11 Gen 2023

IL LAVORO DA CASA E CON PIÙ PAUSE POSSIBILI MIGLIORA LA PRODUTTIVITÀ

IL LAVORO DA  CASA E CON PIÙ PAUSE POSSIBILI MIGLIORA LA PRODUTTIVITÀ

Un gruppo di ricerca della Texas A&M University School of Public Health ha condotto uno studio che ha rilevato che è possibile migliorare la produttività dei dipendenti e il benessere dell’azienda grazie al lavoro a distanza, soprattutto dopo eventi traumatici che rendono impossibile il rientro nel posto di lavoro. Ciò è stato dimostrato prendendo in considerazione i disastri naturali e altri eventi che portano allo spostamento del luogo di lavoro. In particolare, lo studio ha valutato i dati tecnologici dei dipendenti prima, durante e dopo l’uragano Harvey.

Lo studio

Tra il 17 agosto e il 2 settembre 2017, la grande area di Houston è stata colpita da un devastante uragano di categoria 4, l’uragano Harvey. In un periodo di cinque giorni, le precipitazioni hanno raggiunto i 33 trilioni di galloni, colpendo più di 13 milioni di persone in Texas e Louisiana e costando danni stimati intorno ai 160 miliardi di dollari. A cause delle inondazioni estreme, molte aziende sono state costrette a chiudere le loro sedi e i loro uffici. Alcune aziende hanno incoraggiato il lavoro a distanza per evitare la completa perdita di produttività e funzionalità.

I risultati

Lo scopo di questo studio era valutare l’impatto dell’uragano Harvey sulla produttività sul posto di lavoro tra i dipendenti sfollati. Ciò che i ricercatori hanno scoperto è che l’uso totale del computer è diminuito durante l’uragano, ma è tornato rapidamente ai livelli pre-uragano sette mesi dopo l’evento. Al momento dell’uragano, non è stato osservato alcun cambiamento nel numero totale di ore di lavoro, ma un calo significativo nel numero di ore in cui i dipendenti hanno lavorato attivamente al computer. Per tutto il resto del periodo in cui i dipendenti sono stati completamente dislocati dal posto di lavoro fisico, è stato osservato un aumento sia della quantità totale di tempo di lavoro, sia del numero di ore di lavoro attive al computer. Il numero totale di ore di lavoro ha iniziato a diminuire una volta iniziato il ritorno graduale al posto di lavoro fisico e durante il periodo di rientro graduale, le ore di lavoro totali e le ore attive al computer totali sono diminuite. Durante il periodo in cui i dipendenti sono stati completamente restituiti al loro posto di lavoro fisico, non è stato registrato alcun cambiamento nelle ore totali di lavoro o nel numero di ore attive di lavoro. Si è notato quindi come quasi tutti i dipendenti dello studio sono tornati allo stesso livello di produzione che avevano prima dell’uragano Harvey, pur lavorando da casa. È stato scoperto inoltre che era importante per i dipendenti fare pause regolari, fatto che riduce la possibilità di incorrere in infortuni sul lavoro. Le persone che hanno fatto le pause consigliate sono state complessivamente più produttive rispetto alle altre.

21 Dic 2022

Le ancore di carriera

Le ancore di carriera

In questa società “liquida” caratterizzata da continui cambiamenti è possibile avere dei punti di riferimento per la propria carriera lavorativa?

Per carriera senza confini si intende l’insieme dei movimenti oggettivi che la persona fa tra posti di lavoro diversi. Invece, per carriera mutevole si intende l’esigenza di considerare il lato soggettivo della carriera, delineando il concetto di sé professionale.

Qual è la bussola per potersi orientare nel mondo del lavoro?

Edgar Schein si è interrogato su come le persone possano assumere un ruolo attivo nella gestione della propria esperienza lavorativa ed ha sviluppato il concetto di ancora di carriera per identificare le proprie priorità lavorative. Con il progredire dell’esperienza di lavoro, le persone acquistano un quadro sempre più realistico dei propri talenti, bisogni e valori, e tale conoscenza inizia ad agire come vincolo nelle successive prese di decisione.

Secondo Schein, sono necessari da 5 a 10 anni affinché una persona possa acquisire una conoscenza approfondita di sé, individuando le proprie esigenze e priorità.

Quali sono la ancore di carriera?

Diversi studi hanno condotto alla definizione di dieci ancore di carriera:

1. L’ancora tecnico-funzionale: implica l’importanza di sviluppare conoscenze sempre più approfondite nel proprio ambito.
2. L’ancora manageriale: è connessa alla scalata gerarchica e alla gestione di decisioni importanti.
3. L’ancora della creatività: implica lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi.
4. L’ancora di autonomia: ha come priorità l’autonomia nella gestione dei ritmi.
5. L’ancora di sicurezza: ha come priorità il sentirsi sicuri e stabili.
6. L‘ancora di occupabilità: pone in rilievo l’importanza di avere un lavoro.
7. L’ancora di internalizzazione: si concentra sull’importanza dello scambio culturale.
8. L’ancora dello stile di vita: pone l’attenzione sull’integrazione tra carriera lavorativa e bisogni personali.
9. L’ancora di servizio: attribuisce rilievo alla possibilità di migliorare la società.
10. L’ancora di pura sfida: si focalizza sulla competizione.

Conclusione:

In un clima di flessibilità lavorativa, precariato e incertezze, conoscere la propria ancora di carriera vuol dire avere un potente strumento di orientamento. Inoltre, conoscere la propria ancora significa orientare la propria carriera verso obiettivi precisi e coerenti con il proprio sé professionale.

14 Dic 2022

QUIET QUITTING IN AZIENDA: COME ARGINARE IL FENOMENO?

QUIET QUITTING IN AZIENDA: COME ARGINARE IL FENOMENO?

Cos’è il quiet quitting?

Il fenomeno del quiet quitting ha preso piede nel periodo post-pandemico, con l’affermarsi di forme di lavoro ibride e un conseguente senso di disorientamento dovuto alla difficoltà di ristabilire un equilibrio tra il lavoro e la vita privata.

Con quiet quitting ci riferiamo ad un “abbandono silenzioso” del posto di lavoro: ci si impegna lo stretto indispensabile per non essere licenziati. Ciò vuol dire che nel lavoratore vi è ormai un’alta percentuale di demotivazione, dovuta ad uno scarso interesse da parte dell’azienda nei confronti dello stesso in quanto persona, risorsa umana.

Quiet quitter e burnout

Non sempre il quiet quitter è una persona demotivata. Può capitare, infatti, che si tratti di un dipendente che ha speso tutte le sue energie fino ad arrivare al burnout, che sia stressato, oberato e/o che abbia ricevuto poca o nessuna gratificazione. A dimostrazione di quanto appena detto, possiamo affermare che i risultati di alcuni sondaggi riportano che 8 quiet quitter su 10 sono colpiti da burnout.

Il coaching come rimedio

Percepire supporto e incoraggiamento nello svolgimento delle proprie mansioni aumenta il grado di soddisfazione e di benessere dei lavoratori.
Il coaching aiuta i dipendenti demotivati a stabilire obiettivi realistici e stimolanti; in questo modo, si sentiranno maggiormente appagati e coinvolti e percepiranno una self-efficacy più alta. Coltivare il benessere dei lavoratori è essenziale per ridurre l’impulso a ritirarsi silenziosamente dalla partecipazione attiva.

La strategia del coaching aiuta anche ad incrementare il livello di fedeltà all’interno dei gruppi di lavoro: percependo l’impegno dell’azienda nei propri confronti, anche il lavoratore si impegnerà a dare il massimo.

Conclusioni

Come visto, il coaching è un valido metodo per arginare il fenomeno del quiet quitting, pertanto l’ideale per le aziende sarebbe promuovere e diffondere il più possibile questa strategia. Per scongiurare gli effetti più deleteri dell’abbandono silenzioso, dunque, sarebbe bene investire nel coinvolgimento della forza lavoro e puntare non solo alla produttività, ma anche e soprattutto al benessere organizzativo.

07 Dic 2022

Genere, politica e benessere psicologico

Genere, politica e benessere psicologico

Le donne, nella dimensione politica, sono imprigionate all’interno di una comunicazione double bind. Infatti, quando si comportano e si vestono secondo i modelli femminili, potrebbero essere viste come poco competenti nella sfera politica, venendo percepite come giocatrici soft. Invece, quando rifiutano il tipico look femminile, la loro performance è definita più competente e vengono percepite come giocatrici hard, ma è come se rifiutassero il cambiamento di genere. 

Inoltre, diverse ricerche hanno dimostrato come le persone creano delle inferenze a partire dalle caratteristiche di tipo fisico per, poi, arrivare a fare delle attribuzioni sui tratti di personalità, abilità e stati emozionali. Questo vale soprattutto per le donne che vengono giudicate in base all’estetica. A tal proposito, è possibile riflettere sul ruolo che ha avuto, all’interno della politica tedesca, la cancelliera Angela Merkel e sui commenti a riguardo. Durante la sua ascesa al potere, i commentatori non hanno esitato nel definirla “uomo d’onore”.

Che cosa determina l’associazione del potere al concetto di “uomo forte”?

La politica è di solito associata al concetto di “uomo duro e dominante”. Tuttavia, lo stereotipo dell’uomo forte e dominante implica delle conseguenze negative anche per l’uomo che non può esprimere determinate emozioni per non rompere l’idea “dell’uomo duro”. Agli uomini è chiesto di non apparire vulnerabili e, a tal proposito, alcuni studi hanno dimostrato che dietro la loro rabbia, in realtà, si nascondono altre emozioni come la tristezza e la paura.

Conclusione

I sistemi di credenze che supportano il legame tra uomo duro e potere creano un ambiente malsano per tutti. Ogni persona deve poter mostrare le proprie emozioni, determinazione, vulnerabilità e coraggio senza dover andare incontro a dei giudizi connessi agli stereotipi di genere.

È evidente come sia necessario sviluppare la propria identità scegliendo come comportarsi senza dover essere ingabbiati in una categoria o ruolo sociale, partendo da ciò che è buono per sé. La femminilità e la mascolinità sono degli artefatti culturali che si costruiscono sulla base di norme sociali e contestuali; pertanto, possono essere modificati con una giusta formazione, soprattutto nello scenario politico.

30 Nov 2022

ACCETTARE SÈ STESSI E LE PROPRIE AMBIVALENZE: LO DICE ANCHE “RINGO STARR” DEI PINGUINI TATTICI NUCLEARI

ACCETTARE SÈ STESSI E LE PROPRIE AMBIVALENZE: LO DICE ANCHE “RINGO STARR” DEI PINGUINI TATTICI NUCLEARI

Il 6 febbraio 2020 esce in Italia il singolo “Ringo Starr” del gruppo Pinguini Tattici Nucleari e si classifica al terzo posto al Festival di Sanremo.                                                                                                                 

La canzone prende il nome da Richard Starkley, in arte Ringo Starr, il batterista dei Beatles.                        

Leoni e iene                   

A volte penso che a quelli come me il mondo non abbia mai voluto bene” inizia l’autore, sostenendo che il mondo non lo ami perché “il cerchio della vita impone che per un re leone vivano almeno tre iene”. Ciò significa che dentro di noi coesistono re leoni e iene, ovvero parti che ci piacciono e altre che non ci piacciono. In molti sono convinti che ciò che è cattivo (le iene) debba essere nascosto, messo in secondo piano.                                                                                                                                                             

In un mondo di John e di Paul, io sono Ringo Starr” recita la canzone, facendo riferimento a John Lennon e a Paul McCartney, sicuramente più in vista rispetto al collega.                                                                   

Nella canzone, i Pinguini Tattici Nucleari parlano del “mondo”, riferendosi più al mondo interiore che a quello esteriore, in particolare alle proprie convinzioni. Gli artisti vogliono sottolineare quanto sia più facile prendersi tutta la parte del leone o delle iene, ignorando la loro compresenza.

L’identificazione proiettiva nella canzone                                                                         

Nella strofa che precede il ritornello, il frontman dice di aver solo voglia di ballare e di non pensare più perché la sua vita non è niente di speciale “e forse alla fine c’hai ragione tu”. Siamo di fronte ad un esempio di identificazione proiettiva, quel meccanismo di difesa che rende dentro di noi l’altro portatore del nostro pensiero, indipendentemente da ciò che egli crede. Chi non è in grado di accettare tanto le parti da leone tanto quelle da iena e non riesce ad amarsi, rende “il mondo” portatore di questa avversione.

Conclusioni 

I Pinguini Tattici Nucleari ci fanno riflettere sul fatto che molto spesso siamo noi stessi che contribuiamo nel “metterci al margine”, quando invece dovremmo solo abbracciare ogni parte di noi e accettarci per come siamo. È importante che ognuno di noi conservi con cura le proprie ambivalenze ed impari ad essere meno rigido e più clemente con sé stesso.

23 Nov 2022

L’influenza delle tecnologie digitali sulle relazioni sociali

L’influenza delle tecnologie digitali sulle relazioni sociali

Diversi studi hanno dimostrato che gli esseri umani hanno un bisogno pervasivo di formare e mantenere dei rapporti umani duraturi e significativi. Sono molti i dati empirici che documentano la potenza del bisogno di appartenenza in quanto i legami sociali sono una fonte preziosa di salute e benessere psicologico. In questo scenario, che ruolo hanno le tecnologie digitali?

Le tecnologie digitali, come smartphone e PC, rispondono al nostro bisogno di connessioni sociali. In particolare, l’uso delle tecnologie digitali potrebbe accrescere il benessere delle persone quando permette di svolgere attività che altrimenti non sarebbero possibili. Mentre, potrebbe compromettere il benessere nel momento in cui sostituisce o interferisce con altre attività come il sonno. Quindi, l’utilizzo dello smartphone è un alleato del benessere nel momento in cui permette di svolgere delle attività che altrimenti sarebbe difficile praticare, come parlare con una persona distante.

Perché le persone utilizzano i social network?

L’utilizzo dei social network risponde al nostro bisogno di connessione. Il legame tra lo smartphone e i social network favorisce “l’iperconnessione”. Tuttavia, questo da un lato favorisce lo sviluppo dei rapporti umani, dall’altro potrebbe comprometterli. Inoltre, alcuni studi hanno dimostrato che quando l’abbondanza degli stimoli sociali a cui siamo abituati viene meno, il benessere psicologico dell’individuo può risentirne. In particolare, si parla della paura di essere esclusi dal flusso di informazioni costanti e di perdere delle novità legate alla vita altrui.

Conclusioni

Le tecnologie digitali sono fortemente correlate al bisogno di appartenenza e questo ha determinato il successo di molte piattaforme. Attualmente non è possibile parlare di tecnologie “buone” o “cattive” in senso assoluto perché ogni fenomeno necessita di maggiore precisazione per poter parlare di malessere o benessere. Tuttavia, è necessario essere consapevoli della rivoluzione tecnologica e dei suoi effetti sulle relazioni in base alla percezione di connessione o disconnessione.

16 Nov 2022

JOB QUALITY E BENESSERE PSICOLOGICO: QUANDO NON LAVORARE è MEGLIO CHE AVERE UN BRUTTO LAVORO

JOB QUALITY E BENESSERE PSICOLOGICO: QUANDO NON LAVORARE è MEGLIO CHE AVERE UN BRUTTO LAVORO

Una domanda che spesso non affrontiamo con noi stessi è quella sul lavoro che rende (o meno) felici.
Occupiamo gran parte del nostro tempo impegnati nel lavoro non solo alla ricerca del giusto sostentamento economico ma per realizzarci come individui, capaci di apprendere competenze, di sviluppare relazioni e desiderosi di essere riconosciuti. E il lavoro è prezioso, appunto, perché può darci tutto questo, simultaneamente.
Visto così, quindi, avere un lavoro dovrebbe essere un buon affare per ciascuno di noi.
Ma è sempre vero?
Studi a riguardo dimostrano che ciò dipende dalla qualità del lavoro (job quality).

Cosa si intende per lavoro di qualità?
Un lavoro di qualità offre a un individuo l’opportunità di sostenere i costi della vita, di costruire la sicurezza che consente di pianificare il futuro e di considerarsi un membro prezioso di una comunità.
Non avere un lavoro, quindi, può influire negativamente sul benessere psicologico dell’individuo.
La disoccupazione, infatti, è associata a cattive condizioni di salute; tuttavia lavori di scarsa qualità che combinano diversi fattori di stress psicosociali potrebbero essere dannosi per la salute quanto la disoccupazione.

Lo studio di Charandola e Zhang
Un gruppo di ricercatori dell’università di Oxford ha condotto uno studio su adulti britannici che erano disoccupati nel biennio 2009-2010. Coloro che in seguito hanno trovato un buon lavoro hanno goduto di un miglioramento della salute mentale, mentre quelli che hanno trovato lavori stressanti, mal pagati o instabili non hanno subito alcun miglioramento, ma al contrario i loro indicatori fisici dello stress cronico erano più visibili che in chi era rimasto disoccupato.
Nello studio, che si proponeva di sfatare la credenza comune che l’essere disoccupati ha un impatto peggiore sulla salute mentale rispetto all’avere un lavoro stressante e di scarsa qualità, sono state valutate una serie di variabili come la retribuzione, la sicurezza, la soddisfazione e lo stress.

Quali conclusioni si possono trarre da questo studio?

Alla luce dei risultati dello studio, si può sostenere che le persone che hanno un lavoro mal retribuito, poco sicuro e insoddisfacente mostrano più segni di stress cronico rispetto ai loro coetanei che rimangono disoccupati.
Tarani Charandola, uno dei ricercatori, ha affermato: “Non consiglierei mai ad un disoccupato di non accettare un impiego, ma se ti accorgi che il tuo lavoro ti sta facendo ammalare, devi fare qualcosa al riguardo. Ciò non significa lasciare il lavoro, ma piuttosto informare il medico al riguardo, facendo conoscere ai dirigenti come il tuo lavoro ti sta disabilitando. I datori di lavoro hanno il dovere di tutelare la salute dei propri lavoratori.”

09 Nov 2022

LA MINDFULNESS COME RIMEDIO CONTRO IL BURNOUT

LA MINDFULNESS COME RIMEDIO CONTRO IL BURNOUT

Definizione di burnout e conseguenze sul lavoro
Il burnout è una sindrome da affaticamento accompagnato da un forte stress di tipo emotivo, che si manifesta nei contesti lavorativi. E’ caratterizzato da depersonalizzazione e senso di inefficacia personale. Chi lo sperimenta spesso riferisce di sentirsi come “consumato”, “svuotato”, privo di entusiasmo ed energie. Possiamo identificare, inoltre, un ridotto impegno (con conseguente minor produttività), perdita di creatività e manifestazioni di aggressività nei confronti di colleghi e clienti. Tutto ciò genera malessere fisico e psicologico e innesca la messa in atto di ritardi e assenteismo sul lavoro fino ad arrivare, in taluni casi, all’abbandono dell’organizzazione.

Cos’è la mindfulness? In che modo può essere impiegata per contrastare il burnout?
La pratica della mindfulness punta al raggiungimento della consapevolezza di sé e dei propri pensieri, prestando maggiore attenzione al momento presente. Più nello specifico, essa permette di riuscire a “controllare” i propri stati interni e i pensieri negativi con l’obiettivo raggiungere uno stato di benessere ottimale, dato dall’accettazione di sé e della realtà che ci circonda.

Grazie alle tecniche di rilassamento e meditazione tipiche di tale approccio, essa è in grado di aumentare la flessibilità cognitiva e di ridurre la percezione di inefficacia, oltre che la ruminazione cognitiva.

Inoltre, aumenta la resilienza e può avere un impatto positivo sulla motivazione dei lavoratori e sulle relazioni tra colleghi, con conseguente riduzione di comportamenti di assenteismo.

Visti gli effetti benefici di questa pratica, le organizzazioni stanno implementando sempre più la mindfulness in modo tale da poter contrastare il fenomeno del burnout.

É bene, dunque, che l’utilizzo di questa tecnica venga sempre più diffuso in ambito organizzativo, in modo da sviluppare un più ampio bagaglio di skills, gestire al meglio le situazioni sfidanti e favorire soprattutto un livello ottimale di benessere, risorsa del tutto imprescindibile sul proprio posto di lavoro.

12 Ott 2022

CLARK E WEELS: LE FOBIE SOCIALI E COME AFFRONTARLE

CLARK E WEELS: LE FOBIE SOCIALI E COME AFFRONTARLE

La fobia sociale o ansia sociale è una paura nelle situazioni sociali in cui si interagisce col prossimo o si deve fornire una performance di qualsiasi tipo, insieme al loro evitamento. La maggior parte delle persone con fobia sociale teme più di una situazione. Alla base del disturbo vi è la paura del giudizio negativo, che viene irrimediabilmente esagerata sia nella probabilità che nella gravità delle previste conseguenze negative. Lo studio più importante su questo fenomeno lo si deve a CLARK e WEELS, che nel 1995 formulano un modello teorico basato sull’influenza di due meccanismi sulla prestazione:

  • convinzioni condizionali: La caratteristica principale delle convinzioni condizionali è che sono strutturare in forma SE > ALLORA. SE mi mostro intimorito>ALLORA verrò giudicato. Hanno una componente emotiva ed emozionale molto forte e possono innescarsi senza accorgersene.
  • pensieri automatici negativi: i pensieri catastrofici che invadono quando si è tesi e monitorano la performance come se ci si guardasse dalla prospettiva di un osservatore esterno, per giudicare come si sta svolgendo proprio la performance, inevitabilmente danneggiandola.

Questi due meccanismi deformano la nostra elaborazione di sé come oggetto sociale. Questo continuo automonitoraggio sottrae risorse cognitive al compito e, inoltre, darà di una persona incerta, in ansia, in pericolo con dei chiari sintomi fisici, come nel caso del public speaking e dei classici vuoti di memoria, fino sintomi sempre più gravi come tachicardia, vertigini e vomito. I fobici sociali hanno un’immagine di sé negativa proprio perché si creano un’autorappresentazione, già in partenza, caratterizzata dall’idea di fallimento della performance cercano in tutti i modi di evitarla nella maniera più categorica, attraverso comportamenti protettivi che, come dice il nome stesso, in teoria dovrebbero servire da scudo difensivo dall’ansia e dallo stress della situazione. Lo schema di Clark e Wells mostra quindi come in realtà l’ansia sia il risultato delle convinzioni condizionali, dei pensieri catastrofici e dell’automonitoraggio e come, a sua volta, essa li peggiori.

La terapia ideale per affrontare la Fobia Sociale è mirata al ripristino dell’attenzione sul momento presente e sul compito, rendendo l’individuo più efficace perché libero di concentrarsi su ciò che sta facendo. Padroneggiare l’attenzione, infatti, è l’unico modo per controllare l’ansia in condizioni di stress.

28 Set 2022

GLI ASPETTI NEGATIVI E LE AZIONI POSITIVE PER SCONFIGGERE IL PERFEZIONISMO

GLI ASPETTI NEGATIVI E LE AZIONI POSITIVE PER SCONFIGGERE IL PERFEZIONISMO

In una ricerca pubblicata su “Review of general psychology” si è potuto riscontrare come il fenomeno del Perfezionismo, inteso come attitudine alquanto diffusa ad apparire perfetti e a voler eccellere nel proprio campo professionale, o in generale nella propria vita, stia diventando una tendenza che può sviluppare una vera e propria patologia.

Esistono però due forme di perfezionismo, quella adattiva e quella disadattiva:
nella prima l’individuo risulta meticoloso, organizzato e puntuale nelle attività per il raggiungimento dei propri obbiettivi, mentre la facciata disadattiva è alimentata sia da preoccupazioni costanti sugli eventuali errori, sia da fallimenti a seguito dell’ansia.

Quali sono, quindi, gli aspetti negativi e positivi che caratterizzano questa attitudine?

La convinzione più profonda di essere tutto tranne che perfetti

Una radicata insicurezza può spesso portare a manifestare il bisogno di perfezionismo; può accadere, infatti, che il nostro giudice interiore ci costringa in qualche modo a essere sempre in stato di allerta, tensione e quindi non permettere di rilassarci e far vivere la vita semplicemente per ciò che è.

Il perfezionista nasconde una forte ansia e un bisogno di controllo

L’ansia va a scaturire quello che è il senso di inadeguatezza che spinge i soggetti perfezionisti ad essere alquanto performanti.
A tal proposito, esiste la cosiddetta tecnica della Mindfulness, che aiuta a ridurre lo stimolo costante del fare, migliorare e perfezionare in modo tale da concedersi un momento di relax.
Anche bassi livelli di stabilità emotiva e un forte atteggiamento critico verso sé stessi e il proprio operato, possono contribuire ad aumentare il circolo vizioso ansiogeno.

Coltivare una buona stima di sé

Tra le azioni che si possono mettere in atto vi è quella di coltivare relazioni autentiche:
ciò è importante per la propria autostima in quanto essere sé stessi significa aprirsi con gli altri, condividendo in piena libertà anche i punti di fragilità senza avere la percezione di essere attaccati o giudicati.

Imparare a festeggiare

Per modificare il nostro modo di percepirci, sarebbe utile imparare a festeggiare i nostri successi nella vita con le persone a noi care. Celebrare un momento di felicità o il raggiungimento di un obiettivo è molto importante perché significherebbe dare valore e amore a quel che si sta facendo. Infatti, un aspetto che può avere un forte impatto sulle nostre vite è quello di imparare ogni giorno a essere grati con noi stessi.

Imparare a sbagliare

Un esercizio utilissimo che possiamo mettere in atto ogni qual volta che siamo in preda al perfezionismo è quello di imparare a sbagliare deliberatamente:

Un’azione pratica, per esempio, potrebbe essere arrivare volutamente in ritardo di cinque minuti ad un meeting, oppure darsi un limite nel rileggere una mail prima di spedirla.

Lo scopo di questo esercizio, in primo luogo, è di soffermarsi sull’errore per poter imparare ad ascoltarsi e notare le diverse reazioni emotive che esso ha suscitato in noi; in secondo luogo, l’esercizio sarà molto utile per gestire al meglio il senso di inadeguatezza che ci perseguita.

Le pratiche di consapevolezza per controllare i pensieri intrusivi

Spesso può accadere che l’essere eccessivamente performanti a causa del senso di inadeguatezza che ci pervade, può alimentare il continuo rimugino di pensieri giudicanti.
Imparare a controllare i pensieri attraverso le pratiche di consapevolezza può essere utile per riuscire a vedere quanto già è stato fatto e quanto possano essere assurdi, a volte, certi pensieri intrusivi.

Per concludere

essere perfezionisti non è da considerarsi un male a tutti gli effetti: a volte l’insoddisfazione ci spinge e ci motiva a lavorare meglio, ma allo stesso tempo può diventare tossico, bisognerebbe quindi accettare eventuali fallimenti in alcune circostanze.
Errare è lecito, sbagliare è una vera lezione formativa.