17 Set 2019

TRAUMA DA RIENTRO: ESISTE DAVVERO?

TRAUMA DA RIENTRO: ESISTE DAVVERO?

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Il ritorno a scuola può comportare uno stato di malessere diffuso che coinvolge diverse fasce di età, dai bambini più piccoli agli adolescenti. Per tutte le fasce di età è previsto un periodo di adattamento naturale alle nuove fatiche dell’anno scolastico più o meno variabile.

Scuola dell’ infanzia e scuola primaria: per il bambino è la prima occasione in cui vi è una lontananza da casa propria con una certa continuità. Dopo i primi giorni di scuola ansie e capricci dovrebbero scomparire, per fare posto a sentimenti più positivi di curiosità, scoperta e buon adattamento.

In questo caso il ruolo di supporto da parte del genitore è fondamentale, poiché spesso la vera apprensione è più del genitore che non del figlio e quando è la figura di riferimento stessa che si trova in una condizione di preoccupazione più o meno conscia ( che possono far capo anche a proprie angosce primarie irrisolte), questo stato mentale potrebbe essere trasmesso più o meno indirettamente al proprio figlio suscitando uno stato emotivo importante e di difficile gestione.

Se nel bambino tale condizione di disagio emotivo dovesse permanere non si parlerà più di ansia da rientro, bensì di ansia da separazione. L’ansia da separazione, come affermato dalla psicanalista Margater Mahler è uno stadio normale di vita che si sviluppa intorno agli otto mesi, una volta che il bambino comprende che i genitori non scompaiono quando sono fuori dalla portata della suo campo visivo.

L’ansia da separazione raggiunge il suo apice intorno ai 10-18 mesi di età per poi abbassarsi gradualmente. Esistono casi in cui ciò non accade e in cui il bambino manifesta una forma inappropriata ed eccessiva di paura e malessere al momento di separarsi da casa o da una specifica figura di riferimento in momenti e fasi di sviluppo successive, tra cui gli esordi scolastici.

L’ansia espressa, in questo caso, è classificata come atipica rispetto al livello di sviluppo atteso e all’età del soggetto. La gravità dei sintomi varia dal disagio preventivo a veri e propri attacchi di ansia al momento (o anche solo al pensiero) della separazione, causando al bambino un disagio significativo o una compromissione del funzionamento sociale, scolastico o di altre aree importanti (DSM V). Per dare qualche spunto utile di osservazione a genitori e insegnanti si legga l’elenco dei sintomi dell’ansia da separazione al punto successivo.

Scuola secondaria di primo grado: è la fase della preadolescenza. Se prima potevano capitare momenti di condivisione con il bambino dei vissuti e degli stati emotivi, ora vi è una ricerca, da parte dello stesso, della prima autonomia e indipendenza e ciò può portare ad una chiusura in se stessi. In questa fase, nel bambino che manifesta una difficoltà di ripresa scolastica si può riscontare una sorta di atteggiamento oppositivo: il bambino esprime un’ aggressività passiva che si può esplicitare nel rifiuto a preparare la cartella o nella preparazione errata della stessa o nel rifiuto dei compiti scolastici.

Scuola secondaria di secondo grado: il passaggio alle scuole superiori è l’inizio di un nuovo percorso, in cui il ragazzo dovrà affrontare diverse sfide. Tutto ciò coincide proprio con il passaggio alla fase adolescenziale, momento fondamentale nella costruzione della propria identità, perché il bambino lascia lo spazio al futuro adulto. Nell’adolescenza si notano quattro tipi di cambiamenti:

  • La completa maturazione fisica.
  • Il raggiungimento della maturità sessuale.
  • L’acquisizione dello stato di adulto.
  • Il conseguimento del pieno sviluppo cognitivo

Tutti questi aspetti possono comportare una grande pressione e senso di responsabilità per il ragazzo e ciò può creare un possibile stato di ansia.

HO MAL DI PANCIA: COME RICONOSCERE SEGNI E SINTOMI DI DISAGIO

I disagi che possono derivare da una condizione di ansia da ripresa sono diversificati. Possono manifestarsi cambiamenti nel ritmo sonno veglia, con difficoltà di addormentamento, incubi notturni, capricci dopo il risveglio mattutino o il tentativo di allungare il tempo di permanenza in casa.

Un’ ulteriore conseguenza dell’ansia da ripresa possono essere i classi sintomi “psicosomatici” in cui il disagio, non correttamente mentalizzato e razionalizzato dal minore prende una via di espressione che si traduce in una forma di disagio/malessere corporeo , ad esempio i frequenti mal di pancia, mal di testa e simili che spesso non ha origine medica, ma è una forma di somatizzazione.

E’ frequente che segni e sintomi si manifestino per un nutrito gruppo di ragazzi di diverse età al momento della riresa scolastica a settembre ma dovrebbero avere un decorso limitato nel tempo, con una spontanea e graduale risoluzione successiva. Se invece questi problemi dovessero perdurare sarebbe bene parlarne con gli insegnanti e consultare un esperto dell’eà evolutiva.

Nel caso specifico invece dell’ansia da separazione di cui sopra i sintomi a cui prestare maggiore attenzione da parte delle figure educative si riassumono facilmente in poche batture ( Manuale Statistico Diagnostico dei disturbi Mentali DSM V):

  • Ricorrente ed eccessivo disagio quando si prevede o si sperimenta la separazione da casa o dalle principali figure di attaccamento;
  • Persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo alla perdita delle figure di attaccamento, o alla possibilità che accada loro qualcosa di dannoso, come malattie, ferite, catastrofi o morte;
  • Persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo al fatto che un evento imprevisto comporti separazione dalla principale figura di attaccamento (perdersi, essere rapito, avere un incidente, ammalarsi);
  • Persistente riluttanza o rifiuto di uscire di casa per andare a scuola per paura della separazione.
  • Persistente ed eccessiva paura di, o riluttanza a, stare da soli o senza le principali figure di attaccamento a casa o in altri ambienti;
  • Persistente riluttanza o rifiuto di dormire fuori casa o di andare a dormire senza avere vicino una delle principali figure di attaccamento;
  • Ripetuti incubi che implicano il tema della separazione;
  • Ripetute lamentele di sintomi fisici (mal di testa, dolori di stomaco, nausea, vomito) quando si verifica o si prevede la separazione dalle principali figure di attaccamento;

Inoltre Il rifiuto scolastico potrebbe originare da problemi specifici non confidati che, con il ritorno a scuola, potrebbero riaffiorare. Il bullismo, ad esempio è una forma di violenza psicologica e talvolta fisica che può comportare importanti conseguenze sul piano emotivo, mentale e comportamentale.

Le vittime possono manifestare problematiche alimentari e fisiche, aspetti che rappresentano il forte stress cui sono soggette, sintomi spesso confondibili con segnali analoghi allo “stress da rientro” o “ansia da separazione” Inoltre, il loro interesse per la scuola può diminuire e, nel lungo termine, può portare ad abbandono prematuro del percorso formativo.

Per concludere è fondamentale saper cogliere preventivamente i segnali di disagio, non amplificarli, ma accoglierli e inquadrali corettamente. Se dovessero presentarsi evidenti difficoltà legate alla scuola, come bruschi cali di rendimento blocco o rifiuto o forte demotivazione, è necessario intervenire. Esistono diversi strumenti utili e diversificati, da un semplice attività di aiuto compiti con personale qualificato a percorsi riabilitativi e di potenziamento individuale o di gruppi di piccole dimensioni. Analizzare bene la situazione e i diversi fattori alla base di problematiche complesse, è fondamentale per una maggiore comprensione della situazione.

17 Set 2019

É possibile rendere l’ansia propria alleata?

É possibile rendere l’ansia propria alleata?
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Tutti noi nel corso della nostra vita abbiamo modo di sperimentare l’ansia, con frequenza ed intensità diverse che variano in base alle persone ed alle situazioni.

Siamo abituati a considerare l’ansia in termini negativi, come un’emozione che provoca disagio e che compromette il nostro benessere. In realtà, però, l’ansia può essere un’importante risorsa perché produce un’attivazione sia fisica che mentale che può portarci a svolgere al meglio determinati compiti o attività.

Pensate, ad esempio, ad una situazione valutativa come può essere un esame, un colloquio di lavoro, una prestazione sportiva, il fare determinate cose alla presenza di altre persone. Un po’ d’ansia ci permette di essere più vigili ed attenti a tutti i segnali potenzialmente importanti, di elaborare al meglio le varie informazioni, di comprendere quali sono le strategie più adatte per affrontare la situazione e di adattarci al cambiare delle circostanze.

L’ansia diventa problematica nel momento in cui raggiunge livelli eccessivamente intensi e ci impedisce di gestire determinate situazioni provocando un blocco nel pensiero e/o nell’azione.

Per evitare che l’ansia diventi troppo forte, patologica e che da un’importante risorsa si trasformi in un grande limite è possibile tenere a mente alcuni accorgimenti che servono a scopo preventivo:

  • Accettare l’ansia. L’ansia è inevitabile in determinate situazioni e cercare di eliminarla completamente sarebbe fallimentare ed inutile. Anzi, a volte più si cerca di allontanarla e più questa aumenta. Non si può pensare di poter eliminare completamente l’ansia dalla propria vita, ma si può pensare di gestirla efficacemente in modo che diventi un’alleata piuttosto che una nemica.
  • Affrontare sempre le situazioni che provocano un po’ d’ansia e di disagio. Molto spesso si può avere la tendenza ad evitare le circostanze che mettono un po’ in difficoltà e che non sono indispensabili. Qualche esempio? Vorresti andare in nuovo negozio o a visitare una nuova città o fare una strada diversa o qualcosa di nuovo, ma il pensiero di fare queste cose ti provoca un po’ di agitazione che sei in grado di controllare, ma comunque rinunci perché non si tratta di cose che per te sono necessarie. In questo modo, però, limiti la tua vita, atrofizzi sempre di più le tue risorse e, continuando a comportarti in questo modo, c’è il rischio che il numero delle situazioni che decidi di non affrontare aumenti sempre di più fino ad arrivare a coinvolgere anche quelle che, invece, per te sono irrinunciabili.
  • Sviluppare le giuste abilità. A volte l’ansia può essere legata anche al fatto che non si possiedono adeguate capacità per affrontare al meglio la situazione. Ad esempio, se hai difficoltà a gestire determinati problemi lavorativi con i colleghi anche perchè non hai delle competenze comunicative ottimali, è possibile che ogni volta che ti trovi in tali circostanze la tua ansia aumenti sempre di più. Lavorare sullo sviluppo di tali abilità potrebbe aiutarti a contenere l’ansia, oltre che a migliorare altri aspetti della tua vita.
  • Organizzarsi. Se si affrontano situazioni complesse che già provocano ansia senza essere adeguatamente preparati e senza aver pianificato alcuna strategia, è possibile che la propria ansia aumenti ancora di più. Pensate, ad esempio al dover affrontare la preparazione di un esame o un compito lavorativo completamente nuovo senza essersi informati, senza aver fatto un programma e senza aver valutato delle strategie da utilizzare.
  • Chiedere aiuto quando necessario. Se la tua ansia sta raggiungendo dei livelli che ti sembrano troppo elevati o se è presente in moltissime situazioni o se, ancora, è lieve ma comunque non riesci a gestirla non esitare a chiedere l’aiuto di un professionista per poter individuare insieme le strategie più adatte a te.
17 Set 2019

Cos’è l’Employee Engagement?

Cos’è l’Employee Engagement?

L’Employee Engagement è la misura del grado di coinvolgimento dei dipendenti all’interno della sfera lavorativa che influenza direttamente la motivazione nel contribuire al raggiungimento degli obiettivi aziendali.

L’Employee Engagement aumenta quanto più le persone si sentono parte attiva della vita aziendale e ne comprendono gli obiettivi e le motivazioni. Parallelamente il coinvolgimento aumenta con il raggiungimento di un equilibrio tra sfera professionale e privata.
Questa situazione si traduce in una migliore performance professionale e in un aumento di produttività: secondo uno studio di PwC, i dipendenti di imprese che hanno sviluppato l’employee engagement mettono il 57% in più di impegno nella loro attività rispetto agli altri, e sono per l’87% meno propensi a cercare nuove opportunità di carriera in altre aziende. L’Employee Engagement non influenza solamente le performance ma ha effetti positivi anche sulla customer satisfaction, le performance di Corporate Responsibility e il ROI, si incrementa la capacità di innovazione e di adattamento ai cambiamenti e diminuisce il turn over.
Nelle aziende che hanno lavorato sulla Employee Engagement si sono registrate anche delle riduzioni a livello di assenteismo dei dipendenti: un esempio è rappresentato da Luxottica, una delle prime realtà italiane ad aver attuato politiche di engagement che ha un tasso di assenza che negli ultimi anni è diminuito passando dal 6 al 4%.

Il successo di un’azienda, le sue performance di vendita, la qualità dei suoi servizi e la sua immagine dipendono non solo dalla validità dei suoi manager e dalla bontà delle strategie delineate ma anche dall’engagement dei dipendenti. L’employee engagement non solo ha riflessi sul clima di lavoro e la produttività dei singoli ma si riverbera anche indirettamente nella capacità dell’azienda di innovare e nella customer satisfaction. Il collaboratore ingaggiato è più realizzato dal punto di vista lavorativo e più propenso a contribuire in modo propositivo ai processi innovativi. Inoltre, è stimolato a trasmettere al cliente i valori aziendali, cercando di soddisfare al meglio le sue necessità.

Cosa chiede un dipendente per essere coinvolto?

Trasparenza sugli obiettivi e sulla mission aziendale, coerenza fra le strategie sviluppate e le attività implementate, possibilità di comunicazione a diversi livelli, uguaglianza di trattamento economico e di genere sono alcuni degli elementi che incidono sui livelli di soddisfazione dei dipendenti. Molta importanza hanno poi le opportunità di confronto sullo sviluppo di carriera e di formazione offerte.

Per rispondere a questa richiesta di coinvolgimento, l’azienda deve investire in termini di ascolto e di confronto, per arrivare a captare i bisogni dei collaboratori e tradurli in modalità organizzative e incentivi che soddisfino le richieste.

17 Set 2019

Valutazione Stress-correlato

Valutazione Stress-correlato

Lo stress è una reazione alla pressione psicologica che tutti noi affrontiamo quotidianamente. Non è negativo di per sé.

Esistono diversi tipi di stress, tra i quali:

  • l’eustress, stress positivo e necessario per affrontare gli impegni della giornata;
  • uno stress di tipo negativo, chiamato distress, capace di produrre conseguenze, anche gravi, sia sul piano psicologico che fisico se trascurato.

Quest’ultimo può influire sul rendimento nel lavoro, nei rapporti tra colleghi, nella soddisfazione personale in termini di efficienza ed efficacia della propria operatività,
con conseguenze e costi sia per il lavoratore sia per l’azienda sia per la sanità.

Numerose ricerche (tra le quali: “Ricerca sullo Stress correlato al Lavoro” di Cox T., Griffiths A.E. Rial Gonzales, Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, 2000) hanno infatti rilevato che lo stress lavoro-correlato è causa di varie patologie a diversi livelli:

  • disturbi fisici
    (cardiopatie, mal di schiena, cefalee, disturbi intestinali e gastrici, etc.)
  • disturbi psichici
    (ansia, depressione, difficoltà di concentrazione, ridotte capacità decisionali, etc.)
  • incremento di alcuni comportamenti nocivi
    (maggior consumo di tabacco, etc.)

La valutazione del rischio stress lavoro-correlato va condotta secondo le indicazioni già individuate per altri rischi lavorativi, sulla base del modello previsto dalle direttive europee.

Di fatto non è stata individuata una figura professionale preposta a tale valutazione.
Può farla anche il datore di lavoro stesso, o il consulente del lavoro che già si occupa di quell’azienda o il commercialista.

Le più recenti indicazioni INAIL/ISPESL (l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro ha assunto le funzioni dell’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro, ora soppresso) suggeriscono una metodologia per la valutazione e gestione del rischio di stress lavoro-correlato, che è suddivisa in sei fasi:

  • Fase 1 – Preparazione dell’organizzazione
    In questa fase è necessario, prima di iniziare la valutazione vera e propria, che il Datore di Lavoro coinvolga i dirigenti, i responsabili e tutti i lavoratori. Verrà costituito un gruppo di coordinamento e steso un progetto che avrà come obiettivo la promozione delle informazioni sulla valutazione al fine di coinvolgere tutto il personale.
  • Fase 2 – Identificazione dei fattori di rischio stress – conoscenza dei Management Standards
    I membri del gruppo di coordinamento, insieme a tutti i soggetti coinvolti nel processo
    di valutazione del rischio, devono essere a conoscenza delle procedure valutative e in particolare dei Management Standards, ossia un “set di condizioni” che consente all’azienda di monitorare e gestire i rischi da stress lavoro correlato.
    Tale sistema è validato nel Regno Unito e in Irlanda. In Italia è validato dall’ISPESL.
    I Management Standards fanno riferimento alle sei dimensioni organizzative chiave1:

    1. Carico lavorativo (Domanda)
    2. Autonomia del lavoratore (Controllo)
    3. Supporto dell’azienda (Supporto)
    4. Relazioni con i colleghi (Relazioni)
    5. Ruolo del lavoratore (Ruolo)
    6. Gestione dei cambiamenti organizzativi (Cambiamento).

    I dati raccolti nelle prime due fasi, della metodologia qui brevemente presentata, identificheranno le condizioni di rischio su tre livelli: basso – medio – alto.
    Solo in caso di alto livello si procederà alle fasi successive alla 3.

  • Fase 3 – Raccolta dati – valutazione oggettiva e soggettiva
    La raccolta dati avviene attraverso tecniche di:

    • valutazione oggettiva (informazioni e dati già disponibili all’interno dell’azienda relativi alla struttura dell’azienda e a parametri concreti);
    • valutazione soggettiva dello stress lavoro-correlato da parte dei lavoratori (somministrazione del questionario di valutazione della percezione soggettiva
      dello stress lavoro-correlato modello ISPESL-HSE – questionario indicatore);
  • Fase 4 – Valutazione del rischio – esplorare problemi e sviluppare soluzioni
    Raccolte le informazioni iniziali, il Datore di Lavoro analizzerà i risultati mettendoli anche in relazione con i vari gruppi di lavoratori e discuterà le possibili soluzioni attraverso preferibilmente la creazione di un focus group con il coinvolgimento di un gruppo di lavoratori.
  • Fase 5 – Formalizzazione dei risultati – sviluppare e implementare piano/i d’azione
    In questa fase del processo valutativo si è steso, insieme ai lavoratori, un piano di intervento volto a prevenire o correggere eventuali criticità rilevate nelle precedenti fasi della valutazione.
  • Fase 6 – Monitoraggio e controllo del/i piano/i d’azione e valutazione
    della loro efficacia

    Tale fase prevede che si proceda a monitorare nel tempo ogni provvedimento adottato per verificarne l’efficacia, con particolare riguardo alle criticità emerse nelle fasi precedenti.

Se non si crede che il benessere psicologico di chi lavora possa influire anche sul rendimento e la produttività, fare una valutazione, proporre i questionari, non porterà a nessun vero risultato.

In questa atmosfera confusa e poco “convinta” si inserisce lo Psicologo del lavoro, l’unico consapevole dell’importanza del suo intervento.

17 Set 2019

La psicologia del turismo

La psicologia del turismo

Negli ultimi anni, all’interno di quell’ampio settore d’indagine che e’ la Psicologia Sociale, sta prendendo sempre piu’ piede e si sta sviluppando una nuova e importante branca definita Psicologia turistica.
L’attivita’ turistica e’ cresciuta costantemente nel tempo e sembra destinata ad una ulteriore crescita nell’immediato futuro, favorita parecchio dallo sviluppo moderno dei trasporti e delle comunicazioni.
Oltre a cio’, il turismo riveste una fondamentale importanza come fattore di benessere economico e di sviluppo sociale per molte zone depresse della terra, prive di altre risorse di sviluppo e di sostentamento. Di conseguenza, si puo’ affermare che l’attivita’ turistica e’ oggi il fattore piu’ decisivo fra gli agenti di cambiamento sull’ambiente dell’uomo. Un fattore che influenza non soltanto gli aspetti fisici del territorio, ma anche quelli sociali, psicologici e culturali.

A tutto cio’ bisogna aggiungere che, mentre nei secoli passati il viaggiare era un’attivita’ tipica soprattutto delle classi piu’ agiate, attualmente il turismo coinvolge milioni di persone di ogni livello sociale ed economico.

Anche in Italia il turismo rappresenta oramai la piu’ importante risorsa economica del Paese e, insieme ad importanti benefici economici, porta con se’ tutta una serie di altri fattori, sia individuali che sociali, che possono essere emotivi, cognitivi, culturali, geografici e chi piu’ ne ha piu’ ne metta. Come si puo’ notare, ci si avvicina sempre piu’ al campo di nostro interesse, la Psicologia. A tutto cio’ si associa il fatto che raramente il “fenomeno del turismo” e’ stato studiato approfonditamente all’infuori di quella che e’ la prospettiva puramente economica.
Chi si occupa di turismo (operatori turistici, imprenditori, enti, comuni, ecc…) tende, solitamente, a considerare questa attivita’ principalmente da un punto di vista geografico-economico, ignorando (volutamente o no) gli aspetti teste’ considerati, che sono invece da prendere in seria considerazione laddove si voglia coniugare ed integrare il fare turismo con gli innumerevoli fattori che su questa attivita’ incidono in vario modo. Pensiamo, solo per fare alcuni efficaci esempi, alla soddisfazione (o insoddisfazione) del turista per la vacanza, ai comportamento nella localita’ di vacanza, alle intenzioni e alle motivazioni che spingono gli individui a viaggiare, alle interazioni fra turisti e locali, ai processi decisionali che portano alla scelta di andare o no in vacanza.

I fattori psicologici sono stati, fra quelli che concorrono a delimitare l’ambito turistico, senza dubbio fra quelli meno studiati nel corso del tempo e, conseguentemente, il rapporto tra la psicologia ed il turismo solo recentemente si e’ andato consolidando ed coordinando.
Cio’ appare un po’ paradossale se si considera quanto detto in precedenza, cioe’ che l’attivita’ turistica rappresenta attualmente la piu’ importante risorsa del mondo, e considerando il fatto che la psicologia pervade oramai ogni ambiente della conoscenza e del comportamento umano.
Eppure, nonostante cio’, raramente scienza psicologica e attivita’ turistica si sono ritrovate ad interagire e a comunicare proficuamente.
Di sicuro, a prima vista e ad occhi inesperti, questi due settori d’indagine possono sembrare appartenenti a campi completamente lontani e a prospettive differenti.
In primo luogo perche’, come gia’ affermato, chi fa turismo gestisce la propria attivita’ prevalentemente in una prospettiva economica, di guadagno immediato; in secondo luogo perche’ chi fa psicologia di solito vuole soprattutto essere d’aiuto a persone che si trovano in particolari stati e situazioni, di malattia, e non si occupa di turismo.
O almeno questa e’ l’idea che possiede la maggior parte della gente comune.
Ma e’, senza alcun dubbio e in base a quanto fin qui detto, una visione piuttosto limitata.

La cosa certa, e’ che la psicologia italiana ha cominciato a rispondere solo recentemente a domande del tipo:

Chi e’ il turista? Cos’e’ il turismo?
Da cosa e’ motivato il turista?
Quali sono le peculiarita’ dei processi di scelta del turista?

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A livello internazionale, la definizione piu’ diffusa del “turista” lo identifica come quella persona che si trova fuori dalla sua abituale sede di residenza per un tempo minimo (in genere da uno a quattro giorni), in pratica chi si ritrova a dormire fuori casa per qualche giorno.
Altre definizioni aggiungono un ulteriore elemento e parlano di turista come chi spende il proprio reddito in un luogo differente da quello in cui lo produce.
Queste definizioni appaiono subito poco convincenti.
Infatti, possiamo inserire fra gli individui che rientrano in queste categorie anche soggetti che chiaramente non sono turisti, ad esempio militari che dormono nella caserma di un paese di cui non sono residenti, ricoverati che sono costretti a stare all’ospedale, lavoratori che spendono soldi nel luogo di lavoro che puo’ non essere quello in cui abitano.
Proprio per questi motivi, a questi due elementi della definizione, “il dormire fuori” e “lo spendere denaro in una sede lontana”, se ne aggiunge solitamente un terzo, un fattore psicologico appunto, cioe’ la motivazione, lo stato d’animo col quale il soggetto affronta sia il viaggio che le spese. Cosi’, la scelta del soggetto di viaggiare e spendere lontano da casa deve essere una scelta libera, volontaria.
Il turismo viene allora definito sia come uno spostamento prolungato che come una spesa, messi in atto dall’individuo volutamente e per motivi di piacere.
Soprattutto la ricerca scientifica, ma anche il senso comune, tende a considerare il turismo come una situazione esclusivamente legata al tempo libero, con caratteristiche particolari che la contraddistinguono. In particolare, la ricerca psicologica si e’ occupata soprattutto del viaggio “voluto”, quindi volontario.

Il rapporto che intercorre tra turismo e spostamento in generale puo’, quindi, essere rappresentato in sintesi, dal punto di vista psicologico, proprio in base alle motivazioni al muoversi. Questo e’, dunque, solo un breve ma efficace esempio di come il Turismo rientri pienamente nell’ambito di studi della Psicologia

17 Set 2019

Lo Smart working

Lo Smart working

Lo smart working, letteralmente lavoro agile, si configura come un nuovo approccio dell’organizzazione verso il lavoro e il dipendente, approccio capace di superare il format della prestazione vincolata ad una sede e a degli orari e di offrire spazio ad una cultura manageriale che fondi il perseguimento di obiettivi – e, dunque, misuri la performance – sui risultati anziché sul numero di ore lavorate ovvero di procedimenti curati.

Se prendiamo in considerazione la definizione che ne fornisce la legge, vale a dire una “modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato allo scopo di incrementarne la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” appare possibile sinteticamente chiarire che nel nostro Paese – a legislazione vigente – lo smart working consiste in una prestazione lavorativa che si differenzia da quella comunemente in uso, in quanto eseguita in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno ed entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva; inoltre, l’attività lavorativa può essere svolta tramite l’utilizzo di strumenti tecnologici che assicurano la maggiore flessibilizzazione dei processi lavorativi e permettono ai lavoratori di operare in asincrono.

I principi alla base dello smart working risultano essere, quindi, autonomia e responsabilità. Non è facile lavorare al di fuori degli spazi canonici (logistici e funzionali) dell’ufficio: richiede spiccate competenze di organizzazione, di orientamento agli obiettivi e ai risultati, di problem solving nonché di concentrazione, per non correre il rischio di farsi assorbire dalle pratiche quotidiane facilmente accessibili nell’ambiente (anche domestico) in cui si svolgerà il lavoro, o essere agevole preda di distrazioni nel caso di ambienti non convenzionali. E chiaramente è richiesto di avere solide competenze informatiche per poter tracciare e rendicontare il frutto del proprio lavoro, da discutere con una figura chiave: il leader agile, che ha il compito sia di ricondurre le regole agli obiettivi di lavoro, lontani da un approccio comando-controllo, sia di alimentare nuove modalità operative e prendere le decisioni per effettuare riunioni di lavoro.

Al leader agile spetta il compito di sostenere, attraverso un modello basato su feedback di miglioramento e di riconoscimento, le performance (oggettivamente inequivocabili) e i comportamenti del proprio team attraverso una cultura basata sulla fiducia, anche quando si verificano risultati disattesi rispetto agli obiettivi concordati. A questa figura compete di generare opportunità di crescita sugli errori dei colleghi, oltre che di rendersi il punto di riferimento stabile che riconduce ogni attività allo scopo primario di successo per l’azienda.

La fiducia diventa elemento essenziale nelle relazioni aziendali, fondamentali per un corretto funzionamento dell’impresa, mentre la flessibilità costituisce il tratto distintivo dei nuovi modelli di lavoro, che sempre più devono adeguarsi ai continui mutamenti del moderno contesto competitivo. Altri due aspetti chiave dello smart working si sostanziano nella collaborazione e nella comunicazione. L’autonomia sul lavoro, infine, favorisce un maggiore coinvolgimento dei dipendenti ad ogni livello dell’azienda.

Altro elemento che supporta lo smart working è il gruppo di lavoro, che per soddisfare i requisiti di complementarietà e di autosufficienza in termini di competenze e di ruoli, ha bisogno di nutrirsi attraverso la relazione: ecco che il coordinamento e lo scambio di conoscenze tra team risulta essere un ulteriore importante elemento attraverso il quale il leader agile diventa coach e può portare a valorizzare ed estendere esperienze virtuose, ma anche rendere note le esperienze più critiche su cui generare nuove soluzioni e opportunità di apprendimento utilizzando il confronto esteso e la leadership partecipativa, che mantengono il collante tra le persone al lavoro che facciano parte della stessa realtà.

Da qui il bisogno di fare crescere nei lavoratori la responsabilità del risultato, in grado di produrre effetti, rispetto alla crescente necessità di soddisfare le esigenze di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, nello spirito del “work life balance”. Per raggiungere tali traguardi appare indispensabile, da un lato, favorire lo spirito di collaborazione con valorizzazione dei talenti, così da fare maturare relazioni professionali che fondino sulla gestione intelligente del lavoro; dall’altro, garantire l’accesso a strumenti e sistemi tecnologici che assicurino la massima condivisione delle informazioni e la veicolazione delle comunicazioni occorrenti ad elevare la performance delle persone al lavoro.

Emerge, dunque, l’esigenza di pensare a nuovi spazi fisici, evolvendo dal layout tradizionale, basato essenzialmente sulla fisicità delle pareti di un ufficio, verso una varietà di ambienti progettati per adattarsi al meglio a diverse tipologie di attività.

Il contesto innovativo può caratterizzarsi anche per la presenza di differenti professionalità, così da promuovere la costituzione di gruppi di lavoro in grado di catalizzare persone orientate all’innovazione e alla collaborazione come nell’esperienza del co-working [4], che si basa su tre parole chiave:

– sviluppo,
– imprenditorialità,
– innovazione.

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Tocca al processo di innovazione il merito di realizzare un ambiente molto più stimolante, in cui sono favorite la generazione di idee e l’innovazione, prodromiche a una maggiore opportunità di apprendimento non disgiunta, peraltro, da una riduzione dei costi immobiliari.

Il coworking, è un nuovo modo di lavorare in assenza di rivalità. I cosiddetti coworker possono interagire in modo tale che ognuno, pur svolgendo in maniera indipendente il proprio lavoro, metta il proprio talento al servizio di un progetto comune. Si tratta di quel luogo dinamico in cui diverse persone, anche non operanti nello stesso settore o medesimo progetto, lavorano condividendo l’ambiente fisico e le risorse di un normale ufficio. Ovviamente, anche quando il lavoratore svolga la propria prestazione fuori dai locali aziendali – non essendo necessario che utilizzi una postazione fissa – il datore di lavoro resta comunque responsabile della sicurezza sia dei lavoratori che dei dati e dei software della organizzazione, con l’onere di dovere garantire il pieno e regolare funzionamento di questi ultimi.

13 Set 2019

Lo sviluppo del Digital Marketing

Lo sviluppo del Digital Marketing

Nel mondo accademico e fra gli addetti ai lavori il marketing digitale è chiamato in molti modi: Internet marketing, e-marketing, web marketing, modern marketing. Dave Chaffey, autore del libro “Digital Marketing: Strategy, Implementation and Practice” e di altri best seller sull’argomento, fornisce questa semplice definizione: “il Digital Marketing permette di raggiungere gli obiettivi di marketing attraverso l’utilizzo di tecnologie e media digitali”. Come fare in concreto? Bisogna gestire la presenza online dell’azienda attraverso i diversi canali online, ovvero siti web, mobile app e social media, e utilizzare le tecniche di comunicazione online come i motori di ricerca, il social media marketing, l’online advertising, e-mail marketing e le partnership con altri siti. L’obiettivo è acquisire nuovi clienti e fornire servizi migliori a quelli attuali, ampliando e rafforzando le relazioni, attraverso il CRM (customer relationship management) e la marketing automation. Tuttavia, perché il digital marketing abbia successo, è necessario integrare queste attività online con quelle effettuate sui media più tradizionali, come la carta stampata, la TV, il direct mail, in un’ottica di comunicazione multicanale.

Il digital marketing ha il vantaggio di permettere la misurazione di ogni attività. Nel creare un marketing plan serve però stabilire cosa è utile misurare, senza perdersi nel mare dei dati, e mettere in campo azioni migliorative monitorando costantemente i risultati raggiunti.

Non basta sviluppare siti web o gestire i canali social. Il vero significato del digital marketing sta nell’uso congiunto di tutti gli strumenti online disponibili, nell’approccio omnicanale, nelle nuove tecnologie e nell’analisi dei dati dei clienti. La trasformazione digitale è soprattutto organizzativa: ecco come il CMO può orientare l’azienda al cliente e ottenere risultati di successo

Ancora oggi per molti marketing manager e imprenditori il Digital Marketing, o Web marketing, significa banalmente gestire il sito web o la pagina Facebook dell’azienda. È una visione semplicistica e superata. Senza necessariamente dotarsi delle più sofisticate tecnologie disponibili sul mercato, ogni azienda può trarre molti vantaggi dal Digital Marketing, che è davvero imprescindibile per crescere, perché i percorsi d’acquisto (i customer journey) sono ormai per la gran parte su Internet, e questo accade in ogni mercato, consumer o business-to-business (B2B). Il marketing è diventato un tassello fondamentale per la digital transformation, ed è importante chiarire di cosa si tratta.

I 5 pilastri per fare Digital Marketing
Il digital marketing in definitiva consiste nel creare relazioni efficaci fra i consumatori e le aziende, non solo per raggiungerli e convincerli ma anche per ascoltare e imparare e da loro, rispondendo a commenti e richieste. Ciò avviene attraverso modalità diversi, riassumibili in 5 elementi chiave:

1 Digital device. Per interagire gli utenti utilizzano smartphone, tablet, pc, TV, per accedere a siti web e app

2 Digital platform. La maggior parte delle interazioni avviene tramite un browser o una app che si raggiungono a partire dalle più note piattaforme e servizi: Facebook e Instagram, Google e Youtube, Twitter e Linkedin.

3 Digital media. Si possono utilizzare diversi canali, dell’azienda o a pagamento, per raggiungere e ingaggiare i clienti, con advertising, e mail e messaggi, motori di ricerca e social network.

4 Digital Data. Raccogliere e analizzare i dati è fondamentale e complesso, anche per la necessità di rispettare le normative sulla data protection, e in particolare il GDPR entrato in vigore in Europa quest’anno. Per questa attività cruciale vengono in aiuto le tecnologie per le DMP (Data Management Platform), sempre più utilizzate.

5 Digital Technology. L’ultimo e fondamentale tassello è quello delle tecnologie marketing (martech) che agevolano la creazione delle esperienze interattive dei siti e delle app, e aiutano a segmentare le audience, creare campagne mirate e aumentare i tassi di conversione.

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Le 4 fasi del Digital Marketing
Sinteticamente si possono individuare quattro fasi fondamentali che corrispondono ad altrettanti obiettivi degli specialisti del digital marketing.

React: raggiungere i potenziali clienti, con una strategia di acquisizione mirata a creare awareness on line e off line e veicolare verso i canali web dell’azienda. Fra le tecniche utilizzate in questo ambito figurano il SEO (Search Engine Optimization), l’online advertising, le Public Relations, il social media marketing.
Act: intraprendere azioni verso i prospect mirati alla conversione
Convert: trasformare i prospect in clienti, ovvero raggiungere gli obiettivi di marketing in termini di lead e vendite, online e off line. Queste due fasi sono legate e richiedono l’analisi del customer journey, le attività di content marketing e lead nurturing, l’uso di tecnologie di marketing automation e le tecniche di ottimizzazione dei tassi di conversione delle landing page. Definire i KPI del Marketing, ovvero le metriche per la misurazione delle performance, è fondamentale. Per monitorare i siti e l’eCommerce (ovvero per la Web Analytics) si utilizzano numerosi tool, molti gratuiti.
Engage: creare una stretta relazione con i clienti, creare fedeltà (retention), creare una fan base e stimolare acquisti ripetitivi. In questa fase è importante avere messo a punto una soluzione di Customer Onboarding.

Mobile Marketing
Il mobile marketing comprende quelle attività di marketing multicanale destinate a raggiungere il pubblico direttamente su dispositivo mobile come smartphone e tablet. Si avvale di strumenti come Siti Web Responsive (ottimizzati per la navigazione da mobile), localizzazione GPS, SMS, social media e apps. È una pratica fondamentale per una strategia di marketing di successo: dal 2016, la percentuale di italiani collegata ad internet tramite dispositivi mobile sta costantemente aumentando a discapito dei collegati via desktop.
L’arena del digital marketing è un oceano pieno di pesci ed in principio può risultare difficile impostare e coordinare le attività in modo da spiccare rispetto ad altri competitors. Se hai trovato l’articolo interessante e stai pensando di scendere nel campo del digital marketing, abbiamo pensato a una guida gratuita che puoi scaricare gratuitamente a questa pagina. Non sai da dove iniziare? Non esitare a contattarci! Insieme svilupperemo una strategia digital adatta alle tue esigenze.

11 Set 2019

Il fenomeno degli Hikikomori

Il fenomeno degli Hikikomori

“Hikikomori” è un termine giapponese che significa letteralmente “stare in disparte” e viene utilizzato generalmente per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi anni), rinchiudendosi nella propria camera da letto, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno. È un fenomeno che riguarda principalmente giovani tra i 14 e i 30 anni e di sesso maschile, anche se il numero delle ragazze isolate potrebbe essere sottostimato dai sondaggi effettuati finora.

Al momento in Giappone ci sono oltre 500.000 casi accertati, ma secondo le associazioni che se ne occupano il numero potrebbe arrivare addirittura a un milione (l’1% dell’intera popolazione nipponica). Si tratta dunque di un fenomeno incredibilmente vasto, eppure in pochi ne hanno sentito parlare, soprattutto al di fuori del Giappone. Anche in Italia l’attenzione nei confronti del fenomeno sta aumentando. L’hikikomori, infatti, sembra non essere una sindrome culturale esclusivamente giapponese, come si riteneva all’inizio, ma un disagio sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo.

Le cause possono essere diverse:

  • caratteriali: gli hikikomori sono ragazzi spesso intelligenti, ma anche particolarmente introversi e sensibili. Questo temperamento contribuisce alla loro difficoltà nell’instaurare relazioni soddisfacenti e durature;
  • familiari: l’assenza emotiva del padre e l’eccessivo attaccamento con la madre sono indicate come possibili cause, soprattutto nell’esperienza giapponese;
  • scolastiche: il rifiuto della scuola è uno dei primi campanelli d’allarme dell’hikikomori. L’ambiente scolastico viene vissuto in modo particolarmente negativo. Molte volte dietro l’isolamento si può nascondere una storia di bullismo;
  • sociali: gli hikikomori hanno una visione molto negativa della società e soffrono particolarmente le pressioni di realizzazione sociale dalle quali cercano in tutti i modi di fuggire.

Hikikomori-Italia---Chi-sono-gli-hikikomori

Tutto questo porta a una crescente difficoltà e demotivazione del ragazzo nel confrontarsi con la vita sociale, fino a un vero e proprio rifiuto della stessa. Anche la dipendenza da internet viene spesso indicata come una delle principali responsabili dell’esplosione del fenomeno, ma non è così: essa rappresenta una conseguenza dell’isolamento, non una causa.

Molti hikikomori ritengono di non avere alcun problema e ripetono di voler essere lasciati in pace. Questo atteggiamento di rifiuto porta inevitabilmente a continui conflitti con i genitori che, invece, vorrebbero vedere il figlio condurre una vita diversa, una vita “come quella dei coetanei”. I genitori più determinati, dopo lunghe battaglie, riescono a convincere i figli a recarsi da uno psicologo, ma i percorsi psicoterapeutici possono rivelarsi inconcludenti quando non vi è una reale motivazione intrinseca da parte degli hikikomori a cambiare il proprio stato. Spesso, chi accetta di essere seguito da un professionista lo fa solamente per “fare contenti gli altri” e per far cessare le pressioni dei famigliari.

Il punto principale è che gli hikikomori spesso sottostimano gravemente l’impatto che la propria scelta avrà sul loro benessere futuro. Lo sottostimano o, semplicemente, evitano di pensarci, non gli importa. Fuori sto male, dentro sto meglio. Da un certo punto di vista è un ragionamento logico, lineare, sensato. Il trionfo del “qui e ora”. Ma il diritto che ognuno ha di vivere la propria vita come meglio crede cessa nel momento in cui la propria scelta grava sulle spalle di altri.

11 Set 2019

Il mobbing

Il mobbing

Con il termine “mobbing” si fa riferimento, in generale, all’insieme dei comportamenti persecutori che tendono a emarginare un soggetto dal gruppo sociale di appartenenza, tramite violenza psichica protratta nel tempo e in grado di causare seri danni alla vittima.

Non esiste un criterio specifico per individuare le azioni che possono far configurare un caso di mobbing. In linea di massima, assume rilievo ogni forma di angheria perpetrata da una o più persone nei confronti dell’individuo più debole: ostracismo, umiliazioni pubbliche e diffusione di notizie non veritierie.
Sono esempi di mobbing lo svuotamento delle mansioni tale da rendere umiliante il prosieguo del lavoro, i continui rimproveri e richiami espressi in privato ed in pubblico anche per banalità, l’esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo, oppure l’esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale, la mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata o, l’interrompere o impedire il flusso di informazioni necessari per l’attività (chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull’accesso a internet).
Per poter parlare di mobbing sul lavoro, l’attività persecutoria deve durare più di 6 mesi e deve essere funzionale alla espulsione del lavoratore, nonché causa di una serie di ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie (disturbo da disadattamento lavorativo, disturbo post-traumatico ad andamento cronico.

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Tipologie di mobbing

Esistono diversi tipi di mobbing, ecco qui di seguito alcuni esempi e tipologie:

Mobbing dal basso o down-up: Il mobber è in una posizione inferiore rispetto a quella della vittima. Accade quando l’autorità di un capo viene messa in discussione da uno o più sottoposti, in una sorta di ammutinamento professionale generalizzato. I casi di mobbing dal basso sono comunque abbastanza rari, in Italia la percentuale è minore del 10%.
Mobbing gerarchico: Il mobber è in una posizione superiore rispetto alla vittima: un dirigente, un capo reparto, un capufficio. Questo tipo di mobbing comprende tutti quegli atteggiamenti riconducibili alla tematica dell’abuso di potere, cioè dell’uso eccessivo, arbitrario o illecito del potere che un ruolo professionale implica.
Bossing o mobbing strategico: l’attività è condotta da un superiore al fine di costringere alle dimissioni un dipendente in particolare, ad es. perché antipatico, poco competente o poco produttivo; in questo caso, le attività di mobbing possono estendersi anche ai colleghi, che preferiscono assecondare il superiore, o quantomeno non prendere le difese della vittima, per non inimicarsi il capo. E’ prassi frequente nelle imprese che hanno subito ristrutturazioni, fusioni, cambiamenti che abbiano comportato un esubero di personale difficile da licenziare.
Mobbing orizzontale: è quello praticato da parte dei colleghi verso un lavoratore non integrato nell’organizzazione lavorativa per motivi d’incompatibilità ambientale o caratteriale, ad es. per motivi etnici, religiosi, sessuali etc.

 

Patolgie della vittima
Questo odioso fenomeno del mobbing, può rappresentare per la vittima un grave problema, non solo lavorativo ma anche sociale e familiare e, soprattutto può avere gravi ripercussioni sulla salute: la patologia psichiatrica più frequentemente associata al mobbing è il disturbo dell’adattamento; esso si compone di una variegata sintomatologia ansioso-depressiva come reazione all’evento stressogeno.

Fra le conseguenze rientrano la perdita d’autostima, depressione, insonnia, isolamento. Inoltre il mobbing è causa di cefalea, annebbiamenti della vista, tremore, tachicardia, sudorazione fredda, gastrite, dermatosi. Le conseguenze maggiori sono i disturbi della socialità: nevrosi, depressione, isolamento sociale e, suicidio in un numero non trascurabile di casi.
In Italia il numero di vittime del mobbing è stimato intorno a 1 milione e 200 mila, con prevalenza tra i quadri e i dirigenti, più che altro nel settore pubblico e in quello dei servizi. Negli ultimi dieci anni i casi di mobbing denunciati hanno avuto un incremento esponenziale. Non dimentichiamo poi che proprio per i suoi effetti, il mobbing ha un forte costo sociale, stimato in circa il 190% superiore al salario annuo lordo di un dipendente non mobbizzato

Mobbing sul lavoro come difendersi
Trasportando questi principi (che poi sono i principi cardine del diritto penale) in tema di mobbing, dobbiamo chiederci: la compromissione dell’integrità psicofisica del lavoratore è riconducibile ad una condotta colposa del datore di lavoro, ovvero ad una condotta dolosa, intenzionalmente e consapevolmente orientata a produrre quel danno in capo al prestatore di lavoro?

Pertanto il mobbing potrà sfociare in reati quali ingiuria (offesa all’onore e al decoro) o di diffamazione (offesa della reputazione pubblica) previsti dal codice penale e sanzionati come delitti contro l’onore. Ma anche in reati di lesione a seconda degli effetti che tali azioni hanno sull’individuo che le subisce: gli abusi lavorativi vengono di fatto equiparati a lesioni personali colpose. Possono giungere addirittura ad integrare ipotesi di omicidio colposo (art.589 c.p.) quando il datore di lavoro determini o rafforzi per colpa nel lavoratore mobbizzato, con la sua condotta reiteratamente vessatoria e/o ingiustificatamente discriminatoria e di emarginazione, una propensione suicidiaria, o reati di molestia e così via.


 

04 Set 2019

La nuova forma dell’isolamento sociale: Il fenomeno del phubbing

La nuova forma dell’isolamento sociale: Il fenomeno del phubbing

Cos’è il phubbing?

Il phubbing, ovvero ignorare gli altri durante interazioni sociali per dedicarsi invece al proprio smartphone, anche se considerato un comportamento normativo, ha un impatto sulla qualità della comunicazione e porta a sentimenti di isolamento ed esclusione. Il termine unisce le parole “phone” e “snubbing”. Gli attori di questo fenomeno sono due:

  • Il phubber è colui che snobba gli altri;
  • Il phubbee è colui che ne subisce le conseguenze vedendosi ignorato.

Per alcuni può essere così irritante che dal 2013 è online la campagna Stop Phubbing nata per prendere in giro i ‘maniaci del telefonino’ e non solo, infatti sul sito è possibile rispondere ad alcune domande e prendere parte a dei sondaggi oltre a poter scaricare brochure e volantini ironici sul tema. Ignorare gli altri ci porta nel migliore dei casi ad essere distratti ma anche a volte all’isolamento vero e proprio.

La ricerca:

Chotpitayasunondh e Douglas (2018) hanno investigato il tema per comprendere meglio gli effetti del phubbing sugli esiti dell’interazione sociale. La loro ricerca conferma che l’esperienza di phubbing ha un impatto negativo e abbassa il tono dell’umore riducendo la qualità della comunicazione e del rapporto perché va a intaccare gli stessi bisogni che vengono minacciati quando le persone si sentono socialmente escluse: bisogno di appartenenza, di autostima, di attribuzione di significato e controllo, portando a un vissuto di ostracismo e isolamento. Siamo tutti sempre, perennemente agganciati al nostro smartphone. Fa parte della nostra vita quotidiana, un accessorio ed uno strumento di cui non possiamo più fare a meno. Se ci guardiamo intorno ad una festa o una serata tra amici non faremo fatica a scorgere ben più di una persona china sul telefono e probabilmente non ci sembrerà per nulla strano.

Secondo gli stessi autori sono proprio falso consenso, reciprocità e frequenza che rendono il phubbing un comportamento percepito come normativo e non dannoso. Infatti, può accadere che gli individui sovrastimino la diffusione di idee o comportamenti percependo quindi un consenso molto più ampio del reale; a questo si aggiunge che chi subisce il phubbing a sua volta lo attua passando spesso e fluidamente dall’essere protagonista all’essere destinatario di questo comportamento in un circuito che si autoalimenta: il phubber diventa phubbee e viceversa, incrementando la frequenza e la reciprocità del comportamento e ampliando l’effetto del falso consenso, in un circolo vizioso. Che sia normativo o no, l’esperienza di sentirsi invisibili ed esclusi dall’interazione sociale porta a vissuti di depressione, ansia, rabbia, solitudine determinando di fatto esclusione e impoverimento delle risorse dell’individuo; il phubbing è una nuova modalità di isolamento sociale e come tale non ne vanno trascurate le possibili conseguenze negative.

Il costante bisogno di essere aggiornati e comunicare al mondo quello che ci accade può essere un modo interessante di condividere, ma non bisogna dimenticarsi che alla base di ogni interazione c’è la comunicazione, quella verbale, semplice, capace di rendere una pausa caffè un po’ meno tecnologica e più “umana”.

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