11 Dic 2019

DSA: DISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO

DSA: DISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) sono un ampio gruppo di disordini che si manifestano con notevoli difficoltà nell’apprendere ed utilizzare il linguaggio orale, le espressioni linguistiche, la lettura, la scrittura o la matematica. Gli alunni con diagnosi di DSA sono quindi bambini intelligenti ma che, con l’inizio della scolarizzazione, incontrano una difficoltà specifica nel leggere, nella matematica, nello scrivere in modo fluido o corretto. Può essere presente una sola di queste difficoltà specifiche oppure più di una, in questi casi si parla di comorbilità, termine che indica la coesistenza di più disturbi nella stessa persona. I disturbi specifici dell’apprendimento sono:

  • Dislessia: disturbo legato alla capacità di leggere. Il bambino, rispetto ai suoi compagni, presenta delle difficoltà nella lettura fluente di un testo.

  • Disortografia: disturbo relativo alla capacità di scrivere. Il bambino manifesta delle difficoltà quando deve scrivere, facendo molti errori ortografici. Dimentica di scrivere alcune lettere dell’alfabeto o alcune vocali e ha delle difficoltà a copiare dalla lavagna o da un testo.

  • Disgrafia. È un’altra problematica che compromette la capacità di scrivere. Il bambino ha una scrittura poco leggibile perché non riesce a rispettare il rigo, dimentica di scrivere delle lettere e ha difficoltà ad impugnare la penna.

  • Discalculia: disturbo legato alla capacità di calcolare. Il bambino non riesce a fare calcoli corretti, presenta delle difficoltà a contare, soprattutto al contrario, e manifesta dei problemi a capire i concetti di quantità e riporto.

DSA, COME RICONOSCERE I SEGNALI

Riconoscere i DSA nel bambino in età evolutiva non è un’operazione semplice ed immediata. L’errata identificazione del problema non permette di applicare i giusti trattamenti per facilitare l’apprendimento del bambino. Purtroppo non è sempre facile capire se un bambino presenta uno o più disturbi specifici dell’apprendimento. Nella maggior parte dei casi si tende a catalogare il bambino come svogliato e poco attento. Le conseguenze dirette di questa sbagliata interpretazione del problema, portano a peggiorare la situazione. In base all’età è possibile intuire grazie ad alcuni segnali l’esistenza del problema.

Nei bambini dai 3 ai 5 anni si riscontrano delle difficoltà a ricordare le filastrocche in rima, riconoscere il significato di alcune parole e a dividere le parole in sillabe.

Nei bambini dai 5 ai 7 anni si riscontrano delle difficoltà a utilizzare le sillabe e riconoscere il significato delle parole, ma anche contare e memorizzare a mente le operazioni. Nei bambini con DSA, l’apprendimento è lento e il rendimento scolastico basso: non riescono ad esprimere bene i propri pensieri, hanno scarsa capacità di calcolo e scrittura poco chiara.

Nei bambini dai 7 ai 12 anni, si riscontrano difficoltà nella comprensione dei testi, nell’apprendimento delle tabelline e nella scrittura. Sono bambini che fanno confusione con i numeri, i concetti e i simboli e non riescono a distinguere la destra dalla sinistra.

Nei bambini dai 12 anni in poi si riscontrano delle difficoltà nella lettura, che si rivela poco fluente, nella pronuncia delle parole e nel vocabolario molto scarno. La scrittura è ancora poco leggibile e ricca di errori di punteggiatura e di sintassi e la capacità di memorizzare i concetti non è ancora ben sviluppata.

CHI E COME VIENE FATTA LA DIAGNOSI?

Il criterio principale su cui si basa la diagnosi dei DSA è quello chiamato della discrepanza. Essa si definisce come la differenza tra i risultati che un individuo ottiene rispetto a quelli che ottengono altre persone con caratteristiche simili. La certificazione diagnostica dei Disturbi Specifici di Apprendimento può essere rilasciata sia da strutture pubbliche del Servizio Sanitario Nazionale sia da strutture sanitarie private accreditate. L’Equipe multi professionale di valutazione deve essere costituita da: Neuropsichiatra Infantile, Psicologo e Logopedista.

QUALI SONO I DIRITTI DEI BAMBINI CON DSA?

La legge 170/10 riconosce i DSA come disturbi legati all’apprendimento che necessitano di trattamenti specifici. Stabilisce che il bambino possa godere di particolari aiuti scolastici, dietro opportuna certificazione della diagnosi. Nella legge si parla di misure di:

  • Misure dispensative. Date le reali difficoltà scolastiche di questi bambini, è necessario procedere a valutazioni orali e non scritte. La valutazione deve essere effettuata sulla base dei contenuti, senza basarsi sull’ortografia e sulla forma, compromesse dai DSA.

  • Strumenti compensativi. Ogni bambino con un DSA deve avere a disposizione dei mezzi che lo aiutano nel processo di apprendimento. Possibilità di registrare le lezioni, utilizzare testi in formato digitale, programmi di sintesi vocale, video-scrittura, correttore di ortografia, calcolatrice e qualsiasi altro strumento tecnologico che gli permetta di studiare più facilmente e fare esami.

Una diagnosi accurata e queste particolari disposizioni, aiutano il bambino a migliorare le sue capacità di apprendimento.

04 Dic 2019

L’ OBSOLESCENZA DELLE COMPETENZE

L’ OBSOLESCENZA DELLE COMPETENZE

L’obsolescenza professionale è uno dei grossi pericoli che un lavoratore può incorrere. Si tratta, della carenza, nei professionisti, di conoscenze o competenze aggiornate necessarie per fornire prestazioni efficaci nell’ambito delle funzioni lavorative attuali o future. I lavoratori maggiormente a rischio di obsolescenza sono i lavoratori anziani e gli occupati privi di opportunità per sviluppare le proprie competenze nel corso della carriera. L’erosione delle competenze è frutto di una serie di fattori interconnessi: le continue innovazione tecnologiche che rendono le competenze acquisite in precedenza superate ed inefficaci; l’incapacità del soggetto di essere sottoposto a un apprendimento continuo; la negazione o la mancanza di consapevolezza di possedere competenze obsolete e una resistenza al cambiamento da parte del soggetto.

L’obsolescenza delle competenze pone questioni rilevanti con riferimento alla predisposizione di sistemi di formazione professionale lungo tutto il corso della vita lavorativa.

LA FORMAZIONE CONTINUA: RIMEDIO CONTRO L’OBSOLESCENZA

La formazione continua ha il fine di permettere a ogni soggetto che la pratica di rispondere in modo efficace ed effettivo ai nuovi bisogni, cambiamenti e sfide che gli si presenteranno durante la vita professionale. La formazione continua è un processo individuale di acquisizione di competenze che permette di aggiornare ed adeguare la propria formazione rispetto ai bisogni sociali, lavorativi e professionali. Essa non va confuso con l’inevitabile accumularsi, nel corso degli anni, di capacità e abilità. Il principio alla base della formazione continua si riferisce a un processo intenzionale, che ha come motore principale l’individuo stesso che cerca le opportunità formative più adatte ai suoi bisogni. La motivazione che spinge l’individuo all’aggiornamento è influenzata da fattori organizzativi quali: il coinvolgimento o l’esclusione nei processi decisionali, il sostegno da parte dei supervisori, i riconoscimenti e premi predisposti per i soggetti con maggiori competenze o l’assenza di un sistema premiante. Nella lotta all’obsolescenza è necessaria sia la responsabilità dell’individuo, che ha il compito di aggiornarsi, sia dell’organizzazione che interviene sul clima organizzativo in modo che sia favorevole allo sviluppo professionale premiando coloro che si impegnano in attività di aggiornamento; creando un approccio strategico che porti una valutazione continua delle competenze necessarie all’azienda per mantenere il vantaggio competitivo; incoraggiando l’apprendimento collaborativo  e predisponendo attività di coaching, mentoring e comunità pratica.

Laddove le competenze apprese sono necessarie per soddisfare le esigenze del ruolo lavorativo ricoperto, sono quindi messe in pratica nell’immediato, la motivazione e i risultati del processo di aggiornamento sono positivi. Le attività per contrastare l’obsolescenza devono quindi essere pratiche, pertinenti e progettate per soddisfare obiettivi a breve termine specifici per il lavoro.

L’impatto dell’obsolescenza sul posto di lavoro può essere molto significativo. Gli individui possono mostrare una riluttanza a impegnarsi nella risoluzione dei problemi tecnici e la capacità di assumere nuovi modi di lavorare diventa limitata. Possono diventare incapaci di cambiare o resistere attivamente al cambiamento, ed avere una competenza tecnica non più sufficiente. Tutto questo, genera una perdita di autostima nell’individuo che ha il potenziale di diminuire non solo la produttività del team di lavoro, ma anche dell’organizzazione.

LA FORMAZIONE CONTINUA: UN PUNTO DI INCONTRO TRA IMPRESA E LAVORATORE

Il concetto di Learning Organization è riferito a una struttura organizzativa volta a sviluppare conoscenze, al fine di assicurare all’organizzazione stessa una migliore capacità di adattamento e di risposta alle perturbazioni dell’ambiente esterno. Non tutte le organizzazioni che investono risorse e tempo nella formazione sono considerate Learning Organization, ma per essere considerate tali devono possedere una caratteristica essenziale: la formazione continua. La formazione continua è intesa come una formazione rivolta a occupati che chiedono di aggiornare e migliorare le loro crescita professionale. Essa è un punto di incontro tra impresa e lavoratore. Dal punto di vista dell’impresa, la formazione, è vista un modo per mantenere il vantaggio competitivo, è un metodo per coordinare capacità e competenza in vista degli obiettivi aziendali. Dal punto di vista del lavoratore, la formazione, rappresenta l’opportunità per sviluppare competenze a medio e lungo termine aumentando la loro employability (impiegabilità) nel mercato interno ed esterno all’impresa.

04 Dic 2019

LA RABBIA: EMOZIONE PRIMORDIALE ADATTIVA O DISADATTIVA?

LA RABBIA: EMOZIONE PRIMORDIALE ADATTIVA O DISADATTIVA?

Si riporta frequentemente la dicitura di “emozioni negative” ed “emozioni positive”, dando conferma a una diffusa e comune convinzione che ci siano delle emozioni giuste e delle emozioni sbagliate e che pertanto le emozioni “negative” devono essere immediatamente represse. In realtà, le emozioni possono essere piacevoli o spiacevoli, coerenti con la situazione o incoerenti, ma non giuste o sbagliate. Tra le emozioni verso cui si nutrono i maggiori pregiudizi rientra senz’altro la rabbia che viene confusa con l’aggressività, ma mentre prima è un’emozione, la seconda è una delle risposte comportamentali. La rabbia ha la funzione di segnalarci che, in una certa situazione, non ci sentiamo rispettati o capiti, l’aggressività, invece, è una risposta disfunzionale a questa percezione.

Cos’è questa rabbia? È un emozione che si manifesta in tutti, grandi e piccoli, e in alcuni casi porta l’attuazione di comportamenti agiti, mentre in altri, viene soffocata. Capita spesso di vedere un bebè urlare o lanciare oggetti manifestando un proprio stato di rabbia, ciò dimostra che si tratta di un emozione innata che si manifesta fin da subito. La rabbia è un emozione primordiale che ha una funzione adattiva necessaria per difendersi e sopravvivere all’ambiente esterno. Quindi, inizialmente la rabbia ha un funzione adattiva che stimola la tutela della propria dignità e a spinge a chiarire con noi stessi e con gli altri ciò che ci sta bene e ciò che invece non possiamo tollerare o accettare. L’uso adattivo della rabbia implica pertanto le capacità di esprimere pensieri, bisogni ed emozioni riguardanti il vissuto di ingiustizia in modo chiaro ed efficace, senza per questo danneggiare o ferire i sentimenti altrui.

La rabbia può portare anche conseguenze negative per l’individuo. Livelli di rabbia elevati comportano un rischio per la salute; diversi studi hanno messo in evidenza la relazione tra rabbia, aggressività e malattie coronariche. Nel caso in cui la rabbia sia espressa prevalentemente aggredendo, l’individuo determina le condizioni per una rottura dei legami sociali e possibili ritorsioni. Tuttavia, è altrettanto problematica l’inibizione cronica dell’espressione di questa emozione, infatti individui che considerano l’espressione della rabbia come inaccettabile, tenderanno a reagire passivamente alle situazioni che la attivano. Queste reazioni disfunzionali e la disregolazione emotiva possono indicare la presenza di alcuni ostacoli all’interno delle diverse fasi del processo che genera la rabbia.

Per questo motivo, è importante sin da piccoli imparare a riconoscere tale emozione, acquisendo delle modalità per verbalizzare le emozioni e i pensieri connessi al vissuto di ingiustizia.

 

LA RABBIA: DAI FATTORI SCATENANTI ALL’IMPULSO AD AGIRE

La rabbia è una risposta emotiva intensa ma transitoria, che si protrae per brevi momenti. Il processo emozionale si sviluppa a partire da alcuni fattori scatenanti che vengono valutati come ingiusti o dannosi (attribuzione di significato). Tale valutazione innesca la reazione di rabbia e il conseguente impulso ad agire.

  • Eventi che innescano la rabbia: essere insultati, minacciati, non raggiungere i propri obiettivi ecc.
  • Pensieri e attribuzioni di significato che suscitano rabbia: gli stimoli o gli eventi scatenanti vengono valutati dal singolo individuo, come ingiusti o dannosi alla propria persona.
  • Esperienza di rabbia: gli eventi e gli episodi giudicati dal soggetto come esperienze di ingiustizia e danno producono reazioni di rabbia. La rabbia è contraddistinta da alcune componenti riconoscibili in tutti gli individui: modificazioni somatiche (aumento della tensione muscolare e della temperatura corporea); sensazioni (percezione soggettiva delle modificazioni che avvengono nel corpo, come la sensazione di esplodere, di essere fuori controllo); espressioni mimiche e posturali (volto arrossato e teso, aggrottamento della fronte e delle sopracciglia).
  • Impulso ad agire: sotto la spinta della rabbia e dei cambiamenti fisiologici associati ad essa, il soggetto percepisce l’impulso ad attaccare e l’organismo si prepara all’azione.

INTERVENTI PER GESTIRE LA RABBIA

Gestire la rabbia, non significa controllarla o inibirla, ma modularne la risposta emotiva in modo da organizzare l’esperienza e le risposte comportamentali adeguate allo specifico contesto. Esistono diversi tipi di interventi psicologici che possono essere utilizzarti per favorire il processo di gestione della rabbia:

  1. La psicoterapia cognitiva-comportamentale, fonda la sua teoria sull’idea che lo stato emotivo degli esseri umani è determinato dal significato personale che questi attribuiscono agli eventi della realtà. Di fatti la terapia cognitiva si avvale dell’analisi della relazione fra pensieri, emozioni e comportamenti per spiegare i disturbi emotivi.
  2. I gruppi psico-educativi per la regolazione emotiva sono degli interventi ben definiti e strutturati finalizzati ad apprendere, potenziare e generalizzare le abilità della regolazione emotiva. Gli interventi psico-educativi cognitivi-comportamentali prendono in considerazione più emozioni diverse, e la loro relazione con i pensieri e i comportamenti, in virtù del fatto che la rabbia “patologica” potrebbe essere determinata da più fattori.
  3. Il training di gruppo sull’assertività è un intervento efficace per promuovere negli individui, le capacità di esprimere, pensieri ed emozioni in modo chiaro ed efficace. E’ un trattamento particolarmente indicato per coloro i quali, nelle relazioni interpersonali, stentano a comunicare i propri bisogni, oppure li esprimono con aggressività e/o solo dopo aver percepito un danno. Il training assertivo ha lo scopo di far apprendere ai pazienti le competenze necessarie per migliorare la gestione delle relazioni sociale ed esplicitare il proprio punto di vista senza però negare o attaccare i sentimenti altrui.

 

27 Nov 2019

CHE COS’È IL COMPORTAMENTO PROSOCIALE?

CHE COS’È IL COMPORTAMENTO PROSOCIALE?

La prosocialità è la competenza a favorire, senza la ricerca di ricompense esterne, estrinseche o materiali, altre persone, gruppi o fini sociali oggettivamente positivi, secondo i loro criteri. La maggior parte degli psicologi intende la prosocialità come qualsiasi comportamento diretto a beneficiare le altre persone. Perché un’azione si possa considerare prosociale, il ricevente della stessa deve inoltre accettarla, approvarla ed esserne soddisfatto. Questo tipo di comportamento aumenta le probabilità di generare una reciprocità positiva e solidale nelle relazioni interpersonali o sociali successive, migliorando l’identità, la creatività, l’iniziativa positiva e l’unità delle persone o dei gruppi implicati (Roche, 1997). Gli psicologi sono stati spesso curiosi di trovare le risposte al perché le persone si impegnano in comportamenti prosociali. Una teoria, che risponde a tale quesito, è la selezione parentale: c’è una tendenza più alta a aiutare coloro che sono legati a noi più di altri. Un’altra teoria chiamata norma di reciprocità parla della necessità di aiutare qualcuno in modo che anche lui possa aiutarci in cambio. L’empatia e i tratti altruistici della personalità sono due altre ragioni che portano le persone a impegnarsi in comportamenti prosociali.

TRA COMPORTAMENTO PROSOCIALE E ALTRUISMO

Nel comportamento prosociale c’è una tendenza a prevedere premi psicologici o sociali che aiutano il comportamento, mentre l’altruismo è quando una persona aiuta un’ altra senza alcun interesse a ottenere benefici. Una persona altruista non si aspetta niente in cambio per il suo aiuto. Questo è il motivo per cui alcuni considerano l’altruismo come la forma più pura del comportamento prosociale. Prestare aiuto o dimostrare altruismo verso chi è in difficoltà può sembrare un gesto naturale ma, diversi avvenimenti di cronaca sembrano smentirlo. Sono noti, infatti, numerosi episodi di mancato soccorso come quello di Kitty Genovese, una giovane donna assassinata in piena notte in un sobborgo newyorchese nel 1964, il cui evidente bisogno di aiuto non sollecitò alcun intervento da parte delle persone presenti. Numerosi studi sperimentali dimostrano che essere testimoni di situazioni di pericolo insieme ad altri può  ridurre la prontezza a prestare aiuto anziché sollecitare altruismo verso le vittime.

Non esistono individui dotati di altruismo “in assoluto”; la psicologia sociale sottolinea come i comportamenti d’aiuto dettati dall’altruismo siano piuttosto il risultato dell’interazione tra le caratteristiche personali di ogni individuo e le specifiche situazioni di vita che egli si trova ad affrontare. Ciò vuol dire che le persone possono essere guidate dall’altruismo e fornire aiuto in un determinato contesto ma non in un altro.

I comportamenti prosociali, si muovono da motivazioni come lo stesso altruismo, l’empatia, la reciprocità, l’innalzamento dell’autostima e la gratitudine, ma comportano anche un costo in termini di stress, tempo, pericolo per sé stessi: si fornisce aiuto solo se la percezione dei benefici provocati dal proprio altruismo supera i costi ad esso associati. Come osserva Serge Moscovici (1994), esibire oggi comportamenti prosociali dettati da altruismo sembra quasi “controtendenza” in una società fondata sul primato dell’interesse e del successo individuale, in cui è l’egoismo la norma culturale dominante. In questo senso, molti sono gli studi avviati negli ultimi anni su programmi per educare alla prosocialità.

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EDUCARE ALLA PROSOCIALITÀ

Il comportamento prosociale si sviluppa nei bambini a partire dai primi due anni di vita, grazie a tre fattori principali:

  • L’osservazione ripetuta e costante del comportamento delle figure genitoriali, o di chi ne fa le veci: osservando come le figure di riferimento si relazionano con essi e con gli altri, i bambini imparano a comprendere le emozioni e i bisogni propri e altrui ed interiorizzano il senso dell’empatia.

  • Lo sviluppo della facoltà di percezione-azione nel sistema nervoso, che stimola le capacità empatiche.

  • Le caratteristiche dell’ambiente familiare e culturale in cui si cresce: un ambiente in cui si sottolinea l’importanza della relazione con l’altro, del suo rispetto, dell’ascolto delle esigenze e dei suoi sentimenti, dell’interdipendenza reciproca, della prossimità, della fiducia e dell’aiuto reciproco, sviluppa nei bambini un forte senso di responsabilità sociale e di prosocialità

Per queste ragioni, è rilevante educare i bambini alla prosocialità, all’altruismo e alla solidarietà, al fine di prevenire e ridurre spiacevoli episodi di violenza e aggressività . Ci sono 3 importanti atteggiamenti prosociali che un bambino dovrebbe imparare e un genitore dovrebbe insegnare:

  • Comportamento prosociale dell’aiutare.  Insegnare a un bimbo a rimuovere la sofferenza di un’altra persona, permette di aumentare il suo senso di realizzazione e la consapevolezza di essere una brava persona.
  • Comportamento prosociale del cooperare: I bambini che non sono in grado di cooperare fanno molta più fatica nel riuscire a lavorare efficacemente con gli altri, durante i loro anni formativi. Inoltre, dalla cooperazione i bambini imparano a delegare le responsabilità.
  • Comportamento prosociale della condivisione. Un bambino che è in grado di condividere i suoi giocattoli con gli altri è destinato a diventare un adulto generoso.

Non si dovrebbe mai smettere d’incoraggiare il proprio bimbo ad aiutare, condividere e cooperare. Questi tre comportamenti prosociali non dovrebbero mancare mai nell’educazione di un bambino.

27 Nov 2019

Lo Psicologo del Lavoro

Lo Psicologo del Lavoro

Dagli anni ’70-’80 ad oggi siamo passati dalla dimensione operativa e produttiva del lavoro alla necessità di migliorare la qualità della vita lavorativa. Allo stesso modo è nata l’esigenza di integrare le skills personali con l’obiettivo aziendale e favorire la crescita collettiva.

Il benessere psicologico nelle organizzazioni e la qualità degli ambienti di lavoro sono argomenti sempre più centrali nell’economia moderna e lo psicologo del lavoro svolge numerosi compiti proprio legati al raggiungimento del benessere psicologico nelle aziende utile sia ad aumentare il rendimento lavorativo sia a garantire che non subentrino problemi di derivazione psicosociale all’interno delle aziende.

Dato che la qualità dell’equilibrio psicofisico si ripercuote sull’ambiente di lavoro, fondamentale è l’intervento dello psicologo in azienda. La soddisfazione lavorativa del singolo è una buona base di partenza per comprenderne i comportamenti e in che modo sono correlati alla performance ma soprattutto al benessere dell’individuo.
La Psicologia del lavoro, delle organizzazioni e delle risorse umane fa riferimento alle relazioni tra persona, lavoro e contesti organizzativi con riguardo ai fattori personali, interpersonali, psicosociali e situazionali che intervengono nella costruzione delle condotte individuali e collettive.

I diversi compiti dello psicologo del lavoro e delle organizzazioni sono:

  • Formare e selezionare il personale, facendo coincidere necessità e qualità delle aziende e dei candidati nel miglior modo possibile;
  • Formare il personale ed analizzarne e svilupparne il potenziale;
  • Individuare i bisogni formativi del personale ed analizzare i contesti organizzativi e formativi;
  • Promuovere il benessere psicologico aziendale;
  • Progettare e mettere in atto interventi volti al miglioramento dell’organizzazione del personale;
  • Favorire dinamiche gruppali positive nel contesto aziendale.

Le competenze utili per diventare psicologo del lavoro sono:

  • Ascoltare attivamente e comprendere gli altri;
  • Possedere una buona capacità di espressione orale e scritta;
  • Saper gestire il tempo avendo un buon senso critico e capacità di problem solving;
  • Essere in grado di negoziare, istruire e favorire strategie di apprendimento efficaci;
  • Monitorare e valutare le prestazioni del personale o dell’organizzazione in generale;
  • Gestire le risorse umane, motivandole alla crescita.

La Psicologia del lavoro si connette sia con discipline psicologiche (ad esempio, Psicologia cognitiva, Psicologia sociale e dei gruppi, Psicometria, Ergonomia cognitiva, Psicologia della formazione, Psicologia dell’orientamento, Psicologia dinamica, ecc.) sia con altre discipline come le Scienze dell’organizzazione, le Scienze economiche e del management, la Medicina del lavoro, il Diritto del lavoro, ecc.. Nel loro lavoro, gli psicologi cooperano con altre figure professionali come manager, medici del lavoro, ingegneri, addetti alla gestione delle risorse umane, formatori, ecc..

Possiamo concludere che la presenza di una figura professionale come lo Psicologo che da supporto nell’ affrontare le difficoltà e funge da filtro con i vertici aziendali, è importante all’interno del proprio contesto di lavoro dato che è l’ambiente in cui passiamo più tempo durante l’arco della giornata. Dunque, il vantaggio di avere uno psicologo in azienda non è soltanto del singolo individuo e del suo equilibrio psicofisico ma di tutto il benessere aziendale.

 A tal proposito si è sentito parlare di una figura che in America si è già affermata e in Italia sta prendendo piede pian piano: il manager della felicità. Il suo scopo è quello di saper ascoltare, capire i bisogni dei dipendenti, fornire intervalli momentanei alla routine lavorativa.

Se la felicità inizia ad essere un trend possiamo sperare che il lavoro diventi per molti un posto felice.

 

20 Nov 2019

L’Outplacement

L’Outplacement

Oggi i lavoratori frequentemente si trovano a modificare le condizioni della loro occupazione. Talvolta la situazione induce a licenziare personale.

L’outplacement è l’attività di consulenza nell’ambito delle risorse umane  che si occupa di accompagnare le persone in uscita da un’azienda nella ricerca di nuove opportunità professionali. Il servizio di outplacement in Italia è regolato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali quale attività di supporto alla ricollocazione professionale. L’attività è effettuata dall’organizzazione committente (l’azienda presso cui la persona è assunta e dalla quale sta per essere licenziata o posta in cassa integrazione o in mobilità) ed è finalizzata alla ricollocazione di lavoratori nel mercato del lavoro. L’outplacement è un termine di derivazione inglese, importato dagli Stati Uniti dove è stato coniato intorno gli anni ’60. In Italia le principali società di outplacement sono rappresentate dall’AISO (Associazione Italiana Società di Outplacement).
Le attività di Outplacement, dunque, sono attività finalizzate a facilitare la rioccupazione nel mercato del lavoro di singoli o collettivi, attraverso la preparazione, l’accompagnamento e l’affiancamento durante il periodo di transizione. Le attività di supporto alla ricollocazione professionale si distinguono in due fasi:

  1. Autovalutazione: un’analisi delle caratteristiche personali, professionali e psicologiche del lavoratore, somministrando test, eseguendo un bilancio delle competenze, e motivando il soggetto a prendere coscienza della situazione che sta affrontando.
  2. Ricerca del lavoro perduto: si realizza attraverso canali diversificati come lo sviluppo di un network personale, la consultazione di siti, riviste, la pubblicazione di profili dei candidati sui siti dell’organizzazione che promuove la ricollocazione.

L’aspetto principale dei percorsi di ricollocamento è l’adesione attiva dell’interessato. Il ruolo delle agenzie di outplacement è di supporto alla flessibilità del mercato, e consiste nella valorizzazione dei candidati, focalizzandone le qualità e sottolineandone i punti di forza che rendono ogni lavoratore speciale e sul quale un’azienda può investire. Il rischio è che si possa spersonalizzare l’individuo, arrivando a trattarlo come un prodotto da vendere. Non è facile suscitare sentimenti positivi in una persona che ha appena subito una perdita ma deve passare un adeguato tempo, durante il quale chi ha subito un evento traumatico possa comprendere ciò che gli è accaduto, acquisire consapevolezza degli eventi e assimilare sentimenti ed emozioni.
L’outplacement offre l’opportunità di migliorarsi professionalmente, di sperimentare competenze nuove, di potenziare abilità latenti e rappresenta un’occasione di cambiamento della propria collocazione lavorativa. Il vissuto della persona può portare a sentimenti depressivi dovuto alla perdita di uno status sperimentato e rassicurante. Ci si sente falliti, con ansia per il futuro ed è per questo che sono necessarie forme di supporto e di accompagnamento che semplifichino il passaggio da un’azienda all’altra e da un contesto lavorativo a un altro nel modo meno traumatico possibile.

Un servizio di outplacement si esplicita in 4 fasi successive:

  1. Assessment (autodiagnosi/bilancio delle competenze)
  2. Preparazione degli strumenti di marketing (curriculum vitae, colloquio, lettera di marketing, ecc.)
  3. Ricerca attiva sul mercato
  4. Reinserimentooutplacement

Tipologie di Outplacement

  • Individuale: Si realizza attraverso 4 fasi precedute da un colloquio individuale dove il candidato si organizza con l’azienda e aderisce al programma di ricollocazione:
  1. Bilancio delle competenze: Prevede una stesura delle competenze del candidato. Quest’ultimo deve esprimere le competenze maturate nel corso del suo periodo lavorativo, i punti di forza e le aree di miglioramento. Da qui comincia anche, dal punto di vista psicologico, un percorso di ricostruzione dell’autostima. Il candidato viene invitato ad esplicitare tutte le esperienze passate e maturate. Questo lavoro tecnico viene affiancato da un lavoro emotivo sulla persona, per aiutarla nel momento del licenziamento, a non perdere la fiducia in se stessa e nelle proprie capacità e competenze.
  2. Profilo professionale e progetto professionale: Si mettono a punto le competenze maturate nel tempo dalla persona e le sue aspirazioni tenendo conto delle esigenze di mercato. Questi tre elementi servono per programmare un intervento formativo che colmi il gap tra le competenze della persona e quelle richieste per re-inserirsi nel mercato del lavoro.
  3. Coaching: È una strategia promozionale della persona, a partire dai propri curriculum vitae e lettera di presentazione. Con l’aiuto di un consulente si analizza il percorso professionale della persona e si definiscono i target di ricollocamento. Per la buona riuscita di questa fase il livello motivazionale e la percezione di benessere della persona devono essere elevati. Una volta completato il piano di marketing il consulente interviene sui difetti della persona che ne ostacolano il futuro. Il candidato può inoltre partecipare ad alcune simulazioni che lo mettono alla prova nel presentare correttamente il proprio percorso lavorativo, i successi raggiunti e ad affrontare nel miglior modo le criticità che possono essere sollevate dal selezionatore. La persona è ora pronta a “vendere se stessa”. Il coaching fa parte del percorso di outplacement soprattutto per quanto riguarda la fase iniziale in cui il candidato incontra ed instaura un rapporto con il proprio coach, questo rapporto dovrà facilitare le varie fasi per il candidato. Il coach andrà ad agire sul lato motivazionale del candidato, agendo sulle potenzialità. Si deve ben capire che il ruolo del coach non è quello di trovare un lavoro nuovo al candidato, ma di accompagnarlo all’interno di un percorso che lo metta nella condizione di capire le proprie esigenze e potenzialità da adattare al nuovo mercato del lavoro; dovrà quindi essere in grado di trasmettere al candidato la possibilità di capire i propri mezzi autonomamente oltre a come siano spendibili concretamente.
  4. Incontro con il mercato: La persona dopo aver fatto un lavoro su sé stessa cerca di re-inserirsi nel mercato attraverso alcuni strumenti che le vengono forniti e indicati dal consulente. Fra questi ricordiamo il network della società di outplacement che è una fonte importante di notizie che danno accesso ad opportunità di lavoro che alle fonti tradizionali sono sconosciute.

Un altro servizio importante erogato dall’outplacement è il counselling che è un supporto psicologico alla persona durante tutto il percorso di ricollocamento. Il consulente cerca di far emergere i sentimenti della persona licenziata, la rassicura sulla legittimità del senso di rabbia, lo invita a riflettere, lo sprona ad aver fiducia nel futuro e lo aiuta a rimanere sempre aggiornato.

L’Outplacement è un percorso che richiede un rapporto di estrema fiducia e collaborazione. Il consulente utilizza le proprie conoscenze e la propria professionalità per aiutare il disoccupato nel ricollocamento senza limiti di tempo e di mezzi. Il candidato, da parte sua, deve aderire al metodo proposto lavorando seriamente per trovare un’altra occupazione.

  • Collettivo: Si realizza attraverso 2 fasi:
  1. Fase di esaminazione: Viene esaminata la situazione aziendale da cui scaturisce la proposta di un progetto ad hoc inserito nell’accordo sindacale. La procedura necessita di un coinvolgimento attivo e immediato dell’azienda che ha richiesto l’intervento. Questa deve offrire un supporto alla decisione, un’analisi e comprensione della situazione vigente e all’individuazione di opzioni e messaggi da dare in accordo con il manager aziendale. Successivamente si presenta il progetto al management e alle organizzazioni sindacali e si procede poi con la presentazione del progetto ai candidati che verranno sottoposti a colloqui individuali.
  2. Fase di intervento: Consiste nella messa in atto del progetto, gli interventi sono sempre preceduti da azioni di tipo propedeutico: presentazione collettiva ai lavoratori dell’azienda con riorganizzazione e ridimensionamento degli obiettivi del progetto, raccolta delle adesioni, colloqui individuali con i lavoratori interessati a presenziare e frequentare il percorso per un approfondimento al fine di delineare motivazioni e aspettative, formazione dei gruppi.

20 Nov 2019

Il gruppo dei pari e gli adolescenti

Il gruppo dei pari e gli adolescenti

L’adolescenza rappresenta un periodo cruciale della vita in cui cambia in maniera radicale e tumultuosa il modo di sentire e di vedere il mondo, un periodo di transito dove il bambino inizia a divenire uomo ma ancora non si può dire tale. Questo momento di crescita è caratterizzato dalla rottura con il passato: il ragazzo deve dire addio al bambino e guardare avanti per capire che adulto potrebbe essere.

L’allontanamento dai genitori è fondamentale per cominciare a sperimentarsi con il mondo, ma non da soli, sono ancora troppo deboli. Il gruppo dei pari nell’adolescenza diventa più importante perché supporta, guida e protegge nel bene e nel male. L’instabilità degli adolescenti si esprime nell’oscillare e nel sovrapporsi di due bisogni opposti: quello di cercare una propria indipendenza e una propria progettualità e quello, ugualmente pressante, di sentirsi confermati e condivisi in questo cammino da parte degli altri. Il compito fondamentale dell’adolescenza è la definizione della propria identità, questo processo di crescita prevede una presa di distanza e differenziazione dalla famiglia che perde di centralità per cercare una propria dimensione più autonoma. In questa fase vi è un aumento dell’importanza attribuita ai rapporti sentimentali e amicali verso i pari; nei rapporti affettivi con i coetanei, l’adolescente cerca conferma al proprio senso d’identità personale che prima trovava nel rapporto con i genitori. Il ragazzo oscilla continuamente tra la condizione di bambino attaccato ai genitori e quella di adulto indipendente e il gruppo funge da stabilizzante in questo periodo di transito. L’altro diventa uno specchio in cui rivedere le proprie perplessità, i dubbi e le paure. Al gioco si sostituiscono nuove esperienze e nuove forme di apprendimento. In realtà anche questi sono nuovi giochi, ma gli adolescenti non mettono alla prova il loro corpo, la percezione e la loro forza come da piccoli, bensì si sperimentano in abilità e relazioni.

PARTECIPARE AL GRUPPO PER SODDISFARE I PROPRI BISOGNI

Ogni adolescente partecipa al gruppo con aspettative e desideri personali. Alcune attese sono legate a particolari bisogni, che possono trovare soddisfazione nella partecipazione a un gruppo. Nello specifico, i bisogni psicologici che il gruppo assolve durante l’adolescenza sono:

  • bisogno di influenzare gli altri per affermare la propria individualità. I ragazzi sentono il bisogno di esercitare un certo potere o autorità;

  • bisogno di inclusione in un nuovo gruppo che lo riconosca. I ragazzi hanno bisogno di essere riconosciuti e presi in considerazione, soprattutto dai coetanei. Essere parte di un gruppo è uno dei modi più efficaci per ottenere questo riconoscimento;

  • bisogno di affetto: l’amicizia e l’affetto tra i coetanei, il sostegno reciproco, la possibilità di relazioni vissute come positive rappresentano degli antidoti contro l’insicurezza che ogni ragazzo può affrontare nella sua fase di crescita.

IL GRUPPO DEI PARI E IL CONFORMISMO

Il conformismo è una caratteristica principale del gruppo dei pari: si tratta della tendenza ad assumere comportamenti simili a quelli riscontrati negli altri; in genere ci si sente spinti a farlo. La pressione può essere interna od esterna, reale o immaginaria. Il conformismo non è necessariamente un male e agisce in entrambe le direzioni: i pari possono spingere a comportamenti pro-sociali, così come facilitare azioni disadattive. Non tutti gli adolescenti ne risentono allo stesso modo; esistono in letteratura delle variabili che sembrano incidere sulla influenzabilità, anche se non devono essere considerate come dei meccanismi certi: genitori troppo permissivi o assenti, comportamenti anti- sociali nella famiglia, bassa autostima e famiglia monoparentale con un solo genitore nella vita dell’adolescente. Il tipico conformismo adolescenziale consente al ragazzo di “uscire fuori”, scoprendo in maniera graduale la propria identità, attraverso il rapporto e il confronto con i suoi coetanei.

Nel momento in cui inizia a definire un proprio essere, l’adolescente incomincia a prendere le distanze dalla famiglia e a mettere in discussione i valori imposti, tutto viene rianalizzato in base alla nuova personalità che si viene pian piano strutturando nella ricerca di un proprio io e una propria individualità autonoma e distinta. In questo senso il gruppo è un ambiente aperto, in cui è più facile esprimersi e trovare le forme per sperimentare la propria personalità anche contestando il mondo degli adulti.

Dal momento che il gruppo rappresenta un elemento così importante nella vita di un giovane, davanti ad un rifiuto subito, a volte il ragazzo non si sente ben inserito o accettato all’interno del gruppo di pari e in questi casi possono svilupparsi disagi e disturbi più o meno seri che potrebbero portare a stati d’ ansia specifici come l’ansia sociale o stati depressivi.

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RAPPORTO TRA GENITORI E ADOLESCENTI

L’ adolescenza è caratterizzata da continua ricerca, formazione e sperimentazione dei propri valori. Il tutto è affiancato da un progressiva emancipazione dal controllo dei genitori che dovranno assumere una funzione vigilante ma non oppressiva, tutelando comunque il rispetto delle regole familiari seppur adattate al momento di transizione dei propri figli. Una famiglia che ha puntato sulla concessione progressiva di un certo grado di autonomia avrà probabilmente formato un ragazzo che ha fiducia in sé e che non si bloccherà nelle scelte. L’autoritarismo porta più facilmente a un’adolescenza improntata sulla ribellione aperta (poiché il controllo non si ammorbidisce nel tempo), più frequente nei ragazzi che nelle ragazze. Specialmente in quest’ultimo caso tanto per i genitori, quanto per i figli, non è semplice riuscire a comunicare e, molto frequentemente, il clima familiare è saturo di tensione e conflittualità da cui sembra difficile uscire. Soprattutto se sono presenti dei comportamenti che destano preoccupazione, richiedere una consulenza o supporto psicologico, potrebbe risultare molto vantaggioso per arrivare a soluzioni che ripristinino l’equilibrio familiare.

13 Nov 2019

La Mindfulness a Lavoro

La Mindfulness a Lavoro

Sappiamo benissimo come lo stress può influire sul rendimento nel lavoro, sui rapporti tra colleghi, sulla soddisfazione personale con conseguenze e costi sia l’azienda sia per il lavoratore. Per questo motivo molte sono le forme di prevenzione adottate dalle aziende per impedire allo stress di intaccare in modo significativo la salute della persona. Gli interventi di prevenzione vengono chiamati interventi di stress management, e mirano ad accrescere la consapevolezza riguardo le cause e le conseguenze dello stress e a insegnare un normale livello di attivazione psicofisiologica. Sono centrati sulla persona piuttosto che sull’ambiente (organizzazione) e possono essere intrapresi dal singolo lavoratore per prepararsi ad affrontare situazioni stressanti future. Alcune aziende introducono sempre più benefit collegati al benessere, altre cominciano a progettare e implementare vere e proprie politiche di cura della persona; il benessere nel contesto professionale sta diventando un fattore essenziale in relazione alla motivazione e alla produttività del personale, a qualsiasi livello.

Cosa è la mindfulness?

La meditazione di mindfulness è una pratica antichissima consistente in un ascolto attivo e profondo di sé finalizzato a prendere consapevolezza momento per momento dei propri stati interni (pensieri, sensazioni ed emozioni). È un metodo di apprendimento trasformativo, ovvero un processo attraverso cui possiamo trasformare la nostra esperienza abituale per accedere a nuove possibilità. La meditazione, attraverso un atteggiamento di osservazione accettante, non-giudicante e non reattiva verso l’esperienza interna ed esterna permette di attuare le scelte più vantaggiose nel proprio operare nei vari ambiti dell’agire quotidiano. Tale atteggiamento permette di diventare più consapevoli di come le nostre convinzioni, credenze e schemi mentali influenzano i nostri stati d’animo e conseguentemente i comportamenti, anche nell’ambito aziendale o lavorativo. È un modo di essere che aiuta a star bene con sé stessi, e a sviluppare un rapporto più efficace e costruttivo con gli altri.

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La mindfulness in azienda: perché usarla?

I motivi per cui si cerca di promuovere e coltivare il benessere in azienda attraverso le pratiche di mindfulness sono molteplici: migliorare le performance interne di dipendenti e collaboratori, migliorare le dinamiche interpersonali, ottimizzare e potenziare le risorse personali individuali. Le aziende possono utilizzare la meditazione per promuovere nell’individuo un cambiamento profondo nel modo di rapportarsi alla dimensione lavorativa: nel modo in cui le persone percepiscono il loro ruolo, la relazione con gli altri, il significato stesso di lavoro. La forza infatti dell’esperienza meditativa si manifesta quando riusciamo a spostarci progressivamente dall’attenzione centrata su di sé all’empatia verso l’altro. Lo “stato meditativo” non è mai una condizione passiva, in realtà in tale pratica l’individuo impara in modo attivo e intenzionale a fermarsi e ad aprire spazi nuovi nella propria vita, per verificare la validità di ciò che sta facendo e capire qual è la direzione più vantaggiosa.

Tra le aziende più importanti che hanno deciso di implementare percorsi e programmi basati sulla mindfulness per i manager e i collaboratori troviamo Apple (fornisce spazi dedicati ai dipendenti consentendo loro di avere 30 minuti al giorno per meditare in ufficio, fornendo corsi sulla mindfulness e yoga, in una sala allestita allo scopo), Nike (i dipendenti hanno accesso a sale relax, e possono prendere parte a corsi di meditazione e yoga, senza dover mai lasciare l’azienda), AOL Time Warner (la società ha aggiunto corsi di meditazione nella giornata di lavoro), Google (ha sviluppato un programma di corsi di mindfulness volto ad aiutare i dipendenti a imparare a respirare consapevolmente, ascoltare i colleghi e a migliorare la propria intelligenza emotiva), Yahoo! (i dipendenti possono usufruire di sale per praticare varie tecniche meditative per ridurre lo stress durante il lavoro o per interagire con altre persone che condividono i loro interessi), Procter & Gamble (l’azienda offre un’ampia gamma di programmi di salute e fitness che comprendono corsi di meditazione e spazi per il rilassamento all’interno degli spazi aziendali), Deutsche Bank (all’interno di questa multinazionale sono stati offerti corsi di meditazione e di rilassamento, in specifici spazi dedicati, allo scopo di ridurre lo stress dei dipendenti e di creare benefici mentali e operativi sul posto di lavoro).

L’utilizzo della Meditazione di Mindfulness in un contesto aziendale è volto a creare principalmente i seguenti effetti e benefici:

  • Aiuta a portare la nostra mente nel qui ed ora (Hic et nunc) ovvero a vivere il più possibile il momento presente, liberando la mente dalla continua tendenza a vagare nel passato o nel futuro.
  • Sviluppo di competenze quali intuizione, creatività, consapevolezza emotiva.
  • Forte riduzione e migliore capacità di gestione dello stress.
  • Maggiore propensione e potenziamento del lavoro in team.
  • Mente più libera e attiva per prendere decisioni e gestire i problemi.
  • Favorisce l’apertura al cambiamento e la flessibilità.
  • Miglioramento delle dinamiche relazionali all’interno dell’azienda e nelle interazioni con l’esterno favorendo l’attivazione del fattore cooperativo e la collaborazione nei rapporti interpersonali e di gruppo.
  • Affrontare gli impegni professionali con incremento di energia, determinazione e maggiore lucidità.
  • Miglioramento generale nelle prestazioni professionali.
  • Imparare a dedicare alla nostra mente le stesse cure che normalmente dedichiamo al nostro corpo.
  • Migliora la comunicazione interpersonale.
  • Sviluppare maggiore consapevolezza e quindi maggior sicurezza in sé stessi e fiducia verso le proprie potenzialità.
  • Migliora il clima umano all’interno delle organizzazioni.

La mindfulness a lavoro: come usarla?

Esistono corsi di vari livelli e durata, per soddisfare esigenze e raggiungere obiettivi di diverso tipo all’interno delle aziende. Vi sono ad esempio programmi formativi sulla mindfulness implementati nel contesto lavorativo con frequenza quotidiana o settimanale e corsi o ritiri formativi intensivi in formato residenziale della durata di solito di 3, 5 o 7 giorni, volti a rafforzare non solo l’efficienza e le capacità attentive, ma anche l’empatia, la comprensione e lo spirito cooperativo tra i colleghi. Altri interventi sono volti a creare degli appositi spazi di meditazione all’interno dell’azienda (le cosiddette “Quiet Room”, dove i dipendenti possono prendersi delle pause meditative e di relax in particolare nei momenti di maggiore stress).

Qualsiasi momento può essere buono per praticare la mindfulness, basta seguire questi step:

  • Portare attenzione sul proprio respiro, rimanendo consapevoli di ogni inspirazione ed espirazione;
  • Procedere lentamente e consapevolmente con il compito o attività che si sta svolgendo;
  • Coinvolgere pienamente i propri sensi nell’attività, assaporando tutte le sensazioni emergenti.

La mindfulness ha effetti positivi non solo sullo stress, ma anche sulla tensione, sul trattamento di malattia cardiaca, sui problemi del sonno e sull’alleviamento del dolore cronico.

06 Nov 2019

La Psicologia dell’Emergenza

La Psicologia dell’Emergenza

Con il termine emergenza, si indicano tutte quelle situazioni impreviste ed improvvise che possono minacciare l’integrità fisica e psichica dell’individuo.

La Psicologia dell’Emergenza è un settore della Psicologia nato in Italia nell’ottobre del 1997, quando il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi attiva, nello stesso anno, l’intera comunità degli Psicologi italiani a seguito del terremoto Umbria-Marche. Nata dalla Psichiatria d’Urgenza, la Psicologia dell’Emergenza si è progressivamente sviluppata fino a diventare una vera e propria disciplina con caratteristiche proprie.

La Psicologia dell’emergenza, si connota quindi come quell’ambito della Psicologia volta alla ricerca, alla pratica e all’applicazione delle conoscenze psicologiche nei contesti di emergenza, ossia tutte quelle situazioni fortemente stressanti, che mettono a repentaglio il benessere del singolo individuo o dell’intera comunità.

Gli eventi critici sono innumerevoli e possono coinvolgere un individuo, una collettività o un intero Stato. Essi possono essere rappresentati da calamità naturali (come terremoti), disastri tecnologici (come incidenti nucleari), sanitari (come epidemie), sociali (come attacchi terroristici) o gravi incidenti stradali o sul lavoro, o atti di violenza (stupri o abusi sui minori). Questi accadimenti dolorosi, possono minare l’integrità psico-fisica di ogni individuo che ne sia vittima e di chiunque gli stia accanto. La Psicologia dell’emergenza quindi, oltre ad occuparsi della persona o delle persone direttamente coinvolte negli eventi critici, si occupa anche dei loro familiari e/o amici, dei soccorritori e della comunità.

Chi è lo Psicologo dell’emergenza?

Lo Psicologo dell’emergenza è uno Psicologo, che ha conseguito regolarmente la Laurea in Psicologia magistrale, si è abilitato dall’Esame di stato all’esercizio della professione e si è iscritto all’Albo degli psicologi nella sezione A. Per avvalersi delle necessarie conoscenze e competenze indispensabili per agire efficacemente negli ambiti di emergenza, egli dovrà seguire un Corso di formazione specifico.

Cosa fa lo Psicologo dell’emergenza?

Nella Psicologia dell’Emergenza esistono tre tempi: prima, durante e dopo l’emergenza. In ogni tempo ci sono compiti specifici e differenti che lo Psicologo dell’Emergenza deve svolgere:

  1. PRIMA: Attività di prevenzione
    •  Previsione su aspettative, possibilità e rischi
    • Informazione e comunicazione dei rischi
    • Formazione e simulazione
  2. DURANTE:
    • Soccorso
    • Tutela fasce deboli
    • Ricongiungimenti familiari
    • Mediazione culturale
    • Gestione dinamiche campo e gruppi
    • Basic Therapeutic Actions
    • Tutela salute mentale e prevenzione traumatizzazioni
    • Promozione processi di resilienza
    • Supporto ai familiari in lutto traumatico o in attesa di persone scomparse,
    • Sostenere le reti familiari, i legami interpersonali, le risorse comunitarie
  3. DOPO:
    • Decompressione emotiva
    • Rielaborazione esperienze
    • Gestione del lutto traumatico
    • Riflessione e confronto tecnico e culturale

Lo Psicologo dell’Emergenza, utilizza strumenti specifici della Psicologia, quali osservazione, colloqui, strumenti psicodiagnostici (test, questionari, interviste).

Cosa non fa lo Psicologo dell’emergenza?

La psicotraumatologia è spesso erroneamente confusa con la Psicologia dell’Emergenza, in realtà essa potrebbe esserne considerato solo un aspetto. Lo Psicologo dell’Emergenza può essere anche, ma non necessariamente uno Psicoterapeuta.

Lo Psicologo dell’Emergenza è chiamato a svolgere il suo lavoro in ogni situazione di emergenza. Inoltre può operare in diversi contesti, sia pubblici che privati, quali: Associazioni del settore terziario, Protezione Civile, Dipartimenti di emergenze delle ASL, 118, Pronto Soccorso Ospedaliero, Forze dell’Ordine, come ricercatore in centri studi pubblici e privati o presso l’Università o come Docente formatore per attività di formazione psicosociale sui temi delle emergenze; come libero professionista, dipendente o volontario.

Prima di intervenire attivamente sul luogo in cui è avvenuto un evento tragico è bene che gli operatori (volontari del soccorso, Protezione Civile, Forze dell’Ordine, …) siano preparati alla situazione che dovranno affrontare. Fondamentale è la formazione per ricoprire questi ruoli che molto spesso lasciano la sensazione di sentirsi impreparati e preoccupati per quello che si dovrà affrontare.

06 Nov 2019

L’ Assessment

L’ Assessment

Per assessment si intende la valutazione globale della persona, il suo potenziale, le attitudini, le competenze, la coerenza e adeguatezza ad un profilo lavorativo, considerando anche le sue risorse e i suoi limiti. La parola assessment deriva dal latino “assidere”, tradotta dall’inglese significa appunto “valutare, stimare, giudicare”. L’ obiettivo di un assessment può essere quello di valutare il potenziale, le attitudini, le competenze, la coerenza e adeguatezza ad un profilo lavorativo.

In psicologia esistono diversi campi applicativi dove il termine assessment assume connotazioni che spaziano dal rapporto individuale (aspetti clinici, patologie) al sociale (aspetti occupazionali, selezione del personale).

Assessment in psicologia clinica

In psicologia clinica l’accento dato all’assessment è più spostato sul rapporto individuale clinico-paziente e costituisce un processo di valutazione, documentazione delle competenze e del potenziale, retto dalle particolari capacità dello psicologo di comprendere lo stato emotivo, il vissuto interiore della persona e di delineare così un profilo che comprenda aspetti profondi, caratteriali (di personalità), relazionali e sociali.

La prassi dell’assessment in psicologia clinica comporta due fasi:

  1. Misurazione: si effettuano una serie di test psicodiagnostici standardizzati per raccogliere informazioni necessarie alla seconda fase e per avere un riferimento di partenza con cui confrontare i dati successivamente ottenuti somministrando gli stessi test durante ed alla fine del percorso di cura (studi longitudinali).
  2. Ipotesi: i dati raccolti nella prima fase, assieme ad una impressione globale che lo psicoterapeuta si fa del paziente, consentono di formulare ipotesi riguardo: la presenza di evidenti relazioni tra i disturbi; l’eziopatogenesi; le probabilità di successo delle diverse strategie terapeutiche che si hanno a disposizione; le tecniche e gli strumenti più adeguati a sostenere il trattamento.

Assessment in psicologia del lavoro

L’assessment in campo sociale e delle risorse umane è tutt’oggi molto utilizzato da reclutatori e selezionatori del personale per valutare candidati o i dipendenti all’interno di un’azienda e creare piani di sviluppo e formazione.

In psicologia del lavoro spesso si utilizza la denominazione di assessment center (un termine che venne utilizzato per la selezione degli agenti segreti, nella Seconda Guerra Mondiale) per identificare una metodologia di valutazione del potenziale, all’interno di una prospettiva volta al reclutamento, all’orientamento e alla valutazione delle competenze.

In Psicologia del lavoro l’assessement può essere utilizzato come:

  1. verifica del grado di adeguatezza del ruolo nell’organigramma aziendale
  2. rilevazione e valutazione delle attitudini
  3. valutazione del potenziale
  4. analisi delle risorse disponibili per la verifica del possesso di determinate capacità
  5. individuazione dei bisogni formativi in modo mirato
  6. verifica del possesso delle capacità necessarie per ricoprire posizioni diverse
  7. processi di selezione interni/esterni
  8. processo di verifica dell’architettura organizzativa dell’impresa
  9. audit a seguito d’esigenze derivanti da ristrutturazioni, fusioni, acquisizioni, collocazione di personale ed esuberi

La somministrazione di adeguati test ed i relativi risultati crea le condizioni per costruire un vero progetto di crescita di tutta l’organizzazione. L’intervento è sviluppato nella logica dei gruppi di lavoro, facendo percorrere ai dipendenti un viaggio ideale partendo dalla definizione stessa dei valori ed identificando quelli che, secondo il gruppo, si esprimono in azienda. Viene somministrato alle figure individuate un test per rilevare correttamente le competenze personali, le attitudini e la relativa coerenza con i ruoli assegnati. Inoltre viene fatta un’analisi di clima aziendale per definire il contesto globale di relazione, la motivazione delle risorse, le aree di rischio potenziale, ed impostare la risoluzione dei conflitti interpersonali tra i vari reparti dell’azienda.