più ampio. Quando ci si concentra sulle minuzie di un compito difficile, è fin troppo facile perdere di vista il quadro più ampio e strategico. Fare una pausa, fare un passo indietro e rivalutare gli obiettivi e priorità aiuta a prestare attenzione alle attività e ai progetti giusti.
  • Potenzia la creatività. Fare alcune pause strategiche durante la giornata darà alla mente la possibilità di trovare organicamente le soluzioni che si stanno cercando.
  • Fare pause regolari aiuta a essere più produttivi. Stabilire un programma di pause regolari darà anche una serie di mini scadenze su cui lavorare, che possono spronare a completare un’attività più rapidamente.

Tutti i vantaggi di pause regolari descritti, alla fine si combineranno per consentire di lavorare in modo più produttivo ed efficace.

11 Nov 2020

L’ ASCOLTO ATTIVO

L’ ASCOLTO ATTIVO

L’ascolto attivo è fondamentale per una comunicazione efficace.

L’abilità dell’ascolto attivo viene definita in diversi modi, tuttavia, non devono mai mancare due ingredienti: la comprensione e l’attenzione. Sono le caratteristiche principali di questa abilità. Un altro elemento fondamentale che favorisce la capacità di ascolto attivo è la gestione del feedback nella comunicazione; questo si ottiene attraverso la capacità di fare domande aperte o alternative o di verifica e chiarimento. Quando ascoltiamo in maniera attiva, dedichiamo la maggior parte delle nostre risorse a comprendere il messaggio che l’altra persona vuole trasmetterci. Inoltre, informiamo il nostro interlocutore sulla nostra comprensione di quello che vuole dirci. Si tratta, dunque, di essere psicologicamente disponibili e attenti al messaggio di chi ci sta parlando. L’opposto dell’ascolto attivo è l’ascolto distratto: siamo fisicamente presenti, ma la nostra mente dà la priorità ad altro rispetto a ciò che l’interlocutore ci sta comunicando. 

VARI TIPI DI ASCOLTO

  • Ascolto Selettivo. Chi ascolta selettivamente, presta attenzione solo ad alcune parti del discorso, perché il suo pensiero tende subito alla formulazione di giudizi.

  • Ascolto Passivo. Chi ascolta passivamente sfugge la comunicazione. Possiamo dire che sente soltanto le parole, ma non il contenuto.

  • Ascolto Attivo. Chi ascolta attivamente è attento alla comunicazione e cerca di cogliere il contenuto emozionale di ciò che l’altro dice. E’ empatico e non giudica. Chiarifica sempre per comprendere meglio e cerca la sintonia.

CONSIGLIO SU COME CREARE UN BUON ASCOLTO ATTIVO

Ascoltare richiede spesso uno sforzo superiore a quello che dobbiamo fare quando parliamo. Nell’ascolto attivo c’è un parallelismo: è tanto importante ascoltare quanto lo è che l’altro senta di essere ascoltato. Ma come possiamo creare un buon ascolto attivo? Ecco alcuni consigli:

    Evitiamo di esprimere giudizi di valore su quanto il nostro interlocutore dice e cerchiamo di gestire la costante necessità di incasellare in categorie predefinite o pregiudizi.

  •  Osserviamo e ascoltiamo, cercando di comprendere lo stato d’animo del nostro interlocutore.
  • Mettiamoci nei panni dell’altro e assumiamone il suo punto di vista, in questo modo aumenterà l’empatia.
  • Verifichiamo più possibile di avere compreso quanto ci sta dicendo, sia a livello dei contenuti, che delle emozioni.
  • Possiamo servirci delle domande per verificare la comprensione. Cerchiamo sempre di porre domande aperte, che aiutino l’esposizione dell’altro e ci facciano capire meglio.
  • Molto importante è mettere l’altro a proprio agio il più possibile.

Mettendo in atto questi comportamenti diventa davvero facile la connessione col mondo dell’altro e l’ascolto aumenta e diventa più completo e consapevole.

Le barriere comunicazionali che dobbiamo eliminare perché intralciano la comunicazione sono:

  • Mettere in ridicolo l’altro.
  • Imporre il proprio punto di vista.
  • Allertare o mettere in guardia.
  • Volere a tutti i costi persuadere attraverso ragionamenti logici.
  • Creare senso di colpa attraverso il ricatto morale0
  • Interpretare il comportamento dell’altro secondo personali criteri.
  • Cambiare argomento mentre l’altro parla.

A COSA SERVE ASCOLTARE ATTIVAMENTE?

Ascoltare in maniera attiva gli altri ci dà la possibilità di creare una rete sociale in cui predomini la complicità. Ascoltare l’altro, mettendo da parte quello che stavamo facendo, facendo attenzione alle parole del nostro interlocutore anche se ci sembrano irrilevanti o sbagliate è un modo per permettergli di esprimersi per com’è davvero.  Il dono di saper ascoltare gli altri ci consente di capirli meglio, di rafforzare il legame con loro e di avere, quindi, più probabilità di stabilire un rapporto positivo. In questo senso, quello che diamo si ripercuoterà su di noi. Anche se si tratta di un interesse egoista, vale sempre la pena ascoltare in maniera attiva.

11 Nov 2020

SELEZIONE DEL PERSONALE: MIGLIOR CANDIDATO O MIGLIOR INTERVISTATO?

SELEZIONE DEL PERSONALE: MIGLIOR CANDIDATO O MIGLIOR INTERVISTATO?

Come tutti i datori di lavoro imparano rapidamente, c’è un’enorme differenza tra un lavoratore che si adatta correttamente al proprio lavoro e alla propria organizzazione e uno che non lo fa. Ma come trovare e abbinare le persone giuste ai lavori giusti? Includendo, nella strategia di gestione delle risorse umane, un programma di reclutamento e selezione del personale ben strutturato.

Il reclutamento è il processo di identificazione e attrazione di persone in cerca di lavoro e creazione di un insieme di candidati qualificati. Di solito comporta lo sviluppo di una strategia di reclutamento, la ricerca di candidati, lo screening delle domande e la gestione e la valutazione del processo.

Tuttavia, il processo di reclutamento non sempre colpisce nel segno. Le aziende potrebbero non attirare un numero sufficiente di candidati qualificati. Possono sottovalutare o sopravvalutare l’organizzazione. Ciò può far sì che un’azienda si accontenti di un dipendente che non è adatto all’organizzazione.

MIGLIOR CANDIDATO O MIGLIOR INTERVISTATO?

Durante lo screening e l’intervista, i datori di lavoro possono essere distratti da diversi tipi di pregiudizi e dai propri gusti e preferenze personali. È anche facile cadere nella trappola di cercare di assumere lo stesso tipo di persona che ha ricoperto il lavoro per l’ultima volta, se ha avuto successo, o il contrario se non lo ha avuto.

Alcuni candidati hanno l’abilità di andare bene nelle interviste di lavoro, di essere attraenti e di far sentire a proprio agio l’intervistatore.

Per questa ragione è importante tenere in considerazione che:

  • Bisogna aver chiaro ciò di cui si ha bisogno dalla persona che si vuole assumere per quel ruolo, in termini sia di tratti comportamentali che di abilità. (Questo aiuterà a filtrare ciò che non è importante).
  • Identificare il modo migliore per i candidati di dimostrare se hanno quello che si sta cercando.

Quale è quindi il modo migliore per determinare se i candidati hanno i tratti comportamentali e le abilità necessarie per il ruolo?

Dai loro un problema da risolvere. Rendilo parte del processo di candidatura. Descrivi un problema che potrebbero incontrare nel loro ruolo e chiedi loro di rispondere spiegando come lo risolverebbero. Si potrà verificare così, sia la loro abilità (i passaggi che avrebbero intrapreso nel risolvere il problema), sia i loro comportamenti (come si avvicinerebbero ad ogni passaggio).

Dai loro un progetto da completare. Chiamata da Ron Friedman job audition, viene svolta prima di qualsiasi colloquio formale, dando ai candidati selezionati il compito di completare un’attività che svolgerebbero come parte del loro lavoro. Questa tecnica può mostrare di cosa sono capaci i candidati selezionati prima che i giudizi (potenzialmente errati) possano essere emergere al colloquio.

Portali fuori dalla “zona colloquio”. Scegliendo un’attività che sia il linea con la cultura dell’azienda si potrà vedere come il candidato si adatta alla situazione e come interagirà con gli altri.

Ascoltali mentre parlano di qualcosa che è importante per loro.

Ricevi feedback dalle persone che incontrano fuori dal colloquio. Chiedendo ad un dipendente di far fare al candidato un tour dell’ufficio, facendo accompagnare il candidato nell’ufficio dei colloqui, sono modi per far interagire i dipendenti con il candidato. In questo modo potranno dare feedback sul candidato.

04 Nov 2020

ELABORAZIONE DEL LUTTO

ELABORAZIONE DEL LUTTO

È possibile definire il lutto come quel processo fisiologico che segue la perdita di una persona cara. Questo processo psicologico doloroso può mettersi in moto non solo dopo la morte ma anche nel caso di una separazione, di altri avvenimenti legati all’abbandono o alla fine di una relazione importante. Per quanto ogni lutto sia un’esperienza differente, ormai è noto come siano rilevabili reazioni ricorrenti. Queste riguardano il susseguirsi di diversi stati mentali, che si possono alternare o mescolare. Le prime descrizioni della sintomatologia post lutto vennero proposte da Lindermann nel 1944 dopo un incendio al Night Club Coconut Grove di Boston, esse comprendevano:

  1. Disturbi somatici di vario tipo

  2. Preoccupazioni riguardanti l’immagine del defunto

  3. Sensi di colpa nei confronti della persona scomparsa o delle circostanze della morte

  4. Reazioni ostili

  5. Perdita della capacità funzionale preesistente

  6. Tendenza ad assumere tratti comportamentali tipici del defunto

Lindemann, sulla base della sintomatologia, ha identificato e descritto anche tre diversi stadi del lutto. Il primo, di shock, include l’impossibilità di accettare la perdita, fino alla negazione della stessa. Il secondo, di cordoglio acuto, include la consapevolezza della perdita. E’ associato a manifestazioni quali il disinteresse per le attività quotidiane, il pianto, il senso di solitudine, l’insonnia e la perdita di appetito. L’ultimo stadio, di risoluzione, implica invece una graduale ripresa delle attività quotidiane ed era associato ad una minore frequenza di pensieri relativi al defunto.

COSA S’INTENDE PER ELEBORAZIONE DEL LUTTO?

Con elaborazione del lutto s’intende tutto il processo di rielaborazione legato alla perdita di una persona cara. Questa fase può essere molto dolorosa ed è solitamente caratterizzata da sentimenti quali tristezza, rabbia, colpa o senso di vuoto. Si tratta comunque di un processo fondamentale per evitare che questa situazione possa trasformarsi in lutto patologico e creare un trauma che si ripresenterà nel futuro, causando la comparsa di diversi disturbi. Facendo riferimento alla teoria a cinque fasi di Kübler Ross (1990; 2002) – possiamo definire l’elaborazione del lutto come un processo che si sviluppa attraverso questi momenti:

  • Fase della negazione o del rifiuto: si nega l’accaduto a causa dello stato di shock dovuto alla perdita;

  • Rabbia: in questa fase si tende a dare la colpa a qualcuno, ad esempio agli altri familiari, perché si tende a pensare che la situazione sia ingiusta;

  • Fase della contrattazione o del patteggiamento: costituita dalla rivalutazione delle proprie risorse e da un riacquisto dell’esame di realtà;

  • Fase della depressione: costituita dalla consapevolezza che non si è gli unici ad avere quel dolore e che la morte è inevitabile;

  • Fase di accettazione: l’ultima fase dell’elaborazione del lutto consiste nell’accettare la perdita e si è pronti a riprendere in mano la propria vita.

LE DIVERSE REAZIONI AL LUTTO

Per Onofri e La Rosa (2015) le normali reazioni al lutto possono essere suddivise in 4 categorie:
1) SENTIMENTI: tristezza, collera, ansia, autorimprovero, colpa, solitudine, shock, struggimento

2)SENZAZIONI FISICHE: mancanza di energia, debolezza muscolare, costrizione toracica e laringea, impersensibilità al rumore ecc..

3)COGNIZIONE: incredulità, preoccupazione, rimanere attaccati al ricordo del defunto, allucinazioni ecc..

4)COMPORTAMENTI: disturbi del sonno, disturbi dell’appetito, distrazione, isolamento sociale, evitare i ricordi ecc..

COME E CHI PUOI AIUTARE UNA PERSONA A ELABORARE IL LUTTO?


Se ci troviamo vicino a una persona che ha subito un lutto, possiamo aiutarla con semplici e piccoli accorgimenti. Innanzitutto, è necessario ascoltare tutto ciò che ha da dire, senza giudicare i suoi sentimenti. Non è necessario dare consigli o dire qualcosa in particolare, l’importante è permettere all’altra persona di esprimere ciò che sente. Rispetta i tempi del lutto e cerca di essere sempre a disposizione della persona che sta elaborando il lutto.

Si parla, tuttavia, di lutto complicato quando il processo che segue la perdita si arresta e non giunge alla fase di accettazione. Così, le normali e intense reazioni che ci si aspettano nel processo fisiologico del lutto permangono e provocano ripercussioni sul funzionamento generale della persona. La presa in carico psicoterapeutica è importante nelle situazioni in cui il lutto diventi complicato e patologico o si associ a quadri psicopatologici.

04 Nov 2020

LE RELAZIONI INTERPERSONALI SUL POSTO DI LAVORO

LE RELAZIONI INTERPERSONALI SUL POSTO DI LAVORO

Prima delle idee, dei progetti e di budget, sono le persone a caratterizzare il vero valore di un’azienda. Il capitale umano è la forza su cui bisogna far leva per garantire il successo di un’azienda. E all’interno delle aziende, così come nella vita privata, tutto è relazionale.

Il posto di lavoro ha un ruolo centrale per una gran parte di persone. Spendiamo buona parte del nostro tempo a lavoro ed è quindi importante che tutti gli individui nell’organizzazione si sentano connessi e supportati dai colleghi. Riuscire a creare buoni rapporti sul lavoro, corrisponde alla possibilità di sentirsi apprezzati, valorizzati e questo aumenta il nostro grado sicurezza, ci gratifica aumentando la nostra autostima, potenziando il senso di sicurezza verso le nostre capacità e verso gli altri.

Non sempre però i rapporti con i colleghi posso essere facili. Possono essere caratterizzati da discussioni e polemiche che rischiano di trasformare la dinamica relazionale in qualcosa di frustrante e difficile da tollerare, avendo così ripercussioni sul benessere psicofisico e sul piano personale e professionale.

La qualità dei rapporti lavorativi può avere importanti effetti sulla lealtà, sulla soddisfazione lavorativa, sulla produttività e su altri aspetti lavorativi. Quando i dipendenti formano salde relazioni sul luogo di lavoro si può notare un atteggiamento più attento nei confronti dei colleghi, maggiore collaborazione e cameratismo. In questo modo i dipendenti saranno più propensi a sentire un maggiore senso di lealtà verso la loro azienda e dare più valore al lavoro quotidiano.

COME DEFINIRE UNA BUONA RELAZIONE

Una buona relazione lavorativa richiede fiducia, rispetto, autocoscienza, inclusione e comunicazioni aperte.

  • Fiducia: quando si ha fiducia in un membro del proprio team si può essere aperti e onesti riguardo le proprie opinioni, pensieri e azioni.
  • Rispetto: team che lavorano insieme mantenendo rispetto reciproco danno valore agli input di ciascun membro e trovano soluzioni basate su intuizioni, saggezza e creatività collettiva.
  • Autocoscienza: significa prendersi la responsabilità delle proprie parole e delle proprie azioni, e non lasciare che le proprie emozioni possano incidere negativamente sulle persone che ci sono intorno.
  • Inclusione: non accettare semplicemente persone e opinioni diverse, ma anche accoglierle. Ad esempio, quando un collega presenta opinioni diverse dalle vostre, è importante tener presente la loro prospettiva nel prendere la decisione.
  • Comunicazioni aperte: buone relazioni dipendono da una aperta e onesta comunicazioni. Per e-mail, in videochiamata, faccia a faccia, qualsiasi sia la condizione di comunicazione, più efficacemente si comunica con chi è intorno meglio ci si connetterà.

COME COSTRUIRE BUONI RAPPORTI DI LAVORO

Comprendere i propri punti di forza e di debolezza. Prima di concentrarsi sulla creazione di nuove relazioni sul posto di lavoro, può essere utile comprendere i propri punti di forza e di debolezza. Lo sviluppo di abilità relazionali come la comunicazione, l’ascolto attivo e la risoluzione dei conflitti può aiutare quando si sviluppano relazioni sul posto di lavoro.

Fare domande e ascoltare. Fare domande e ascoltare attivamente non solo permetterà di conoscere meglio i colleghi, ma sono anche un importante processo di costruzione delle relazioni. Facendo domande e incoraggiando una conversazione aperta si potrà essere associati ad un buon comunicatore.

Offrire assistenza. Aiutare un collega nel momento di difficoltà è un ottimo modo per costruire una relazione. La fiducia è una parte importante della costruzione di relazioni e aiutando i colleghi quando ne hanno bisogno dimostra questa qualità.

Sapere quando chiedere assistenza. Chiedere assistenza può avviare una relazione lavorativa. Chiedendo ai colleghi di partecipare a progetti o attività, si ha maggiori opportunità di conoscerli.

Apprezzare il ruolo di ogni dipendente. L’apprezzamento è un potente costruttore di relazioni. A volte potrebbe essere difficile capire le sfide di un altro dipartimento e le frustrazioni possono portare a sentimenti negativi. Piuttosto che saltare a conclusioni o dare la colpa, può essere utile trovare soluzioni a un problema.

Mantenere gli impegni. Mantenendo gli impegni presi si potrà sviluppare ulteriormente la fiducia. È più probabile che si sviluppino relazioni più forti quando i colleghi o i membri del team sanno che possono fare affidamento su di voi.

Essere presenti sul posto di lavoro.