17 Set 2019

La psicologia del turismo

La psicologia del turismo

Negli ultimi anni, all’interno di quell’ampio settore d’indagine che e’ la Psicologia Sociale, sta prendendo sempre piu’ piede e si sta sviluppando una nuova e importante branca definita Psicologia turistica.
L’attivita’ turistica e’ cresciuta costantemente nel tempo e sembra destinata ad una ulteriore crescita nell’immediato futuro, favorita parecchio dallo sviluppo moderno dei trasporti e delle comunicazioni.
Oltre a cio’, il turismo riveste una fondamentale importanza come fattore di benessere economico e di sviluppo sociale per molte zone depresse della terra, prive di altre risorse di sviluppo e di sostentamento. Di conseguenza, si puo’ affermare che l’attivita’ turistica e’ oggi il fattore piu’ decisivo fra gli agenti di cambiamento sull’ambiente dell’uomo. Un fattore che influenza non soltanto gli aspetti fisici del territorio, ma anche quelli sociali, psicologici e culturali.

A tutto cio’ bisogna aggiungere che, mentre nei secoli passati il viaggiare era un’attivita’ tipica soprattutto delle classi piu’ agiate, attualmente il turismo coinvolge milioni di persone di ogni livello sociale ed economico.

Anche in Italia il turismo rappresenta oramai la piu’ importante risorsa economica del Paese e, insieme ad importanti benefici economici, porta con se’ tutta una serie di altri fattori, sia individuali che sociali, che possono essere emotivi, cognitivi, culturali, geografici e chi piu’ ne ha piu’ ne metta. Come si puo’ notare, ci si avvicina sempre piu’ al campo di nostro interesse, la Psicologia. A tutto cio’ si associa il fatto che raramente il “fenomeno del turismo” e’ stato studiato approfonditamente all’infuori di quella che e’ la prospettiva puramente economica.
Chi si occupa di turismo (operatori turistici, imprenditori, enti, comuni, ecc…) tende, solitamente, a considerare questa attivita’ principalmente da un punto di vista geografico-economico, ignorando (volutamente o no) gli aspetti teste’ considerati, che sono invece da prendere in seria considerazione laddove si voglia coniugare ed integrare il fare turismo con gli innumerevoli fattori che su questa attivita’ incidono in vario modo. Pensiamo, solo per fare alcuni efficaci esempi, alla soddisfazione (o insoddisfazione) del turista per la vacanza, ai comportamento nella localita’ di vacanza, alle intenzioni e alle motivazioni che spingono gli individui a viaggiare, alle interazioni fra turisti e locali, ai processi decisionali che portano alla scelta di andare o no in vacanza.

I fattori psicologici sono stati, fra quelli che concorrono a delimitare l’ambito turistico, senza dubbio fra quelli meno studiati nel corso del tempo e, conseguentemente, il rapporto tra la psicologia ed il turismo solo recentemente si e’ andato consolidando ed coordinando.
Cio’ appare un po’ paradossale se si considera quanto detto in precedenza, cioe’ che l’attivita’ turistica rappresenta attualmente la piu’ importante risorsa del mondo, e considerando il fatto che la psicologia pervade oramai ogni ambiente della conoscenza e del comportamento umano.
Eppure, nonostante cio’, raramente scienza psicologica e attivita’ turistica si sono ritrovate ad interagire e a comunicare proficuamente.
Di sicuro, a prima vista e ad occhi inesperti, questi due settori d’indagine possono sembrare appartenenti a campi completamente lontani e a prospettive differenti.
In primo luogo perche’, come gia’ affermato, chi fa turismo gestisce la propria attivita’ prevalentemente in una prospettiva economica, di guadagno immediato; in secondo luogo perche’ chi fa psicologia di solito vuole soprattutto essere d’aiuto a persone che si trovano in particolari stati e situazioni, di malattia, e non si occupa di turismo.
O almeno questa e’ l’idea che possiede la maggior parte della gente comune.
Ma e’, senza alcun dubbio e in base a quanto fin qui detto, una visione piuttosto limitata.

La cosa certa, e’ che la psicologia italiana ha cominciato a rispondere solo recentemente a domande del tipo:

Chi e’ il turista? Cos’e’ il turismo?
Da cosa e’ motivato il turista?
Quali sono le peculiarita’ dei processi di scelta del turista?

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A livello internazionale, la definizione piu’ diffusa del “turista” lo identifica come quella persona che si trova fuori dalla sua abituale sede di residenza per un tempo minimo (in genere da uno a quattro giorni), in pratica chi si ritrova a dormire fuori casa per qualche giorno.
Altre definizioni aggiungono un ulteriore elemento e parlano di turista come chi spende il proprio reddito in un luogo differente da quello in cui lo produce.
Queste definizioni appaiono subito poco convincenti.
Infatti, possiamo inserire fra gli individui che rientrano in queste categorie anche soggetti che chiaramente non sono turisti, ad esempio militari che dormono nella caserma di un paese di cui non sono residenti, ricoverati che sono costretti a stare all’ospedale, lavoratori che spendono soldi nel luogo di lavoro che puo’ non essere quello in cui abitano.
Proprio per questi motivi, a questi due elementi della definizione, “il dormire fuori” e “lo spendere denaro in una sede lontana”, se ne aggiunge solitamente un terzo, un fattore psicologico appunto, cioe’ la motivazione, lo stato d’animo col quale il soggetto affronta sia il viaggio che le spese. Cosi’, la scelta del soggetto di viaggiare e spendere lontano da casa deve essere una scelta libera, volontaria.
Il turismo viene allora definito sia come uno spostamento prolungato che come una spesa, messi in atto dall’individuo volutamente e per motivi di piacere.
Soprattutto la ricerca scientifica, ma anche il senso comune, tende a considerare il turismo come una situazione esclusivamente legata al tempo libero, con caratteristiche particolari che la contraddistinguono. In particolare, la ricerca psicologica si e’ occupata soprattutto del viaggio “voluto”, quindi volontario.

Il rapporto che intercorre tra turismo e spostamento in generale puo’, quindi, essere rappresentato in sintesi, dal punto di vista psicologico, proprio in base alle motivazioni al muoversi. Questo e’, dunque, solo un breve ma efficace esempio di come il Turismo rientri pienamente nell’ambito di studi della Psicologia

17 Set 2019

Lo Smart working

Lo Smart working

Lo smart working, letteralmente lavoro agile, si configura come un nuovo approccio dell’organizzazione verso il lavoro e il dipendente, approccio capace di superare il format della prestazione vincolata ad una sede e a degli orari e di offrire spazio ad una cultura manageriale che fondi il perseguimento di obiettivi – e, dunque, misuri la performance – sui risultati anziché sul numero di ore lavorate ovvero di procedimenti curati.

Se prendiamo in considerazione la definizione che ne fornisce la legge, vale a dire una “modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato allo scopo di incrementarne la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” appare possibile sinteticamente chiarire che nel nostro Paese – a legislazione vigente – lo smart working consiste in una prestazione lavorativa che si differenzia da quella comunemente in uso, in quanto eseguita in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno ed entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva; inoltre, l’attività lavorativa può essere svolta tramite l’utilizzo di strumenti tecnologici che assicurano la maggiore flessibilizzazione dei processi lavorativi e permettono ai lavoratori di operare in asincrono.

I principi alla base dello smart working risultano essere, quindi, autonomia e responsabilità. Non è facile lavorare al di fuori degli spazi canonici (logistici e funzionali) dell’ufficio: richiede spiccate competenze di organizzazione, di orientamento agli obiettivi e ai risultati, di problem solving nonché di concentrazione, per non correre il rischio di farsi assorbire dalle pratiche quotidiane facilmente accessibili nell’ambiente (anche domestico) in cui si svolgerà il lavoro, o essere agevole preda di distrazioni nel caso di ambienti non convenzionali. E chiaramente è richiesto di avere solide competenze informatiche per poter tracciare e rendicontare il frutto del proprio lavoro, da discutere con una figura chiave: il leader agile, che ha il compito sia di ricondurre le regole agli obiettivi di lavoro, lontani da un approccio comando-controllo, sia di alimentare nuove modalità operative e prendere le decisioni per effettuare riunioni di lavoro.

Al leader agile spetta il compito di sostenere, attraverso un modello basato su feedback di miglioramento e di riconoscimento, le performance (oggettivamente inequivocabili) e i comportamenti del proprio team attraverso una cultura basata sulla fiducia, anche quando si verificano risultati disattesi rispetto agli obiettivi concordati. A questa figura compete di generare opportunità di crescita sugli errori dei colleghi, oltre che di rendersi il punto di riferimento stabile che riconduce ogni attività allo scopo primario di successo per l’azienda.

La fiducia diventa elemento essenziale nelle relazioni aziendali, fondamentali per un corretto funzionamento dell’impresa, mentre la flessibilità costituisce il tratto distintivo dei nuovi modelli di lavoro, che sempre più devono adeguarsi ai continui mutamenti del moderno contesto competitivo. Altri due aspetti chiave dello smart working si sostanziano nella collaborazione e nella comunicazione. L’autonomia sul lavoro, infine, favorisce un maggiore coinvolgimento dei dipendenti ad ogni livello dell’azienda.

Altro elemento che supporta lo smart working è il gruppo di lavoro, che per soddisfare i requisiti di complementarietà e di autosufficienza in termini di competenze e di ruoli, ha bisogno di nutrirsi attraverso la relazione: ecco che il coordinamento e lo scambio di conoscenze tra team risulta essere un ulteriore importante elemento attraverso il quale il leader agile diventa coach e può portare a valorizzare ed estendere esperienze virtuose, ma anche rendere note le esperienze più critiche su cui generare nuove soluzioni e opportunità di apprendimento utilizzando il confronto esteso e la leadership partecipativa, che mantengono il collante tra le persone al lavoro che facciano parte della stessa realtà.

Da qui il bisogno di fare crescere nei lavoratori la responsabilità del risultato, in grado di produrre effetti, rispetto alla crescente necessità di soddisfare le esigenze di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, nello spirito del “work life balance”. Per raggiungere tali traguardi appare indispensabile, da un lato, favorire lo spirito di collaborazione con valorizzazione dei talenti, così da fare maturare relazioni professionali che fondino sulla gestione intelligente del lavoro; dall’altro, garantire l’accesso a strumenti e sistemi tecnologici che assicurino la massima condivisione delle informazioni e la veicolazione delle comunicazioni occorrenti ad elevare la performance delle persone al lavoro.

Emerge, dunque, l’esigenza di pensare a nuovi spazi fisici, evolvendo dal layout tradizionale, basato essenzialmente sulla fisicità delle pareti di un ufficio, verso una varietà di ambienti progettati per adattarsi al meglio a diverse tipologie di attività.

Il contesto innovativo può caratterizzarsi anche per la presenza di differenti professionalità, così da promuovere la costituzione di gruppi di lavoro in grado di catalizzare persone orientate all’innovazione e alla collaborazione come nell’esperienza del co-working [4], che si basa su tre parole chiave:

– sviluppo,
– imprenditorialità,
– innovazione.

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Tocca al processo di innovazione il merito di realizzare un ambiente molto più stimolante, in cui sono favorite la generazione di idee e l’innovazione, prodromiche a una maggiore opportunità di apprendimento non disgiunta, peraltro, da una riduzione dei costi immobiliari.

Il coworking, è un nuovo modo di lavorare in assenza di rivalità. I cosiddetti coworker possono interagire in modo tale che ognuno, pur svolgendo in maniera indipendente il proprio lavoro, metta il proprio talento al servizio di un progetto comune. Si tratta di quel luogo dinamico in cui diverse persone, anche non operanti nello stesso settore o medesimo progetto, lavorano condividendo l’ambiente fisico e le risorse di un normale ufficio. Ovviamente, anche quando il lavoratore svolga la propria prestazione fuori dai locali aziendali – non essendo necessario che utilizzi una postazione fissa – il datore di lavoro resta comunque responsabile della sicurezza sia dei lavoratori che dei dati e dei software della organizzazione, con l’onere di dovere garantire il pieno e regolare funzionamento di questi ultimi.

13 Set 2019

Lo sviluppo del Digital Marketing

Lo sviluppo del Digital Marketing

Nel mondo accademico e fra gli addetti ai lavori il marketing digitale è chiamato in molti modi: Internet marketing, e-marketing, web marketing, modern marketing. Dave Chaffey, autore del libro “Digital Marketing: Strategy, Implementation and Practice” e di altri best seller sull’argomento, fornisce questa semplice definizione: “il Digital Marketing permette di raggiungere gli obiettivi di marketing attraverso l’utilizzo di tecnologie e media digitali”. Come fare in concreto? Bisogna gestire la presenza online dell’azienda attraverso i diversi canali online, ovvero siti web, mobile app e social media, e utilizzare le tecniche di comunicazione online come i motori di ricerca, il social media marketing, l’online advertising, e-mail marketing e le partnership con altri siti. L’obiettivo è acquisire nuovi clienti e fornire servizi migliori a quelli attuali, ampliando e rafforzando le relazioni, attraverso il CRM (customer relationship management) e la marketing automation. Tuttavia, perché il digital marketing abbia successo, è necessario integrare queste attività online con quelle effettuate sui media più tradizionali, come la carta stampata, la TV, il direct mail, in un’ottica di comunicazione multicanale.

Il digital marketing ha il vantaggio di permettere la misurazione di ogni attività. Nel creare un marketing plan serve però stabilire cosa è utile misurare, senza perdersi nel mare dei dati, e mettere in campo azioni migliorative monitorando costantemente i risultati raggiunti.

Non basta sviluppare siti web o gestire i canali social. Il vero significato del digital marketing sta nell’uso congiunto di tutti gli strumenti online disponibili, nell’approccio omnicanale, nelle nuove tecnologie e nell’analisi dei dati dei clienti. La trasformazione digitale è soprattutto organizzativa: ecco come il CMO può orientare l’azienda al cliente e ottenere risultati di successo

Ancora oggi per molti marketing manager e imprenditori il Digital Marketing, o Web marketing, significa banalmente gestire il sito web o la pagina Facebook dell’azienda. È una visione semplicistica e superata. Senza necessariamente dotarsi delle più sofisticate tecnologie disponibili sul mercato, ogni azienda può trarre molti vantaggi dal Digital Marketing, che è davvero imprescindibile per crescere, perché i percorsi d’acquisto (i customer journey) sono ormai per la gran parte su Internet, e questo accade in ogni mercato, consumer o business-to-business (B2B). Il marketing è diventato un tassello fondamentale per la digital transformation, ed è importante chiarire di cosa si tratta.

I 5 pilastri per fare Digital Marketing
Il digital marketing in definitiva consiste nel creare relazioni efficaci fra i consumatori e le aziende, non solo per raggiungerli e convincerli ma anche per ascoltare e imparare e da loro, rispondendo a commenti e richieste. Ciò avviene attraverso modalità diversi, riassumibili in 5 elementi chiave:

1 Digital device. Per interagire gli utenti utilizzano smartphone, tablet, pc, TV, per accedere a siti web e app

2 Digital platform. La maggior parte delle interazioni avviene tramite un browser o una app che si raggiungono a partire dalle più note piattaforme e servizi: Facebook e Instagram, Google e Youtube, Twitter e Linkedin.

3 Digital media. Si possono utilizzare diversi canali, dell’azienda o a pagamento, per raggiungere e ingaggiare i clienti, con advertising, e mail e messaggi, motori di ricerca e social network.

4 Digital Data. Raccogliere e analizzare i dati è fondamentale e complesso, anche per la necessità di rispettare le normative sulla data protection, e in particolare il GDPR entrato in vigore in Europa quest’anno. Per questa attività cruciale vengono in aiuto le tecnologie per le DMP (Data Management Platform), sempre più utilizzate.

5 Digital Technology. L’ultimo e fondamentale tassello è quello delle tecnologie marketing (martech) che agevolano la creazione delle esperienze interattive dei siti e delle app, e aiutano a segmentare le audience, creare campagne mirate e aumentare i tassi di conversione.

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Le 4 fasi del Digital Marketing
Sinteticamente si possono individuare quattro fasi fondamentali che corrispondono ad altrettanti obiettivi degli specialisti del digital marketing.

React: raggiungere i potenziali clienti, con una strategia di acquisizione mirata a creare awareness on line e off line e veicolare verso i canali web dell’azienda. Fra le tecniche utilizzate in questo ambito figurano il SEO (Search Engine Optimization), l’online advertising, le Public Relations, il social media marketing.
Act: intraprendere azioni verso i prospect mirati alla conversione
Convert: trasformare i prospect in clienti, ovvero raggiungere gli obiettivi di marketing in termini di lead e vendite, online e off line. Queste due fasi sono legate e richiedono l’analisi del customer journey, le attività di content marketing e lead nurturing, l’uso di tecnologie di marketing automation e le tecniche di ottimizzazione dei tassi di conversione delle landing page. Definire i KPI del Marketing, ovvero le metriche per la misurazione delle performance, è fondamentale. Per monitorare i siti e l’eCommerce (ovvero per la Web Analytics) si utilizzano numerosi tool, molti gratuiti.
Engage: creare una stretta relazione con i clienti, creare fedeltà (retention), creare una fan base e stimolare acquisti ripetitivi. In questa fase è importante avere messo a punto una soluzione di Customer Onboarding.

Mobile Marketing
Il mobile marketing comprende quelle attività di marketing multicanale destinate a raggiungere il pubblico direttamente su dispositivo mobile come smartphone e tablet. Si avvale di strumenti come Siti Web Responsive (ottimizzati per la navigazione da mobile), localizzazione GPS, SMS, social media e apps. È una pratica fondamentale per una strategia di marketing di successo: dal 2016, la percentuale di italiani collegata ad internet tramite dispositivi mobile sta costantemente aumentando a discapito dei collegati via desktop.
L’arena del digital marketing è un oceano pieno di pesci ed in principio può risultare difficile impostare e coordinare le attività in modo da spiccare rispetto ad altri competitors. Se hai trovato l’articolo interessante e stai pensando di scendere nel campo del digital marketing, abbiamo pensato a una guida gratuita che puoi scaricare gratuitamente a questa pagina. Non sai da dove iniziare? Non esitare a contattarci! Insieme svilupperemo una strategia digital adatta alle tue esigenze.

11 Set 2019

Il fenomeno degli Hikikomori

Il fenomeno degli Hikikomori

“Hikikomori” è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte” e viene utilizzato generalmente per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi anni), rinchiudendosi nella propria camera da letto, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno. È un fenomeno che riguarda principalmente giovani tra i 14 e i 30 anni e di sesso maschile, anche se il numero delle ragazze isolate potrebbe essere sottostimato dai sondaggi effettuati finora.

Al momento in Giappone ci sono oltre 500.000 casi accertati, ma secondo le associazioni che se ne occupano il numero potrebbe arrivare addirittura a un milione (l’1% dell’intera popolazione nipponica). Si tratta dunque di un fenomeno incredibilmente vasto, eppure in pochi ne hanno sentito parlare, soprattutto al di fuori del Giappone. Anche in Italia l’attenzione nei confronti del fenomeno sta aumentando. L’hikikomori, infatti, sembra non essere una sindrome culturale esclusivamente giapponese, come si riteneva all’inizio, ma un disagio sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo.

Le cause possono essere diverse:

  • caratteriali: gli hikikomori sono ragazzi spesso intelligenti, ma anche particolarmente introversi e sensibili. Questo temperamento contribuisce alla loro difficoltà nell’instaurare relazioni soddisfacenti e durature;
  • familiari: l’assenza emotiva del padre e l’eccessivo attaccamento con la madre sono indicate come possibili cause, soprattutto nell’esperienza giapponese;
  • scolastiche: il rifiuto della scuola è uno dei primi campanelli d’allarme dell’hikikomori. L’ambiente scolastico viene vissuto in modo particolarmente negativo. Molte volte dietro l’isolamento si può nascondere una storia di bullismo;
  • sociali: gli hikikomori hanno una visione molto negativa della società e soffrono particolarmente le pressioni di realizzazione sociale dalle quali cercano in tutti i modi di fuggire.

Hikikomori-Italia---Chi-sono-gli-hikikomori

Tutto questo porta a una crescente difficoltà e demotivazione del ragazzo nel confrontarsi con la vita sociale, fino a un vero e proprio rifiuto della stessa. Anche la dipendenza da internet viene spesso indicata come una delle principali responsabili dell’esplosione del fenomeno, ma non è così: essa rappresenta una conseguenza dell’isolamento, non una causa.

Molti hikikomori ritengono di non avere alcun problema e ripetono di voler essere lasciati in pace. Questo atteggiamento di rifiuto porta inevitabilmente a continui conflitti con i genitori che, invece, vorrebbero vedere il figlio condurre una vita diversa, una vita “come quella dei coetanei”. I genitori più determinati, dopo lunghe battaglie, riescono a convincere i figli a recarsi da uno psicologo, ma i percorsi psicoterapeutici possono rivelarsi inconcludenti quando non vi è una reale motivazione intrinseca da parte degli hikikomori a cambiare il proprio stato. Spesso, chi accetta di essere seguito da un professionista lo fa solamente per “fare contenti gli altri” e per far cessare le pressioni dei famigliari.

Il punto principale è che gli hikikomori spesso sottostimano gravemente l’impatto che la propria scelta avrà sul loro benessere futuro. Lo sottostimano o, semplicemente, evitano di pensarci, non gli importa. Fuori sto male, dentro sto meglio. Da un certo punto di vista è un ragionamento logico, lineare, sensato. Il trionfo del “qui e ora”. Ma il diritto che ognuno ha di vivere la propria vita come meglio crede cessa nel momento in cui la propria scelta grava sulle spalle di altri.

11 Set 2019

Il mobbing

Il mobbing

Con il termine “mobbing” si fa riferimento, in generale, all’insieme dei comportamenti persecutori che tendono a emarginare un soggetto dal gruppo sociale di appartenenza, tramite violenza psichica protratta nel tempo e in grado di causare seri danni alla vittima.

Non esiste un criterio specifico per individuare le azioni che possono far configurare un caso di mobbing. In linea di massima, assume rilievo ogni forma di angheria perpetrata da una o più persone nei confronti dell’individuo più debole: ostracismo, umiliazioni pubbliche e diffusione di notizie non veritierie.
Sono esempi di mobbing lo svuotamento delle mansioni tale da rendere umiliante il prosieguo del lavoro, i continui rimproveri e richiami espressi in privato ed in pubblico anche per banalità, l’esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo, oppure l’esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata o, l’interrompere o impedire il flusso di informazioni necessari per l’attività (chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull’accesso a internet).
Per poter parlare di mobbing sul lavoro, l’attività persecutoria deve durare più di 6 mesi e deve essere funzionale alla espulsione del lavoratore, nonché causa di una serie di ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie (disturbo da disadattamento lavorativo, disturbo post-traumatico ad andamento cronico.

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Tipologie di mobbing

Esistono diversi tipi di mobbing, ecco qui di seguito alcuni esempi e tipologie:

Mobbing dal basso o down-up: Il mobber è in una posizione inferiore rispetto a quella della vittima. Accade quando l’autorità di un capo viene messa in discussione da uno o più sottoposti, in una sorta di ammutinamento professionale generalizzato. I casi di mobbing dal basso sono comunque abbastanza rari, in Italia la percentuale è minore del 10%.
Mobbing gerarchico: Il mobber è in una posizione superiore rispetto alla vittima: un dirigente, un capo reparto, un capufficio. Questo tipo di mobbing comprende tutti quegli atteggiamenti riconducibili alla tematica dell’abuso di potere, cioè dell’uso eccessivo, arbitrario o illecito del potere che un ruolo professionale implica.
Bossing o mobbing strategico: l’attività è condotta da un superiore al fine di costringere alle dimissioni un dipendente in particolare, ad es. perché antipatico, poco competente o poco produttivo; in questo caso, le attività di mobbing possono estendersi anche ai colleghi, che preferiscono assecondare il superiore, o quantomeno non prendere le difese della vittima, per non inimicarsi il capo. E’ prassi frequente nelle imprese che hanno subito ristrutturazioni, fusioni, cambiamenti che abbiano comportato un esubero di personale difficile da licenziare.
Mobbing orizzontale: è quello praticato da parte dei colleghi verso un lavoratore non integrato nell’organizzazione lavorativa per motivi d’incompatibilità ambientale o caratteriale, ad es. per motivi etnici, religiosi, sessuali etc.

 

Patolgie della vittima
Questo odioso fenomeno del mobbing, può rappresentare per la vittima un grave problema, non solo lavorativo ma anche sociale e familiare e, soprattutto può avere gravi ripercussioni sulla salute: la patologia psichiatrica più frequentemente associata al mobbing è il disturbo dell’adattamento; esso si compone di una variegata sintomatologia ansioso-depressiva come reazione all’evento stressogeno.

Fra le conseguenze rientrano la perdita d’autostima, depressione, insonnia, isolamento. Inoltre il mobbing è causa di cefalea, annebbiamenti della vista, tremore, tachicardia, sudorazione fredda, gastrite, dermatosi. Le conseguenze maggiori sono i disturbi della socialità: nevrosi, depressione, isolamento sociale e, suicidio in un numero non trascurabile di casi.
In Italia il numero di vittime del mobbing è stimato intorno a 1 milione e 200 mila, con prevalenza tra i quadri e i dirigenti, più che altro nel settore pubblico e in quello dei servizi. Negli ultimi dieci anni i casi di mobbing denunciati hanno avuto un incremento esponenziale. Non dimentichiamo poi che proprio per i suoi effetti, il mobbing ha un forte costo sociale, stimato in circa il 190% superiore al salario annuo lordo di un dipendente non mobbizzato

Mobbing sul lavoro come difendersi
Trasportando questi principi (che poi sono i principi cardine del diritto penale) in tema di mobbing, dobbiamo chiederci: la compromissione dell’integrità psicofisica del lavoratore è riconducibile ad una condotta colposa del datore di lavoro, ovvero ad una condotta dolosa, intenzionalmente e consapevolmente orientata a produrre quel danno in capo al prestatore di lavoro?

Pertanto il mobbing potrà sfociare in reati quali ingiuria (offesa all’onore e al decoro) o di diffamazione (offesa della reputazione pubblica) previsti dal codice penale e sanzionati come delitti contro l’onore. Ma anche in reati di lesione a seconda degli effetti che tali azioni hanno sull’individuo che le subisce: gli abusi lavorativi vengono di fatto equiparati a lesioni personali colpose. Possono giungere addirittura ad integrare ipotesi di omicidio colposo (art.589 c.p.) quando il datore di lavoro determini o rafforzi per colpa nel lavoratore mobbizzato, con la sua condotta reiteratamente vessatoria e/o ingiustificatamente discriminatoria e di emarginazione, una propensione suicidiaria, o reati di molestia e così via.


 

04 Set 2019

La nuova forma dell’isolamento sociale: Il fenomeno del phubbing

La nuova forma dell’isolamento sociale: Il fenomeno del phubbing

Cos’è il phubbing?

Il phubbing, ovvero ignorare gli altri durante interazioni sociali per dedicarsi invece al proprio smartphone, anche se considerato un comportamento normativo, ha un impatto sulla qualità della comunicazione e porta a sentimenti di isolamento ed esclusione. Il termine unisce le parole “phone” e “snubbing”. Gli attori di questo fenomeno sono due:

  • Il phubber è colui che snobba gli altri;
  • Il phubbee è colui che ne subisce le conseguenze vedendosi ignorato.

Per alcuni può essere così irritante che dal 2013 è online la campagna Stop Phubbing nata per prendere in giro i ‘maniaci del telefonino’ e non solo, infatti sul sito è possibile rispondere ad alcune domande e prendere parte a dei sondaggi oltre a poter scaricare brochure e volantini ironici sul tema. Ignorare gli altri ci porta nel migliore dei casi ad essere distratti ma anche a volte all’isolamento vero e proprio.

La ricerca:

Chotpitayasunondh e Douglas (2018) hanno investigato il tema per comprendere meglio gli effetti del phubbing sugli esiti dell’interazione sociale. La loro ricerca conferma che l’esperienza di phubbing ha un impatto negativo e abbassa il tono dell’umore riducendo la qualità della comunicazione e del rapporto perché va a intaccare gli stessi bisogni che vengono minacciati quando le persone si sentono socialmente escluse: bisogno di appartenenza, di autostima, di attribuzione di significato e controllo, portando a un vissuto di ostracismo e isolamento. Siamo tutti sempre, perennemente agganciati al nostro smartphone. Fa parte della nostra vita quotidiana, un accessorio ed uno strumento di cui non possiamo più fare a meno. Se ci guardiamo intorno ad una festa o una serata tra amici non faremo fatica a scorgere ben più di una persona china sul telefono e probabilmente non ci sembrerà per nulla strano.

Secondo gli stessi autori sono proprio falso consenso, reciprocità e frequenza che rendono il phubbing un comportamento percepito come normativo e non dannoso. Infatti, può accadere che gli individui sovrastimino la diffusione di idee o comportamenti percependo quindi un consenso molto più ampio del reale; a questo si aggiunge che chi subisce il phubbing a sua volta lo attua passando spesso e fluidamente dall’essere protagonista all’essere destinatario di questo comportamento in un circuito che si autoalimenta: il phubber diventa phubbee e viceversa, incrementando la frequenza e la reciprocità del comportamento e ampliando l’effetto del falso consenso, in un circolo vizioso. Che sia normativo o no, l’esperienza di sentirsi invisibili ed esclusi dall’interazione sociale porta a vissuti di depressione, ansia, rabbia, solitudine determinando di fatto esclusione e impoverimento delle risorse dell’individuo; il phubbing è una nuova modalità di isolamento sociale e come tale non ne vanno trascurate le possibili conseguenze negative.

Il costante bisogno di essere aggiornati e comunicare al mondo quello che ci accade può essere un modo interessante di condividere, ma non bisogna dimenticarsi che alla base di ogni interazione c’è la comunicazione, quella verbale, semplice, capace di rendere una pausa caffè un po’ meno tecnologica e più “umana”.

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03 Set 2019

La comunicazione non verbale: cos’è e come funziona

La comunicazione non verbale: cos’è e come funziona

La comunicazione non verbale (CNV) è un aspetto del comportamento umano che da sempre ha attirato l’attenzione e l’interesse di molti sia in campo scientifico sia e soprattutto in campo sociale, nonché artistico, letterario, mediatico, commerciale, ecc. Il fatto che si possa comunicare anche senza parlare affascina la nostra fantasia e curiosità. Eppure, sembra che dimentichiamo che buona parte degli esseri viventi, soprattutto i vertebrati, utilizza solo questo tipo di comunicazione. Inoltre, a livello evolutivo, gli esseri umani stessi hanno utilizzato solo segnali non verbali per comunicare tra loro prima della nascita e invenzione del linguaggio verbale. Non solo, a livello di sviluppo, ciascuno di noi ha utilizzato per comunicare solo segnali corporei, prima dell’apprendimento della lingua madre e poi di altre lingue. L’attributo “non verbale” indica “tutto ciò che non è parola”, cioè tutto ciò che non è linguaggio verbale, che è considerato il mezzo più raffinato ed evoluto per relazionarsi. La “comunicazione” è un interscambio dinamico, un invio e ricezione di informazioni, pensieri, atteggiamenti, una condivisione e costruzione di significati. La “comunicazione non verbale” si potrebbe definire quindi come una trasmissione di contenuti, costruzione e condivisione di significati che avviene a prescindere dall’uso delle parole. La componente non verbale della comunicazione, infatti, comprende tutti gli aspetti di messaggi diversi dalle parole. Infatti Greene (1980) preferisce usare la distinzione fra “comunicazione che fa uso di parole” e “comunicazione che non ne fa uso”, anziché verbale e non verbale.

QUALI SONO I SEGNI PIÙ INDICATIVI DELLA COMUNICAZIONE NON VERBALE?
▪ Gambe e braccia incrociate sono tipicamente un segno di chiusura e suggeriscono che l’interlocutore – in preda a un blocco sia fisico che mentale – non è aperto ai messaggi che gli si stanno comunicando.
▪ I sorrisi dimostrano che si può mentire anche sorridendo. Infatti il sorriso vero – quello di Ducheen (lo studioso che per prima lo ha osservato) – è accompagnato, oltre che dall’estendersi verso l’alto degli estremi della bocca, da movimenti degli occhi che, descrivendo dei piccoli angoli intorno ad essi, formano delle rughe, le cosiddette “zampe di gallina”; se il sorriso non è accompagnato da queste rughe non può che essere finto (sorriso falso).
▪ La postura è rivelatrice del ruolo che si assume nell’interazione. Difatti, una postura eretta ed enfatizzata da gesti ampi rivela uno stato rigido e impostato, tipico di chi deve mantenere un certo “grado” di potere e distanza dagli altri; al contrario una postura rilassata, o eccessivamente morbida, può segnalare disinteresse verso il contesto.
▪ La vicinanza o la lontananza dall’interlocutore – quella che viene definita come prossemica – ne rivela il grado di conoscenza e familiarità: una minore distanza denota intimità e conoscenza dell’altro, una distanza maggiore simboleggia la formalità di un rapporto.
▪ I gesti rivolti all’altro e tipici di accompagnamento della comunicazione verbale (come l’indicare con lo sguardo) dirigono l’attenzione dell’interlocutore su ciò che si sta dicendo e denotano quindi sicurezza, mentre quelli rivolti a sé (ad esempio giocherellare con dita, anelli o collane) rivelano imbarazzo.

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Diversi elementi del viso sono coinvolti nella comunicazione non verbale e ogni espressione facciale (microespressione) ha un diverso significato: le sopracciglia che se si alzano ripetutamente manifestano un disagio che rivela paura, preoccupazione, sorpresa; la mascella serrata indica una forte concentrazione su se stessi e, conseguentemente, un forte stress; la fronte corrugata denota stress o, altrimenti, una mal predisposizione verso l’altro.
Non sbaglia infine chi, seguendo il detto, ritiene che “gli occhi sono lo specchio dell’anima”. Se con i gesti, le parole e il sorriso si può mentire, con gli occhi è impossibile. Diversi segni influiscono infatti nella comunicazione attraverso lo sguardo, come l’apertura oculare (maggiore è l’apertura oculare maggiore è l’attenzione e, viceversa, minore è l’apertura minore è l’interesse), la grandezza della pupilla (se si restringe denota perdita di interesse) e la direzione dello sguardo. Su quest’ultimo aspetto occorre fare delle precisazioni:
– lo sguardo rivolto in alto a destra (ovvero in alto a sinistra dell’interlocutore) significa che si sta mentendo;
– lo sguardo rivolto in alto a sinistra (ovvero in alto e a destra dell’interlocutore) rivela che si è intenti a ricercare ricordi veritieri;
– lo sguardo rivolto in basso a destra comunica l’elaborazione di nuove sensazioni mediate dagli altri sensi;
– lo sguardo rivolto in basso a sinistra denota un atto di riflessione con se stessi.
Da ciò risulta evidente che un’adeguata conoscenza della comunicazione non verbale possa rappresentare un ottimo incentivo, nonché vantaggio nelle interazioni quotidiane. Conoscere e riconoscere i segnali della comunicazione non verbale può migliorare la propria attività comunicativa e renderla più efficiente ed efficace, ma, soprattutto, può contribuire alla comprensione della veridicità dei messaggi altrui.

 

31 Lug 2019

Cambiamento climatico e salute mentale

Cambiamento climatico e salute mentale

Il tema del cambiamento climatico è uno dei più dibattuti degli ultimi anni. Secondo le stime degli esperti, gli effetti del riscaldamento globale sono già in atto e il processo di deterioramento sta accelerando.
Ad oggi, le emissioni di gas serra stanno aumentando più rapidamente del previsto e le conseguenze sono visibili, più di quanto si potesse stimare anni fa.

Sembra proprio che la minaccia dei cambiamenti climatici stia avendo un impatto molto forte dal punto di vista psicologico sulla popolazione (oltre che ambientale, naturalmente). Secondo un recente studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Arizona, il cambiamento del clima sta provocando alti livelli di stress e persino la depressione su alcuni soggetti, secondo la loro percezione della minaccia del cambiamento climatico globale.

Mentre il riscaldamento globale continua a sciogliere i ghiacciai ed eventi metereologici di grave entità continuano a colpire parti del globo, i ricercatori hanno deciso di saperne di più su come la percezione delle persone sulla minaccia del cambiamento climatico influisca sulla salute mentale. Nello studio pubblicato sul Global Environmental Change, i ricercatori hanno delineato tre tipologie di preoccupazioni ambientali che possono avere effetti psicologici:

  • La preoccupazione egoistica, legata agli effetti che il surriscaldamento globale può esercitare direttamente sull’individuo;
  • La preoccupazione altruistica, ossia l’ansia estesa all’umanità in generale e all’eredità da lasciare alle nuove generazioni;
  • La preoccupazione biosferica, che si riferisce alla preoccupazione per la natura, le piante e gli animali.

In un sondaggio online di 342 genitori di bambini piccoli, coloro che hanno segnalato alti livelli di preoccupazione per la biosfera hanno riferito di sentirsi maggiormente stressati dai cambiamenti climatici globali, mentre quelli le cui preoccupazioni erano più egoistiche o altruistiche non hanno segnalato uno stress significativo legato al fenomeno. Inoltre, quelli con alti livelli di preoccupazione biosferica avevano più probabilità di riportare segni di depressione, mentre nessun altro collegamento con la depressione è stato trovato per gli altri due gruppi.

“Le persone che si preoccupano per gli animali e la natura tendono ad avere una prospettiva planetaria e pensano a problemi più grandi”, ha dichiarato la Professoressa Sabrina Helm dell’Università dell’Arizona. “Per loro – ha continuato la Helm – il fenomeno globale dei cambiamenti climatici influisce molto chiaramente su questi aspetti ambientali più ampi, quindi hanno la preoccupazione più pronunciata, perché la vedono già dappertutto”.

Dunque, sembrerebbe proprio che il cambiamento ambientale abbia anche forti ripercussioni sulla nostra psiche che, un domani, potrebbe avere implicazioni notevoli per la salute pubblica. D’altro canto, essendo il cambiamento climatico un fenomeno visibile e tangibile già ora, le ansie che ne derivano sono legittime. Pensiamo, ad esempio, ai danni che il surriscaldamento globale ha provocato all’agricoltura e, di conseguenza, agli agricoltori. I problemi ambientali non sono fini a se stessi, ma hanno delle implicazioni sociali molto forti, in grado di mutare radicalmente la nostra economia. Insomma, interventi a favore dell’ambiente e politiche forti in tal senso sono una necessità e un dovere, per tutelare gli ecosistemi e proteggere la salute delle generazioni future.

31 Lug 2019

L’arte del Public Speaking

L’arte del Public Speaking

Per la maggior parte degli oratori e dei formatori, il Public Speaking è quella disciplina che fornisce tutta una serie di strumenti e strategie di comunicazione che permetteno a uno speaker di esporre dei concetti di fronte a un uditorio nella maniera più chiara possibile.

Questo punto di vista, tuttavia, prevede che tutte le energie dell’oratore siano concentrate su di sé, sulla gestione delle sue paure, sui suoi contenuti, sulle sue modalità espositive.

Il Public Speaking fondamentale è un’abilità che permette di affinare il pensiero critico e sviluppare delle competenze comunicative verbali e non verbali che rappresenteranno un enorme vantaggio nel momento in cui vi troverete a comunicare in pubblico. Con il termine comunicazione si intende il processo e le modalità di trasmissione di un’informazione da una persona a un’altra e questa rappresenta l’obiettivo di chi vuole apprendere l’arte del Public Speaking.

Chi parla in pubblico, parla. Chi parla al pubblico, ascolta. Può sembrare paradossale e controintuitivo, ma la capacità principale che deve avere chi ha a che fare col public speaking è proprio ascoltare.


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Public Speaking: perché farlo?

Se state ricordando un momento in cui vi siete trovati a presentare un discorso in pubblico è probabile che uno dei ricordi più vividi sia quello delle vostre mani sudate e delle gambe tremolanti. Eliminare questi stati d’ansia potrebbe essere il principale risultato che vorreste ottenere da una formazione in Public Speaking ma permettetemi di dirvi che in realtà ci sono tanti motivi per cui tutti dovrebbero imparare a parlare in pubblico.
Vediamone alcuni:

– Ogni volta che parlate in pubblico, aumenta la fiducia voi stessi
– Quando vi sentite comodi a parlare in pubblico, imparate a godere della compagnia delle persone
– Potete raggiungere un pubblico di grandi dimensioni in un tempo più breve rispetto alle conversazioni individuali
– È un ottimo modo per mostrare quanto siete preparati su un argomento
– Potete costruire una base di fan interessati alle vostre presentazioni

Se queste ragioni non sono sufficienti per convincervi a salire sul podio e dare tutto, forse dovreste sapere che l’abilità di saper parlare in pubblico è molto apprezzata dei datori di lavoro. Infatti, una persona che se come catturare l’attenzione di un pubblico ottiene migliori risultati sul posto di lavoro, a scuola o addirittura nella propria vita personale.
Saper parlare in pubblico ti permette di influenzare il mondo che ti circonda.

Saper comunicare in pubblico in maniera straordinariamente efficace significa avere il pieno controllo di sé, dell’ambiente e dell’argomento, significa raggiungere un equilibrio e una flessibilità che non hai mai sperimentato prima… e a volte significa anche sciogliere qualche nodo personale.

Comunicare in pubblico con successo richiede sempre un corretto livello di energia, pronto per essere modificato a volontà; significa divertirsi, significa imparare come le persone pensano, ascoltano, giudicano, assegnano significato alle cose e come le memorizzano.

Significa, letteralmente, rendersi indimenticabili.

Che tu sia davanti a dieci, cento, mille o diecimila, la tua prestazione dovrà, e potrà, essere sempre al massimo livello possibile.

24 Lug 2019

Le conseguenze del cyberbullismo

Le conseguenze del cyberbullismo

Internet e le nuove tecnologie hanno spalancato notevoli possibilità a tutti. Allo stesso tempo i nuovi media, e il loro uso improprio, hanno i loro rovesci di medaglia. Fenomeno tristemente recente, ma in rapido sviluppo, è indubbiamente quello del cyberbullismo.

Come si presenta il cyberbullismo?

Il termine fu coniato nel 2002 dall’educatore Bill Belsey e rimanda molto al concetto di bullismo tradizionale. Indica un atto aggressivo e intenzionale, condotto da un individuo o da un gruppo di individui, usando varie forme di contatto elettronico, ripetuto nel corso del tempo, contro una vittima che ha difficoltà a difendersi. Gli elementi che lo accomunano al bullismo tradizionale sono dunque l’abuso di potere, la ripetizione, l’intenzionalità e l’aggressività. Rispetto però al bullismo tradizionale, l’uso dei mezzi elettronici conferisce al cyberbullismo alcune caratteristiche proprie, come:

  • Anonimato: anche se illusorio in quanto ogni comunicazione elettronica lascia delle tracce. Per la vittima però è difficile risalire da sola all’aggressore;
  • Indebolimento del senso della morale: in quanto la gente fa e dice cose in rete che non farebbe e non direbbe nella vita reale;
  • Assenza di limiti spazio-temporali: in quanto il bullismo tradizionale avviene di solito in luoghi e momenti specifici, mentre il cyberbullismo investe la vittima ogni volta che si collega al mezzo elettronico.

Quali sono i modi di agire del bullo online?

In generale, sono tutte le azioni che portano all’emarginazione di un soggetto da parte della sua comunità. A rivestire il ruolo di cyberbullo sono maggiormente i giovani che partecipano ad un elevato numero di attività online e che ricevono uno scarso controllo genitoriale. In letteratura esiste una classificazione delle azioni tipiche del cyberbullo. Queste sono:

  • Flaming: messaggi online violenti e volgari mirati a scatenare schermaglie verbali in un forum;
  • Cyber-stalking: molestie e denigrazioni ripetute, persecutorie e minacciose mirate ad incutere timore;
  • Denigrazione: pettegolezzi inventati per danneggiare la reputazione della vittima;
  • Sostituzione di persona: farsi passare per un’altra persona per poi spedire messaggi e pubblicare testi al suo posto;
  • Rivelazioni: pubblicare informazioni private e imbarazzanti su un’altra persona;
  • Inganno: ottenere la fiducia di qualcuno con l’inganno per poi pubblicare o condividere con altri le informazioni confidate attraverso i mezzi elettronici;
  • Esclusione: escludere deliberatamente una persona da un gruppo online per ferirla;
  • Molestie: spedizione ripetuta di messaggi insultanti con l’unico fine di ferire il destinatario.

Il cyberbullismo, inoltre, sembra produrre conseguenze ancora più gravi sulle vittime rispetto a quello tradizionale. Un contenuto offensivo condiviso dal bullo può essere divulgato a cascata da altri spettatori che contribuiscono ad accrescere l’effetto dell’aggressione.

La cronaca negli ultimi anni ci ha presentato diversi casi di suicidio o tentato suicidio della cybervittima. Sono noti alcuni casi di ragazze che hanno tentato il suicidio o si sono uccise per il grande senso di impotenza e vergogna provato dopo aver scoperto che una loro foto, o un loro filmato di un rapporto sessuale, era finito sui cellulari dei compagni di scuola o su qualche sito internet.

Questo fenomeno, in continua evoluzione, è divenuto dunque un vero e proprio problema sociale, ed occuparsi di esso è un dovere. Il cyberbullismo non riguarda solo i diretti interessati, ma chiunque voglia promuovere il rispetto degli altri e l’educazione alla legalità. Per questo motivo dobbiamo mantenere alta l’attenzione, soprattutto nei confronti del bullo, poiché un atteggiamento di disinteresse potrebbe sicuramente rinforzare i suoi comportamenti.