24 Nov 2021

Le nuove sfide della leadership: il leader “trasformazionale”

Le nuove sfide della leadership: il leader “trasformazionale”

In ogni azienda, la capacità di leadership dei responsabili dei gruppi di lavoro è un fattore cruciale per il benessere organizzativo e la produttività aziendale in quanto lo stile di leadership adottato dal capo è in grado di determinare l’espressione del potenziale di collaboratori e dipendenti.

Cosa si intende per “leadership”?

Il termine leadership appartiene al vocabolario inglese dove il verbo “to lead” significa guidare, condurre, dirigere; si riferisce dunque alla capacità di saper guidare un gruppo di persone.

Con tale termine si indica una funzione superiore al semplice comando o all’esercizio dell’autorità.

Nel mondo del lavoro, il leader di un team è in grado di far raggiungere gli obiettivi di business e per farlo li definisce, li comunica in modo efficace ed è capace di motivare i suoi collaboratori.

Scopo della leadership è dunque quello di influenzare il comportamento delle singole persone per perseguire obiettivi aziendali.

Le nuove sfide della leadership

Lo sviluppo tecnologico, la maggiore complessità degli obiettivi organizzativi e la crescente interculturalità stanno disegnando uno scenario diverso da quello in cui operava il classico leader degli inizi del 20° secolo e, soprattutto, uno scenario in continua evoluzione e dai labili confini.

Tra i cambiamenti maggiormente rilevanti sono da annoverare la gestione sempre più complessa dell’eterogeneità della forza lavoro (nei termini di genere, razze, etnie e culture) e l’incessante pressione competitiva.

In tale scenario, elementi nuovi legati alla sfera intimista, personale della leadership, hanno cominciato ad assumere il carattere di elemento essenziale per un miglior perseguimento degli obiettivi organizzativi. Emozioni, affetti, carisma sono dunque divenuti i nuovi fondamenti della capacità di conduzione da parte del leader.

Verso la leadership trasformazionale

In tale scenario, la definizione del cosiddetto stile di leadership “trasformazionale” sembra dare una risposta all’esigenza di trovare nuovi modi per comprendere le rinnovate realtà organizzative ed esigenze di natura culturale.

La leadership di tipo trasformazionale agisce infatti sulle emozioni, sui valori, sull’etica lavorativa e personale, e su obiettivi (quelli a lungo termine), che si discostano, almeno nella loro progettazione, dai compiti del lavoro day-by-day.

Attraverso tale approccio, gli obiettivi organizzativi non assumono più le sembianze di mere impellenze quotidiane, ma diventano progetti di vita. In essi il leader e i suoi follower possono rispecchiarsi e vedere lo sviluppo, l’evolversi e il raggiungimento non solo di obiettivi lavorativi ma anche personali.

Cosa si intende per “trasformazionale”?

Il concetto di leadership trasformazionale introdotto da Downton nel 1973, è stato sviluppato dall’esperto di leadership James MacGregor Burns.

Secondo questi, la leadership trasformazionale è presente quando i leader e i follower si aiutano l’un l’altro per avanzare ad un livello più alto di morale e motivazione.

Attraverso la forza della loro visione e della loro personalità, i leader trasformazionali sono in grado di ispirare i seguaci a cambiare le aspettative, le percezioni e le motivazioni per lavorare verso obiettivi comuni.

Successivamente, il ricercatore Bernard M. Bass si espanse sulle idee originali di Burns per sviluppare ciò che oggi si riferisce alla teoria della leadership trasformativa.

Secondo Bass il leader trasformazionale è colui che stimola e ispira i collaboratori e seguaci ad ottenere risultati straordinari e a sviluppare le loro capacità di leadership. Egli aiuta gli stessi a crescere e a trasformarsi in leader a loro volta, responsabilizzandoli e allineando gli obiettivi dei singoli, del leader, del gruppo e dell’organizzazione.

Le 4 componenti della leadership trasformazionale

Tra i diversi modelli della leadership trasformazionale presenti in letteratura, uno dei più noti e accreditati è il modello delle 4 “I” di Bernard Bass. Secondo tale modello ci sono quattro elementi chiave per una leadership trasformazionale di successo:

  1. Fiducia: costruire un alto grado di fiducia tra leader e seguaci ponendo un alto esempio morale ed etico (Influenza idealizzata).
  2. Ispirazione: fornire una visione o obiettivi che ispirano e motivano i seguaci ad agire perché sentono che la direzione in cui stanno andando è significativa e utile (Motivazione ispiratrice).
  3. Creatività: dare alle persone una visione d’insieme e un modo di lavorare che permetta loro di mettere in discussione la saggezza convenzionale e trovare nuove soluzioni ai vecchi problemi (Stimolazione intellettuale).
  4. Crescita personale: prestare attenzione ai seguaci come individui con i propri bisogni e le proprie ambizioni, offrendo loro coaching e tutoraggio, consentendo loro di crescere e sentirsi soddisfatti (Considerazione individuale).

Com’è possibile adottare nel concreto uno stile di leadership trasformazionale?

Lo studioso Yukl, dopo aver analizzando a fondo il modello di leadership trasformazionale ​ha stilato una breve lista di consigli pratici per chi volesse adottare tale stile di leadership.

  1. Sviluppare, assieme ai dipendenti, una “mission” che venga concepita dall’intera organizzazione come una sfida entusiasmante;
  2. Collegare la mission del gruppo ad una strategia specifica al fine di concretizzarla;
  3. Sviluppare la mission, definire nello specifico i diversi obiettivi della stessa e tradurla in azione.
  4. Mostrare fiducia, decisione e ottimismo riguardo alla mission e alla sua realizzazione.
  5. Realizzare la mission attraverso piccoli step e piccoli traguardi da raggiungere durante tutto il processo di implementazione.

È bene ricordare…

Così come con ogni stile di leadership, anche quello trasformazionale non è il migliore in assoluto: può essere altamente efficace se usato in modo appropriato, ma potrebbe non essere necessariamente la scelta migliore per ogni situazione.

In alcuni casi, i gruppi possono richiedere uno stile più manageriale o autocratico che comporti un controllo più attento e una maggiore direzione, in particolare nelle situazioni in cui i membri del gruppo non sono qualificati e necessitano di elevata supervisione.

 

17 Nov 2021

Sindrome del burnout: fattori individuali e socio-culturali

Sindrome del burnout: fattori individuali e socio-culturali

Introduzione al burnout

Tra le forme di stress che possono derivare dal lavoro, una peculiare tipologia è quella che può essere riscontrata nella cosiddetta “sindrome del burnout”.

Quest’ultima è generalmente definita come una sindrome di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e derealizzazione personale, che può manifestarsi in tutte quelle professioni con implicazioni relazionali molto accentuate.

La traduzione italiana della parola “burnout”, che comunemente avviene con il termine “bruciato” (o anche “scoppiato” o “esaurito”), permette di descrivere parte delle sensazioni vissute da chi sperimenta lo stato di questa sintomatologia.

Dimensioni fondamentali

Secondo la psichiatra americana Christina Maslach, il burnout è un insieme di manifestazioni psicologiche e comportamentali che può insorgere in operatori e professionisti che lavorano a stretto contatto con la gente e che possono essere raggruppate in tre dimensioni fondamentali, quali l’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e la ridotta realizzazione personale.

  • L’esaurimento emotivo consiste nel sentirsi emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro per effetto di un inaridimento emotivo del rapporto con gli altri. Tale dimensione fa riferimento alla perdita di energie e alla sensazione di aver esaurito le proprie risorse emozionali per affrontare problemi di ordinaria routine.
  • La depersonalizzazione, intesa come distacco e indifferenza nei confronti del proprio lavoro e dei destinatari del proprio servizio, si presenta come un atteggiamento di allontanamento e di rifiuto nei confronti di coloro che richiedono o ricevono la prestazione professionale, il servizio o la cura. Essa porta a concepire gli altri come oggetti piuttosto che come persone, ed è caratterizzata da una marcata insensibilità verso utenti e collaboratori, dall’utilizzo di un linguaggio denigratorio e da risposte comportamentali negative e sgarbate.
  • La ridotta realizzazione personale riguarda invece la percezione della propria inadeguatezza al lavoro (tendenza ad autovalutarsi negativamente circa le proprie competenze professionali), la caduta dell’autostima ed una diminuzione delle ambizioni di successo, che spesso trasforma il lavoro in una attività condotta esclusivamente per mantenere la propria remunerazione.

Cause del burnout

Nell’evidenziare le cause della sindrome di burnout occorre sottolineare che non vi sono dei veri e propri fattori causali, in quanto ogni situazione va considerata in relazione alle peculiarità personologiche di ogni singolo individuo, poiché ciascuno di noi attribuisce ad ogni evento un significato soggettivo.

Ciononostante è possibile distinguere tra antecedenti individuali e socio-culturali.

Fattori individuali

Le cause riguardanti i fattori individuali comprendono le caratteristiche demografiche, i tratti di personalità, le aspettative professionali e lo stress non professionale.

  • Relativamente alle prime, diversi studi hanno dimostrato che l’incidenza del burnout sembra essere maggiore nelle persone di età superiore ai 30-40 anni, in particolare in quelle non sposate e con livello culturale più elevato; il sesso non sembra essere invece correlato all’incidenza di tale sindrome.
  • Per quanto riguarda i tratti psicologici si è invece evidenziato che sono più a rischio di sviluppare tale sindrome sia i soggetti che affrontano le difficoltà con atteggiamento passivo e difensivo, sia quelli che hanno caratteristiche predominanti che inducono un comportamento ostile, ansioso, vulnerabile e che non mostra apertura verso il cambiamento. Giocano inoltre in maniera negativa anche bassi livelli di autostima, bassa tolleranza alle frustrazioni, elevata sensibilità e sentimenti di inadeguatezza; tratti che, nel loro insieme, concorrono ad una percezione di scarso controllo delle proprie capacità di gestione degli eventi e allo sviluppo dei primi sintomi del burnout.
  • Anche l’atteggiamento verso il lavoro è considerato tra gli antecedenti individuali più importanti: le persone che lavorano molto e duramente perché nutrono notevoli aspettative nella loro professione, sia per la possibilità di successo e guadagno sia perché voglio rendere il loro lavoro sempre entusiasmante e soddisfacente, sono più a rischio di burnout quando non vedono realizzare i propri progetti.

Fattori socio-culturali

Per quanto riguarda invece i fattori socio-culturali, le cause oggettive possono essere attribuite alle caratteristiche intrinseche dell’organizzazione lavorativa quali la scarsa retribuzione, l’eccessivo carico di lavoro, le scadenze pressanti, l’eccessiva routine, i conflitti e la competizione tra colleghi e con i superiori, e le poche gratificazioni da parte di questi ultimi.

Tra i fattori ambientali, inoltre, occorre considerare in particolar modo anche il tipo di lavoro svolto dai soggetti.

A tal proposito, Maslach e Leiter (1997) hanno elaborato un nuovo modello interpretativo che si focalizza principalmente sul grado di adattamento/disadattamento tra persona e lavoro. Secondo questi autori la sindrome del burnout ha maggiori probabilità di svilupparsi quando è presente una forte discordanza tra la natura del lavoro e la natura delle persone che svolgono tale attività. Queste discrepanze sono da considerarsi come tra i più importanti antecedenti del burnout e sono sperimentabili in sei ambiti della vita organizzativa, quali il carico di lavoro, il controllo, le ricompense, il senso comunitario, l’equità e i valori.

In sintesi…

Appare dunque evidente come il burnout non sia esclusivamente un problema dell’individuo, bensì, assume un’importanza fondamentale anche il contesto sociale nel quale egli opera; è infatti quest’ultimo a plasmare il modo in cui le persone interagiscono tra di loro e il modo in cui esse ricoprono la propria mansione. Per tanto, quando l’ambiente organizzativo non riconosce l’aspetto umano del lavoro, il rischio di burnout aumenta.

 

10 Nov 2021

Quanto siamo bravi a rilevare la menzogna

Quanto siamo bravi a rilevare la menzogna

Per quanto la maggior parte delle persone pensi che mentire non sia moralmente corretto, tutti gli individui mentono per accomodare i propri bisogni.

Che si tratti di menzogne dette per gestire l’impressione altrui o per scopi più tangibili, le persone esagerano, minimizzano, omettono, danno risposte fuorvianti, dicono mezze verità e così via, e ogni volta che lo fanno considerano tale comportamento come necessario per la vita sociale.

Va inoltre precisato che non solo gli individui mentono, ma, come evidenziato da numerosi studi, la maggior parte di loro lo fa anche molto frequentemente. Mentire è dunque parte della vita di tutti i giorni.

Ma quanto siamo abili nel rilevare una menzogna?

Al fine di indagare la capacità delle persone di distinguere una verità da una menzogna sono state condotte numerose ricerche sperimentali.

Solitamente, in questo tipo di ricerche, ai partecipanti venivano fatte vedere delle video-registrazioni nelle quali comparivano individui che rispondevano alle domande di un intervistatore o raccontavano una loro esperienza. I partecipanti dovevano quindi indicare se, a loro detta, l’intervistato stesse mentendo o meno.

Il primo ricercatore a passare in rassegna tali tipologie di studi è stato Kraut (1980) il quale, riscontrando un valore medio di accuratezza del 57%, concluse che “l’accuratezza nel rilevare la menzogna nell’essere umano è piuttosto bassa”.

Successivamente, raccogliendo e sintetizzando ulteriori studi sperimentali, Vrij (2000) replicò tali risultati rilevando un’accuratezza del 56,6%.

Infine, all’interno di quella che viene considerata una delle più importanti meta-analisi sull’argomento, Bond e DePaulo (2006) hanno raccolto e sintetizzato ben 206 ricerche per un totale di 24.483 giudici e 4.435 mittenti. I risultati di tale studio hanno dimostrato che le persone raggiungono una percentuale di rilevazioni corrette del 54%, classificando correttamente il 47% delle bugie e il 61% delle verità. In altri termini, esse si rivelano essere più brave a identificare una verità piuttosto che una menzogna.

Questa differenza tra bugia e verità è data da una particolare forma di distorsione cognitiva definita “truth bias” la quale rende gli individui più inclini a giudicare un racconto come vero piuttosto che falso indipendentemente dal fatto che l’interlocutore stia mentendo o meno. In pratica, a meno che un individuo non trovi prove evidenti che lo inducono a credere di essere stato ingannato, egli tenderà sempre a considerare la comunicazione come onesta.

In linea con le ricerche precedenti, gli autori hanno dunque confermato che, sebbene le persone si ritengano molto più brave, la loro capacità di individuare la menzogna si rivela invece piuttosto bassa, con una percentuale di successo che si dimostra essere vicina a quella di una risposta data a caso.

Come sostiene la maggior parte degli esperti della menzogna infatti, l’abilità delle persone di discriminare una verità da una bugia è poco più accurata del lancio di una moneta.

Perfino in studi condotti su figure che hanno lavorato per anni in settori che implicano l’individuazione di inganni (ad esempio, gli ispettori doganali, i giudici e gli operatori di giustizia) – e che ritengono di essere più brave degli altri nel rilevare la menzogna – è raro trovare livelli di accuratezza migliori in compiti di valutazione analoghi.

Non siamo dunque così bravi come crediamo nel rilevare la menzogna. La letteratura sulla lie-detection ha tuttavia dimostrato che lo studio del linguaggio del corpo unitamente all’analisi del comportamento verbale e para-verbale permette di orientare l’attenzione su indicatori di menzogna maggiormente affidabili dal punto di vista scientifico e, di conseguenza, incrementare l’accuratezza nel rilevamento della stessa.

È tuttavia doveroso sottolineare che il cosiddetto “naso di Pinocchio” non esiste. La ricerca è infatti concorde nell’affermare che non esistono segnali o assenze di segnali che indicano in maniera certa che la persona in questione stia mentendo o dicendo la verità così come non esiste un unico indicatore o una combinazione di comportamenti che appaiono soltanto quando si mente.

Tuttavia, ciò non significa che non esistono in assoluto segnali collegati con la menzogna ma, piuttosto, che gli studiosi hanno scoperto che nessuno di essi risulta visibile esclusivamente durante quest’ultima. Tali segnali possono infatti verificarsi anche per altre ragioni.

03 Nov 2021

Come affrontare le discussioni a lavoro

Come affrontare le discussioni a lavoro

Le discussioni sono ormai all’ ordine del giorno, chi per riunioni aziendali, chi in famiglia, chi con amici, e tutti sembrano seguire la stessa moda, aria furiosa, chiusura mentale, guanto di sfida, eppure i grandi esperti dicono che ci si dovrebbe presentare sorridenti e con una “lavagna bianca” priva di pregiudizi ma pronta per essere riempita con riflessioni, spunti, idee. Questo perché le soluzioni efficaci ai problemi, la collaborazione e la fine delle dispute iniziano con “lo svuotare la mente” da ciò che si sa e si pensa di sapere per fare spazio all’ altro attraverso l’ ascolto attento.

Approcciarsi con una “lavagna bianca” è modesto e onesto in quanto favorisce opportunità, collaborazioni significative, fusioni di pensieri e opinioni per dare spazio a qualcosa di grande, più della somma delle singole menti, occasione di confronto e progresso.

Spesso crediamo di essere diplomatici dimenticando che ogni parola, ogni espressione può essere una condanna, vittoria o perdita che sia: è indispensabile risolvere le discussioni considerando il peso delle parole, confrontandosi pacificamente e ascoltando attentamente. In questa direzione l’ ascolto attento è infatti una vera e propria strategia che presuppone l’ interesse altrui a discapito del proprio senza alcuna imposizione ma con il fine ultimo di costruire un ponte con l’ altro. La capacità di ascoltare è simbolo di potere considerando i grandi cambiamenti  che determina su sé e sugli altri, realizzando un desiderio comune a tutti, quello di essere ascoltati: l’ ascolto ha conseguenze a lungo termine, fonda la base di una relazione duratura, principio di collaborazioni significative.

Tuttavia, è proprio davanti ai disaccordi e alle incomprensioni che l’ aspettativa di conoscenza rema contro, le discussioni divengono terreno fertile della chiusura mentale precludendo ogni possibilità di collaborazione.

In tal senso, bisogna essere abili ad ammettere di poter essere in errore, senza alcuna presunzione di sapere, di aver ragione, di essere nel giusto, solo in questo modo si potranno intraprendere collaborazioni significative e si otterranno risultati sorprendenti superando discussioni e incomprensioni in modo pacifico. 

Alla base di ogni interazione, discussione o unione che sia, vi è la stessa regola della giustizia: non ci sono scambi neutrali ma si lascia sempre qualcosa di positivo o negativo che sia. E’ proprio in questo senso che bisogna sempre chiedersi che valore ha ogni singola parola e dove si colloca il proprio sforzo di comunicare nel tempo, queste domande costituiscono un vero e proprio metro di giudizio delle proprie interazioni, la chiave del successo. 

Uno degli errori più comuni che si deve assolutamente evitare durante le discussioni è quello di attribuire all’ altro la responsabilità della relazione a partire dalle risposte che emergono nel corso della conversazione; queste reazioni diventano veri e propri strumenti di misura e giudizio dimenticando, in tal modo, il vero motivo della conversazione e alimentando ulteriori incomprensioni. 

Le continue discussioni aziendali sembrano essere orientate a dimostrare di avere ragione, sostenere tesi e fomentare ulteriori dispute senza trovare alcuna collaborazione, spunti innovativi, occasione di progresso e crescita significativa; questo non fa che incrementare la distanza all’ interno dell’ organizzazione, alimenta ulteriori attacchi personali e incomprensioni tra colleghi e collaboratori. 

Per evitare che una discussione diplomatica si trasformi in una disputa aggressiva bisogna, quindi, ricordare gli effetti a lungo termine che ne derivano da una negoziazione rispettosa al contrario di quelli a breve termine di una polemica.

Le discussioni si concludono solo attraverso il tono più efficace, quello della gentilezza che porta a negoziare pacificamente e ad essere aperti mentalmente.