22 Dic 2021

Cos’è la psicologia positiva?

Cos’è la psicologia positiva?

Il termine Psicologia Positiva designa una prospettiva teorica ed applicativa della psicologia ­– nata negli anni ’90 – che si occupa dello studio del benessere personale, costrutto al centro della qualità della vita.

Lo studio della qualità della vita, che ha ricevuto un’attenzione crescente negli ultimi trent’anni da parte di medicina, psicologia e sociologia, distingue gli indicatori oggettivi, quali la salute fisica, le condizioni abitative e lavorative, dagli indicatori soggettivi come la percezione del proprio benessere psicologico e il soddisfacimento delle proprie aspirazioni. Proprio questi ultimi sono stati centrali nello sviluppo di tale disciplina.

È importante evidenziare che quando si parla di psicologia positiva, non ci si riferisce ad una pseudoscienza speculativa in quanto, come altri filoni importanti della psicologia, anch’essa ha un forte fondamento scientifico.

Origini e sviluppo della Psicologia Positiva

La Psicologia Positiva nasce dagli studi dello psicologo statunitense Martin E. P. Seligman (riconosciuto come il padre della moderna Psicologia Positiva) sull’impotenza appresa (1975), termine che si riferisce a “quella sensazione di sfiducia persistente e totalizzante, che porta a desistere dall’affrontare un problema o una situazione in virtù del fatto che in passato sono state affrontate situazioni simili con esito negativo”.

Tale stato mentale è tipicamente legato al pensiero pessimistico ed è spesso comune in coloro che attribuiscono le cause dei propri fallimenti a sé stessi; esso è inoltre molto frequente negli individui che cadono vittima di stati depressivi.

A tal proposito, Seligman si è chiesto se la stessa catena cognitiva di cause alla base di questi atteggiamenti pessimistici potesse riguardare, in forma contraria, anche gli atteggiamenti ottimistici. Ed è proprio tale interrogativo che ha permesso di porre le basi per il fiorire di questa disciplina.

Riprendendo le parole di Seligman, “Se la psicologia ha ben compreso le cause che rendono infelice l’uomo, aiutandolo ad essere meno infelice, la Psicologia Positiva studia invece come è possibile renderlo felice.”.

In altri termini, invece di focalizzare i suoi studi e le sue attività di ricerca sul “problema”, l’autore ha fin dal principio orientato i suoi sforzi alla costruzione di un sistema finalizzato all’autorealizzazione, alla felicità e al benessere della persona, così come alla promozione del ruolo delle risorse positive e delle potenzialità individuali.

In senso più ampio, secondo Seligman la psicologia dovrebbe infatti dedicare pari attenzione agli aspetti patologici della persona così come agli aspetti positivi dell’esistenza umana (ad esempio, le emozioni piacevoli, le potenzialità, le virtù e le abilità dell’individuo).

Implicazioni pratiche degli interventi “positivi”

Lo spostamento di attenzione dal “problema” agli aspetti positivi dell’individuo ha permesso a tale disciplina di dare il via ad un processo di forte cambiamento paradigmatico che, a livello applicativo, si traduce con la messa a punto di programmi psicologici finalizzati allo sviluppo delle potenzialità, delle risorse, degli aspetti funzionali e delle abilità dell’individuo (più che alla cura dei suoi aspetti deficitari).

Tale cambiamento rende la psicologia positiva una disciplina capace di entrare in contatto ­– a livello sia teorico che applicativo – con numerose aree distanti dalla psicologia clinica quali, ad esempio, la psicologia scolastica-educativa, la psicologia sociale e, in senso più ampio, le varie discipline legate al mondo organizzativo.

Sono diverse le strategie che vengono proposte dalle teorie e ricerche della psicologia positiva.

Tra le principali è possibile evidenziare la costruzione di piani d’intervento volti a far nascere e alimentare speranze o l’investimento sui diversi punti di forza della persona (ad esempio, promuovere e rinforzare abilità interpersonali, coraggio, ottimismo, perseveranza, realismo, capacità di provare piacere, di riconoscere le responsabilità personali ecc.).

Applicazioni al mondo organizzativo

Gli interventi della psicologia positiva nell’ambito organizzativo sono in rapida diffusione negli ultimi anni.

Numerose ricerche hanno dimostrato che tale modello teorico permette di raggiungere importanti cambiamenti nel funzionamento aziendale e organizzativo, impattando positivamente sulle vendite, sulla produttività e, in particolar modo, sulle capacità di innovazione.

Il rapporto sulla politica globale di felicità e benessere del 2019 sottolinea inoltre l’esistenza di una stretta relazione positiva tra la competenza della felicità e la redditività complessiva dell’azienda.

Questi dati evidenziano come la felicità nei posti di lavoro ­– e quindi l’utilizzo di modelli teorici e di interventi provenienti dalla Psicologia Positiva – permetta di generare luoghi in cui le persone hanno la possibilità di fiorire mettendosi in relazione con gli altri e di raggiungere risultati individuali e collettivi che forniscano un senso profondo sia per l’individuo che per l’azienda.

Critiche e limitazioni

Nonostante la sua costante popolarità nel corso del tempo, la Psicologia Positiva è stata criticata per una serie di ragioni differenti.

In primo luogo, gli psicologi umanisti hanno sostenuto che con la psicologia positiva Seligman ha voluto rivendicare il merito per il lavoro già precedentemente svolto dalla psicologia umanistica. Effettivamente, psicologi umanistici come Carl Rogers e Abraham Maslow avevano già concentrato la loro ricerca sul lato positivo dell’esperienza umana anni prima che Seligman parlasse di psicologia positiva. Maslow aveva inoltre anche coniato il termine “psicologia positiva”, utilizzandolo nel suo libro “Motivazione e personalità”, già nel 1954.

Dalla loro, però, gli psicologi positivi insistono sul fatto che le loro teorie e ricerche, differentemente da quelle portate avanti dalla psicologia umanistica, si basano su prove empiriche.

Ciononostante, alcuni studiosi sostengono che la ricerca prodotta da tale disciplina non abbia una vera e propria validità scientifica e che sia anche in parte sopravvalutata.

Gli stessi critici ritengono inoltre che la psicologia positiva sia passata troppo rapidamente dalla teoria alla pratica e che quindi le scoperte discusse nelle loro trattazioni non siano abbastanza forti da supportare tali applicazioni nel mondo reale.

Infine, altri autori ancora sostengono come la psicologia positiva non riesca a prestare la giusta attenzione alle differenze individuali. Essa tende infatti a generalizzare i propri risultati all’intera popolazione, come se tutti gli individui funzionassero allo stesso modo.

15 Dic 2021

COSA SONO I BIAS COGNITIVI?

COSA SONO I BIAS COGNITIVI?

Ogni giorno il nostro cervello è inondato da milioni di informazioni. Troppe, rispetto a quante ne potremmo processare correttamente.

Questo è il motivo che porta le persone a ricorrere a delle specifiche strategie cognitive per essere più veloci, risparmiare tempo e fare meno fatica nell’elaborazione delle informazioni. Esistono infatti delle vere e proprie scorciatoie mentali che soddisfano pienamente queste esigenze. Tuttavia, se da un lato queste scorciatoie sono utili al nostro cervello per fare preziosa economia cognitiva, d’altra parte le stesse molte volte ci portano fuori strada, facendoci inciampare in un susseguirsi di errori di ragionamento e di valutazione che prendono il nome di bias cognitivi.

Quanto spesso e quando si incorre in tali errori?

Facciamo un esempio pratico: tra i pescatori e i poliziotti secondo voi chi ha più probabilità di morire a lavoro?

Rispondete d’istinto!

Le numerose news riguardanti la morte di poliziotti inducono la maggior parte delle persone a pensare che la risposta corretta sia “poliziotti”, ma le statistiche parlano chiaro: la professione del pescatore è molto più pericolosa. Eppure, molti credono che fare il poliziotto sia molto più rischioso rispetto al fare il pescatore.

Rifletteteci: se vi fate ingannare anche solo da queste piccole cose, quante altre volte cadete in errore senza rendervene minimamente conto? Potreste sbagliare la risposta a domande innocue come questa, oppure potreste cadere in errore in situazioni ben più delicate ed importanti (ad esempio, quando dovete scegliere se fare o meno un investimento o quando siete nel mezzo di una negoziazione per la vostra azienda).

In ogni momento della giornata potreste farvi ingannare dal vostro cervello senza accorgervene.

Infatti, i bias cognitivi si innescano più volte giornalmente e ogni minima decisione potrebbe essere minata da tali processi.

Che funzione hanno i bias?

Se siete dotati di un cervello, allora non potete farne a meno: la ricerca ha infatti evidenziato che i bias non sono un optional, bensì, sono parte del funzionamento normale dell’individuo.

Relativamente a questo argomento, gli individui tendono a dividersi in due fazioni: alcuni accettano questi dati provenienti dalla letteratura facendone tesoro, altri pensano invece di essere diversi, più furbi e in un certo senso immuni a tali errori cognitivi. Il paradosso è che anche pensare di non rientrare all’interno di dati statistici come questi è un’ulteriore forma di bias cognitivo (in questo caso parliamo del cosiddetto “overconfidence bias”).

Il cervello di ognuno di noi è infatti governato da precisi meccanismi che funzionano allo stesso modo in qualsiasi essere umano e, in questo senso, i bias cognitivi riguardano tutti.

In particolare, esistono due regole che stanno alla base del motivo per cui ricorriamo a tali strategie.

La prima è il risparmio di energie: il cervello vuole a tutti i costi risparmiare energie cognitive e, laddove possibile, lavorare senza affaticarsi; questo fa sì che spesso esso prenda delle scorciatoie. Può sembrare una strategia intelligente ma in realtà tali scorciatoie (le euristiche) portano frequentemente ad errori (i bias).

La seconda regola è la rapidità: il cervello tenta infatti di portare a termine i suoi compiti il più velocemente possibile.

Bias cognitivi, qualcosa da cui stare solo alla larga?

Ad ogni modo, sarebbe scorretto affermare che i bias sono sempre negativi. Infatti, tali errori cognitivi, tra le altre cose, sono probabilmente i meccanismi della mente umana che vi hanno permesso di arrivare fino a qui oggi.

Uno dei motivi principali per cui i bias sono utili è legato ai concetti di evoluzione e sopravvivenza: in situazioni pericolose in cui avete poco tempo per analizzare nel dettaglio tutte le alternative e prendere delle decisioni è fondamentale avere un cervello che sia capace di processare rapidamente quello che accade.

In sintesi…

I bias sono degli errori cognitivi tipici dell’essere umano che s’innescano quando il cervello deve agire con rapidità e risparmiando energie cognitive.

Sono dunque “scorciatoie cognitive” che, da un lato ostacolano i nostri processi di decision making portandoci fuori strada, dall’altro ci permettono di prendere decisioni sufficientemente buone in condizioni temporali ristrette e quando abbiamo poche informazioni a disposizione.

Inoltre, il numero di bias cognitivi che ogni giorno possono innescarsi nel nostro cervello è vastissimo: esistono decine e decine di categorie di bias diversi e ogni essere umano, per quanto possa ritenersi intelligente, razionale e logico ne subisce le conseguenze giornalmente. Potenzialmente, ogni nostra decisione, incluse quelle più importanti, potrebbe essere inficiata da un bias cognitivo.

In tal senso gli esseri umani sono a tutti gli effetti degli esseri irrazionali che amano definirsi razionali.

08 Dic 2021

IL SORPRENDENTE BENEFICIO DI ATTRAVERSARE TEMPI DURI

IL SORPRENDENTE BENEFICIO DI ATTRAVERSARE TEMPI DURI

Gli psicologi, studiando la crescita post-traumatica, hanno rilevato che la maggior parte delle persone che affrontano e superano eventi traumatici evidenziano una crescita psicologica positiva.

Uno degli auto-ritratti più famosi di Frida Kahlo la ritrae nuda e sdraiata in un letto d’ospedale molto più grande di lei. Il suo corpo è circondato dal sangue, e dalla pancia, ancora ingrossata per la gestazione del bambino, escono tre vene rosse che conducono a vari elementi fluttuanti differenti, tutti connessi alla sua esperienza di aborti multipli.

Tale lavoro è considerato uno degli esempi più iconici e significativi di un’artista che, cimentandosi col proprio dolore, è riuscita a tradurlo egregiamente in arte.

Frida Kahlo realizzò infatti più di duecento opere nella sua vita, raccontandoci, attraverso la sua arte, le esperienze traumatiche vissute nel corso della sua esistenza. E’ cioè riuscita a rendere visibile il dolore attraverso il linguaggio dell’arte e l’arte la aiutò ad esorcizzare il dolore.

Il fenomeno dello slancio generativo e creativo nato dall’avversità può essere osservato non solo nelle vite di artisti famosi, ma anche in numerosi studi di laboratorio.

Nell’ultimo ventennio, infatti, sono diversi gli psicologi che hanno iniziato ad analizzare empiricamente la crescita psicologica post-traumatica. Ad oggi la stessa è stata osservata in più di 300 studi scientifici.

La crescita post-traumatica

Il termine crescita post-traumatica è stato coniato negli anni 90 dagli psicologi Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun per descrivere i casi di soggetti che manifestavano un profondo cambiamento positivo di sé dopo aver affrontato vari tipi di esperienze traumatiche o, più generalmente, circostanze di vita difficili.

La ricerca psicologica ha evidenziato come più del 70% degli individui sopravvissuti ad un trauma riporti una sostanziale crescita psicologica positiva.

Secondo gli studiosi la crescita post-traumatica può assumere forme differenti. Si può ad esempio manifestare con un maggiore apprezzamento per la vita, l’identificazione di nuove possibilità future, relazioni interpersonali più soddisfacenti, una vita spirituale più ricca e, infine, un senso di forza personale.

Una battaglia con il cancro, ad esempio, potrebbe tradursi in una rinnovata gratitudine per la propria famiglia; ancora, essere riusciti a sopravvivere ad un incidente mortale potrebbe rivelarsi un’esperienza in grado di fungere da catalizzatore per ancorarsi ad un lato più spirituale della vita.

Gli psicologi hanno inoltre trovato che le esperienze post-traumatiche portavano comunemente anche ad una maggiore empatia e altruismo, oltre che ad una motivazione ad agire per il bene degli altri.

Ma come è possibile che da esperienze cosi traumatiche si possa non solo tornare al proprio funzionamento di base ma addirittura arrivare a migliorare sé stessi e la propria vita così drasticamente?

Il modello di Tedeschi e Calhoun

Il modello maggiormente condiviso e accreditato dalla letteratura sulla crescita post-traumatica è quello di Tedeschi e Calhoun.

Secondo i due ricercatori dell’università del Nord Carolina le persone sviluppano e si basano naturalmente su un sistema di credenze e di assunzioni relative a loro stessi e al mondo circostante.

Per far sì che il trauma possa determinare una crescita psicologica è necessario che l’evento avverso arrivi a cambiare drasticamente e profondamente tali credenze.

Il modo in cui l’evento traumatico trasforma la nostra visione del mondo può essere simbolicamente paragonato ad un terremoto; le strutture fondamentali del pensiero crollano infatti a pezzi di fronte alla magnitudo dell’impatto.

Di fronte ad un evento estremamente avverso siamo infatti letteralmente scossi da quella che può essere la nostra percezione ordinaria e lasciati a ricostruire noi stessi e il nostro mondo. E tanto più siamo scossi, più dobbiamo lasciare andare i vecchi sé e le credenze passate e ricominciare nuovamente da zero.

Secondo gli autori, dopo un evento traumatico (ad esempio una grave malattia o la perdita di una persona amata) gli individui si ritrovano ad elaborare l’esperienza attraverso forti processi di ruminazione cognitiva e pensieri intrusivi; essi tendono infatti a pensare intensamente e frequentemente a quanto accaduto e ciò avviene tipicamente con forti reazioni emotive.

È importante però notare che per quanto la tristezza, il dolore, la rabbia e l’ansia siano risposte comuni ad un’esperienza traumatica è proprio accanto a tali vissuti, e non al loro posto, che generalmente si verifica il processo di crescita e ricostruzione.

Il processo di ricostruzione può essere visto come un modo per adattarsi alle circostanze estremamente avverse e per acquisire una comprensione sia del trauma stesso che del suo impatto psicologico negativo.

Tedeschi e Calhoun ritengono che una volta che le più importanti strutture del sé sono state scosse dall’evento avverso, siamo finalmente nella posizione di perseguire opportunità nuove e magari anche più creative.

Seppur difficile e faticoso, il processo di ricostruzione può essere incredibilmente stimolante e, attraverso la costruzione di nuovi obiettivi, schemi e significati, esso può aprire la porta ad una nuova vita. Il sopravvissuto al trauma corregge la definizione di sé accogliendo la sua nuova forza e saggezza, arrivando così a ricostruire un sé interiore più autentico e vero.

È importante sottolineare…

Nonostante le possibilità di crescita evidenziate, le esperienze traumatiche, in qualsiasi forma, sono comunque tragiche e psicologicamente devastanti per l’individuo. Tali esperienze possono infatti portare, allo stesso tempo, conseguenze sia negative che positive. In effetti, come sostengono Tedeschi e Calhoun, all’interno dei processi di crescita post-traumatica, perdita e guadagno, sofferenza e crescita, spesso si co-verificano.

01 Dic 2021

LA TEORIA PSICO-SOCIALE DEI GRUPPI DI LEWIN

LA TEORIA PSICO-SOCIALE DEI GRUPPI DI LEWIN

Il primo autore che fa riferimento agli studi ‘sul’ e ‘di’ gruppo è Kurt Zadek Lewin (1890-1947) il quale, indagando i diversi fenomeni di gruppo in termini sperimentali, è riuscito a definirne lo statuto socio-psicologico.

Spinto dagli avvenimenti della Germania nazista, Lewin si interessò sempre più a tali dinamiche arrivando alla conclusione che il gruppo è un’entità diversa rispetto all’insieme dei singoli individui che lo compongono.

Il gruppo assume così la concezione di “totalità dinamica” le cui proprietà strutturali differiscono da quelle delle sue sotto parti: esso si caratterizza infatti per la stretta interdipendenza dei suoi membri, ed i loro rapporti reciproci determinano le proprietà strutturali del gruppo stesso.

Questa prospettiva comporta una definizione di gruppo sempre valida, indipendentemente dalla sua composizione, grandezza e finalizzazione.

Il campo secondo Lewin

Lewin basa la sua visione dell’individuo e del gruppo sul concetto di campo ­­­— metafora che eredita dalla Gestalt — come insieme di elementi che costituiscono un’unità la quale è più della semplice somma delle singole parti.

Ogni elemento così come ogni comportamento non può essere letto o considerato senza prendere in esame il posto che occupa nel campo, in quanto è proprio all’interno di quest’ultimo che ciascun elemento acquista un significato nuovo.

Se consideriamo l’individuo, il suo campo psicologico include oltre a sé stesso tutto l’insieme dei fattori ambientali.

Nello specifico, secondo Lewin ci sono tre livelli da considerare:

  1. Sociale e ambientale: livello all’interno del quale esistono tutti quegli elementi/persone/eventi che accadono al di là della volontà individuale;
  2. Spazio di vita: livello in cui esistono le rappresentazioni psicologiche della vita;
  3. Frontiera: luogo all’interno del quale le dimensioni precedenti si incontrano.

Il gruppo e il campo sociale

Un gruppo, per Lewin, è a sua volta un campo in cui gli individui si amalgamano per creare qualcosa di più grande, una totalità con caratteristiche proprie, qualitativamente diverse da quelle dei singoli individui.

L’obiettivo è quello di trovare un equilibrio tra il dentro e il fuori. Secondo Lewin, infatti, così come accade per l’individuo, anche il gruppo è in costante contatto con l’ambiente e cerca di trovare un equilibrio tra richieste interne ed esterne. Il gruppo si configura infatti come una realtà dinamica che si muove continuamente in quanto la staticità ne decreta la fine.

L’interdipendenza nei gruppi

Secondo la teoria dei gruppi di Lewin l’elemento chiave di un gruppo ­­- ciò che lo tiene insieme e ne caratterizza l’identità – è l’Interdipendenza, ossia, il forte legame tra gli elementi che lo compongono i quali non possono vivere gli uni senza gli altri.

Esistono tuttavia due tipi di interdipendenza che qualificano due tipologie di gruppo: l’interdipendenza del destino e del compito. Entrambe creano dinamiche che incidono sulla produttività del gruppo e sul suo clima interno.

L’interdipendenza del destino

In questo primo caso il gruppo nasce e tiene al suo interno individui che condividono un’esperienza o una condizione esistenziale che li rende uniti perché hanno un destino comune.

Tale forma di interdipendenza costituisce un elemento macroscopico d’unificazione in quanto qualunque aggregato casuale d’individui può diventare gruppo se le circostanze ambientali attivano la sensazione di condividere la stessa sorte, di essere nella “stessa barca”. Si tratta dunque di un gruppo che sperimenta un forte senso di coesione per il solo fatto di condividere un destino comune.

A tal proposito, si può citare un episodio noto alla letteratura scientifica e denominato “sindrome di Stoccolma”: nel 1973, quattro impiegati di una banca furono presi in ostaggio da due banditi per cinque giorni.

Tra i sequestrati ed i sequestratori s’instaurò una sorta d’atmosfera di gruppo così forte da non spezzarsi con la liberazione: infatti, i primi testimoniarono a favore dei secondi al processo, li andarono a trovare in carcere e si celebrò addirittura un matrimonio tra un’impiegata ed un bandito.

Tale accadimento ha una duplice interpretazione: per la psicologia clinica, esso deriva dall’attaccamento della vittima al carnefice, mentre, per l’approccio psicosociale, è un’esemplificazione estrema di come un insieme di persone possa costituirsi in un gruppo, sotto la spinta d’eventi stressanti e imprevedibili che generano la sensazione del comune destino.

L’interdipendenza del compito

In questo secondo caso il gruppo – ad esempio di studio o di lavoro – nasce perché deve portare a termine un obiettivo per cui è necessaria la collaborazione di molti.

Tale forma di interdipendenza costituisce un elemento più forte e diretto d’unificazione, perché lo scopo del gruppo determina tra i membri un rapporto di ripercussione circolare degli esiti. In altri termini, i risultati delle azioni di ciascuno hanno delle implicazioni sui risultati degli altri.

Tali implicazioni possono essere positive o negative. In tal caso, si parla di interdipendenza positiva (o collaborazione) quando il risultato positivo di un membro implica il successo del gruppo e di interdipendenza negativa (o competizione) quando la riuscita di un membro costituisce l’insuccesso di un altro o dell’intero gruppo.

La teoria lewiniana si fa dunque portavoce di nuove definizioni e concetti dai quali partono poi ulteriori studi degli allievi di Lewin. Le teorizzazioni dell’autore sono state solo la base da cui si sono sviluppati ulteriori studi che hanno coinvolto numerosi altri ricercatori e impostato nuove prospettive chiave, come le riflessioni e le definizioni sullo status, sulla leadership o, ancora, sul potere del gruppo.