11 Mag 2022

Psicologia e Videogioco: perché giochiamo e cosa i videogame dicono di noi

Psicologia e Videogioco: perché giochiamo e cosa i videogame dicono di noi

È vero che i videogiochi aumentano il rischio di sviluppare una dipendenza? Chi ci gioca tende all’isolamento?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha deciso di inserire il Gaming Disorder, ovvero la dipendenza da videogiochi, nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5); tuttavia la stessa ha anche lanciato nel 2020 la campagna #PlayApartTogheter, per promuovere le relazioni sociali tramite il videogioco online mantenendo il distanziamento fisico.
Numerosi studi hanno inoltre dimostrato che il tempo speso videogiocando non è un termometro della dipendenza dei giocatori.

Secondo gli studiosi, è il tipo di motivazione per cui giochiamo a fare la differenza:

Se giochiamo per il solo piacere di sperimentare l’esperienza di gioco (motivazione intrinseca), ciò ci fa stare bene, perché soddisfa bisogni psicologici quali socializzazione, autonomia e competenza;
ma può anche arrivare a generare un disagio nel proprio contesto sociale. In tal caso, infatti, l’abuso del gioco può diventare una strategia di compensazione, ovvero una sorta di modo per “consolarsi”.

L’effetto della motivazione estrinseca sul benessere avviene, invece, quando si gioca per raggiungere un obiettivo esterno, come fare punti o ottenere ricompense. Anche in questi casi ciò può portare a sviluppare diverse forme di disagio.

Inoltre, il campanello di allarme non è rappresentato da sintomi specifici, quanto piuttosto da come ci sentiamo durante l’esperienza: se continuiamo a giocare ma il gioco non ci dà più piacere, è un indicatore di rischio (e non necessariamente sintomo di dipendenza). In tal caso servono consapevolezza e maturità, fermarsi e farsi delle domande; e se un adulto può arrivarci individualmente, bambini e ragazzi andrebbero invece supportati.

Quali sono i benefici?

Il gioco può anche essere funzionale al raggiungimento del benessere così come al miglioramento delle capacità di socializzazione e all’apprendimento. Esso è infatti usato a scuola per promuovere l’empatia e l’apprendimento socio-emotivo; in alcuni casi funge perfino da mezzo terapeutico per il deficit di attenzione e iperattività (ADHD) in età pediatrica o per potenziare le capacità cognitive. Tuttavia, la letteratura evidenzia che in tutti questi casi è cruciale giocare per motivazione intrinseca in modo da poter godere a pieno di tali benefici.

Il Potere dell’Immedesimazione e il Coinvolgimento Emotivo
Secondo la Teoria della Gestione dell’Umore di Zillmann, il modo in cui usiamo i mezzi di intrattenimento rappresenta una strategia efficace per ripristinare l’equilibrio psicologico, quando siamo arrabbiati, tristi o annoiati.

Identificarsi con un protagonista di un videogioco che rappresenta un modello, ad esempio, può rafforzare l’autostima; dopo decine di ore di gioco avviene infatti un lungo e costante processo di apprendimento che agisce anche al livello emotivo.

In Conclusione

A differenza di libri o film, nel videogioco si è al centro dell’esperienza come protagonista interattivo, cioè partecipe. La nostra soggettività ci può far sentire un forte coinvolgimento anche nei film o durante la lettura, tuttavia l’impegno richiesto è diverso.
Videogiocare richiede un impegno di energie fisiche, emotive e cognitive, non tutti sono disposti a farlo. Dall’esterno, videogiocare può apparire più stancante di guardare video online, ma in realtà è più spesso rigenerativo in termini di energie.

 

20 Apr 2022

Vita da espatriati: affrontare nuove sfide

Vita da espatriati: affrontare nuove sfide

Secondo dati recenti, il numero di persone che si trasferiscono in un’altra nazione per motivi lavorativi è in continuo aumento. Queste persone, definite come “espatriati”, decidendo di allontanarsi dal proprio paese d’origine, abbandonano la loro comfort zone e accettano di dover affrontare nuove sfide. Inoltre, tale processo di cambiamento spesso provoca nelle stesse un forte senso di disorientamento che sfocia nel cosiddetto “shock culturale” a cui segue, una volta superato, un processo di adattamento.

Quali sono le cause che spingono ad allontanarsi dal proprio paese d’origine?

La scelta di accettare un incarico all’estero e dunque di emigrare in maniera stabile, lasciandosi alle spalle il paese di origine, deriva da numerose cause esterne e considerazioni individuali.

Nonostante i numerosi fattori in gioco è possibile distinguere fondamentalmente due tipologie di cause relativamente a questo fenomeno: le cause di trazione e le cause di spinta. Nel primo caso, un individuo può riconoscere caratteristiche stimolanti nella nuova nazione e nella rispettiva cultura tali da spingerlo a vivere questa nuova esperienza, nel secondo caso, invece, possono esserci fattori della cultura di appartenenza o dell’ambiente lavorativo attuale che lo spingono ad allontanarsi a cercare un altro contesto.

Tipicamente, l’individuo spinto da cause di trazione riuscirà a adattarsi più facilmente al nuovo contesto rispetto all’espatriato che ha agito per cause di spinta.

Lo shock culturale

Uno dei maggiori ostacoli che gli espatriati devono superare è il confronto con una cultura diversa da quella d’origine. Come sottolineato precedentemente, sentimenti quali il disorientamento, sono molto comuni e possono essere molto difficili da gestire. Tutto ciò spesso si traduce nel cosiddetto “shock culturale”.

Individuiamo cinque aspetti che caratterizzano tale vissuto:

  • Tensione causata dallo sforzo richiesto per ottenere il necessario adattamento psicologico;
  • Senso di perdita, sentimenti di deprivazione riguardo gli amici, status sociale e professionale;
  • Sensazione di sentirsi rifiutato o rifiutare la nuova cultura;
  • Senso di confusione riguardo alla mansione lavorativa;
  • Sentimenti di impotenza, di incapacità nell’adattamento al nuovo ambiente.

Non possiamo inoltre ignorare le forti sfide che l’espatriato deve affrontare dal punto di vista linguistico, dovute alle differenze comunicative, verbali e non verbali.

Dallo shock culturale possono derivare ansia e confusione dovute al nuovo lavoro, fino al momento in cui l’individuo riesce ad appropriarsi e a recepire le tecniche e abilità necessarie per il nuovo impiego.

Il processo di adattamento

Superata una prima fase di “shock culturale”, ne segue un’altra di adattamento e acculturazione al nuovo contesto.

Possiamo individuare cinque diversi fattori che caratterizzano questa fase:

  • L’esperienza nuova di confrontarsi con una cultura diversa tende ad essere tanto più difficile quanto più la cultura differisce dalla propria;
  • Il modo, positivo o negativo, in cui gli individui percepiscono il significato delle esperienze culturali;
  • Le modalità in cui gli individui si impegnano nelle strategie di coping per gestire le situazioni problematiche, se questo non accade possono subentrare ansia e forte tensione;
  • Il livello di adattamento psicologico dell’individuo alla cultura del paese ospitante.

Le esperienze culturali, che gli espatriati hanno modo di vivere durante il loro periodo di permanenza all’estero, possono differenziarsi nel significato che gli viene attribuito. Sono rilevanti i sentimenti pre-partenza degli espatriati, il modo di affrontare le situazioni nuove e sconosciute, dovute alla tendenza dell’individuo di avvicinarle o evitarle.

Influiscono anche le risposte degli espatriati ai segnali sociali ambigui che provengono dal paese ospitante, la modalità in cui vengono percepiti ed elaborati.

Si può superare lo shock culturale, arrivando alla fase di adattamento alla nuova cultura, grazie alla comprensione dei valori altrui, non basta individuare e rispettare le differenze culturali, bisogna costruire un clima accogliente, fondato sulla reciprocità, la diversità può e deve essere fonte di arricchimento reciproco.

In conclusione

La vita degli espatriati è certamente piena di ostacoli (culturali, psicologici e sociali), chi intraprende un percorso di questo tipo vive un costante senso di incertezza ma anche una profonda crescita personale e professionale. Vive un iniziale stato di disorientamento, vede venir meno i suoi principi e le sue credenze (anche lavorative), affacciandosi ad una cultura completamente nuova. Tuttavia, superata una fase iniziale di shock culturale e attuando adeguate strategie di coping, l’esperienza lavorativa all’estero può essere una grande opportunità per arricchirsi dal punto di vista culturale, sociale e lavorativo.

06 Apr 2022

Come la gratitudine guida la nostra vita

Come la gratitudine guida la nostra vita

In un periodo difficile dal punto di vista sociale ed economico riuscire ad esprimere pensieri ed emozioni positivi diventa fondamentale per la salvaguardia della propria salute e del proprio benessere mentale. In questo senso il sentimento di gratitudine diventa un nostro potente alleato.

La gratitudine è una delle “emozioni empatiche” che affondano le loro radici nella capacità di entrare in sintonia con gli altri e possiede una forte componente relazionale. Se praticata con costanza essa può rendere la nostra vita più serena a livello individuale e sociale portando di conseguenza a benefici emotivi e cognitivi.

Il legame tra gratitudine e benessere

La gratitudine oltre ad essere un sentimento spontaneo basato su empatia e consapevolezza di sé, è un atteggiamento mentale che ci aiuta a vedere il lato positivo nella vita di ogni giorno. È bene specificare che la “vera” gratitudine non ha nulla a che fare con il sentirsi in dovere di ricambiare un favore o con il semplice ringraziare qualcuno per un regalo ricevuto. Essa si configura come la capacità di riuscire ad apprezzare la nostra vita in ogni momento, anche quando ci sono “giornate no” in cui tutto sembra andare storto.

Ed è proprio superando gli imprevisti più o meno grandi della vita, che si riuscirà ad essere “grati”, sviluppando, allo stesso tempo, capacità di coping e di flessibilità di fronte a situazioni sconosciute.

Vari studi hanno individuato diverse possibili relazioni tra benessere e gratitudine:

uno degli effetti benefici più evidenti di questo sentimento è quello di migliorare le capacità di adattamento allo stress.

Infatti, chi è grato tende a riflettere di più sulle proprie circostanze di vita (soprattutto sugli aspetti positivi), e per tale ragione, riesce ad affrontare più efficacemente gli eventi di vita stressanti, sia acuti che cronici. Inoltre, chi manifesta gratitudine riduce la quantità e l’impatto delle emozioni tossiche derivanti dai confronti sociali. Nello specifico, una persona che prova gratitudine sperimenta meno invidia per chi vive in condizioni sociali migliori e riesce, di conseguenza, anche ad apprezzare meglio ciò che la vita gli offre.

La gratitudine migliora anche l’autostima. Ricevere riconoscimenti dalle persone verso le quali si mostra gratitudine è infatti una strategia per migliorare la propria concezione di sé e che permette anche di facilitare il raggiungimento dei propri obiettivi personali e sociali.

I benefici a livello terapeutico

A livello pratico esistono vari metodi che, basandosi sull’utilizzo della gratitudine, portano benefici significativi nella vita di chi li utilizza.

Un metodo efficace a livello terapeutico può essere quello di scrivere un diario in cui ci si annota tutto ciò per cui si è grati settimanalmente o anche giornalmente (“diario della gratitudine”). Ad esempio, il terapeuta può chiedere al paziente di stilare un elenco di cinque cose che gli suscita gratitudine con cadenza costante. In alternativa, si può semplicemente incoraggiare il paziente a riflettere su semplici eventi quotidiani che possono provocare gioia, semplici eventi su cui si potrebbe non aver dedicato la giusta attenzione come, ad esempio, avere una piacevole conversazione con uno sconosciuto.

La gratitudine può anche essere praticata senza scrivere un diario; gli psicologi possono chiedere ai loro pazienti di scegliere un oggetto dotato di significato (ad esempio una pietra, un portafortuna ecc.); i pazienti, quindi, portano questo oggetto con sé, e ogni volta che vedono l’oggetto lo utilizzeranno come promemoria per concentrarsi sulle cose per le quali sono grati.

Esistono anche metodi alternativi:

La metodologia Naikan creata da Ishin Yoshimoto, per esempio, è una tecnica giapponese sviluppata per stimolare l’auto-riflessione. La tecnica differisce dagli interventi tradizionali in quanto mira ad ampliare la consapevolezza dei pazienti sui loro rapporti morali con gli altri: per 20 minuti al giorno, il paziente si concentra su tre domande: “Cosa ho ricevuto dalle persone oggi?” “Che cosa ho dato agli altri?” e “Quali problemi e difficoltà ho causato agli altri?”. Al centro della tecnica Naikan vi è una crescente consapevolezza dei molti benefici che si ricevono nell’instaurare rapporti con gli altri. Coloro che praticano questa metodologia riferiscono che la tecnica effettivamente li aiuta a riconoscere il valore delle relazioni interpersonali.

Un altro metodo innovativo è il “benefits finding”, tecnica che consiste nella capacità di valorizzare gli aspetti positivi di un’esperienza anche nelle avversità, come malattie o traumi. Questa tecnica aiuta a superare gli effetti avversi associati a drammi personali in maniera significativa permettendo di scorgere “l’altro lato del trauma”, ovvero cogliendo quelli che sono gli aspetti positivi di una esperienza che, seppur negativa, può essere la base per un momento di crescita personale. Numerosi studi hanno suggerito che questa tecnica si rivela molto utile anche in situazioni di vita quotidiana non eccessivamente traumatiche. Ad esempio, se una persona deve trasferirsi controvoglia in un’altra città, un terapeuta può incoraggiare il paziente a considerare come ciò potrebbe portare benefici non previsti come, ad esempio, una maggiore libertà, oppure l’opportunità di trascorrere più tempo con la propria famiglia.

Perché una scrittura basata sul sentimento di gratitudine può farti stare meglio

Come già evidenziato precedentemente, la scrittura è uno strumento molto utile per esprimere al meglio i propri sentimenti. L’attività di scrittura innesca infatti molti effetti positivi in chi scrive.

In uno studio caposaldo della letteratura, è stato dimostrato che scrivere, includendo un maggior numero di parole positive rispetto a quelle negative, produce un effetto positivo sui partecipanti. Partendo da questi presupposti è stato evidenziato che scrivere e parlare di un giorno felice incrementa le emozioni positive di una persona per le quattro settimane successive.

Altre ricerche, hanno constatato che riflettere sulla gratitudine, utilizzando la scrittura o una forma di conversazione organizzata, influenza notevolmente il benessere. È stato verificato che scrivere una lettera di gratitudine, rivolta ad un proprio caro o persino a Dio incrementa l’umore positivo che aumenta al variare del livello di gratitudine.

In conclusione

La gratitudine è un sentimento che caratterizza le nostre vite e, anche se in alcune circostanze non emerge in maniera definita, permette di relazionarci con gli altri e instaurare relazioni sociali profonde.

In un periodo difficile e caratterizzato da continui cambiamenti come quello che stiamo vivendo, riuscire a trovare spazio nella nostra vita per sentimenti come la gratitudine può darci un senso di stabilità e fiducia verso gli altri e verso il futuro.

23 Mar 2022

LA CONCILIAZIONE TRA LAVORO E FAMIGLIA

LA CONCILIAZIONE TRA LAVORO E FAMIGLIA

L’intreccio tra lavoro e famiglia delinea un tema di particolare interesse per gli studi psicologici, soprattutto se si considerano i cambiamenti legati alla maggiore partecipazione delle donne al mondo del lavoro.

Inoltre, le trasformazioni legate alle nuove tecnologie rendono sempre più sottile la linea che divide il lavoro dal resto della vita in quanto, da un lato, queste ultime permettono di rispondere prontamente alle responsabilità e richieste lavorative, dall’altro, le stesse possono essere percepite come intrusive dal lavoratore e potrebbero invadere la vita privata, anche al di fuori delle ore lavorative prestabilite.

A tal proposito, Rosabeth Moss Kanter, scienziata e scrittrice sociale americana, ha il merito di aver avviato un filone di studi che considera i due mondi come non più separati, aprendo così la strada all’idea di poter conciliare i diversi ruoli, cogliendo, in tal senso, le opportunità di arricchimento reciproche offerte da ciascuno di essi.

Ma cosa genera il conflitto Lavoro-Famiglia?

Possiamo considerare il conflitto lavoro-famiglia come “una forma di conflitto inter-ruolo in cui le pressioni di ruolo dal dominio del lavoro e da quello della famiglia sono mutamente incompatibili. La partecipazione al ruolo lavorativo è infatti resa più difficile dalla partecipazione al ruolo familiare e viceversa (Greenhaus e Beutell, 1985).

Il conflitto lavoro-famiglia trova origine nella teoria del ruolo e nell’ipotesi del role strain. Nello specifico, il sociologo William Goode ritiene che adempiendo a diversi ruoli possa nascere una tensione tra gli stessi, a cui segue la difficoltà di portare a termine i rispettivi obblighi di ciascun ruolo. Gli individui cercano di adempiere ai compiti che derivano dai diversi ruoli in modo ottimale, impegnandosi e mettendo in atto strategie che richiedono continui compromessi e processi di contrattazione.

Il costrutto è bidirezionale in quanto l’individuo può avvertire un maggiore conflitto nella direzione lavoro-famiglia o viceversa. Il conflitto può essere dunque sia reciproco che asimmetrico (ad esempio, nel caso in cui la persona percepisce che il proprio lavoro invade la vita familiare ma non il contrario).

Generalmente, però, gli individui dichiarano di percepire un maggiore conflitto nella direzione lavoro-famiglia, e ciò può essere causa di un’insoddisfazione sul posto di lavoro e, di conseguenza, una delle possibili determinanti dell’assenteismo e dell’intenzione di cambiare impiego.

Il modello dello spillover

Il modello dello spillover considera la permeabilità dei due mondi non solo in termini negativi, ma anche, secondo un’accezione positiva, nei termini di sentimenti, abilità, valori e comportamenti che da un contesto tendono a scivolare nell’altro, portando di fatto ad un arricchimento bidirezionale dei due mondi (lavoro-famiglia e viceversa). Vengono dunque individuati i vantaggi che derivano dalla partecipazione ai diversi ruoli, visti ora come fonte di arricchimento per l’individuo, e gli aspetti positivi che influenzano quest’ultimo, aiutandolo così a raggiungere il benessere individuale.

In sintesi, si inizia a considerare la relazione lavoro-famiglia in termini positivi, passando da un clima caratterizzato da stress, conflitti e compromessi, ad un clima che coglie il coinvolgimento e l’arricchimento che deriva dall’unione dei due mondi.

Cosa intendiamo per equilibrio? (Work-family balance)

Quando si parla di equilibrio (balance), si tende a considerare quest’ultimo semplicemente come assenza di conflitto. Tendiamo infatti a credere che una riduzione di conflitto lavoro-famiglia coincida con un maggiore equilibrio. Tuttavia, questa posizione non è del tutto condivisibile in quanto l’equilibrio è uno stato psicologico significativamente diverso dall’assenza di conflitto. È dunque importante fare una distinzione tra i due concetti, perché i meccanismi che riducono il conflitto non necessariamente promuovono l’equilibrio.

In termini di ricerca, la prospettiva situazionalista risulta la più consona in quanto considera l’equilibrio come strettamente dipendente dalle situazioni; difatti, essa coglie la variabile contestuale e non riduce la complessità del costrutto di work-family balance, anzi ne evidenzia la sua particolarità e considera con attenzione la situazione specifica che l’individuo sta vivendo così da poter individuare i suoi bisogni e attuare strategie adeguate alle diverse situazioni.

Quali strategie si possono attuare per promuovere la conciliazione tra i due mondi?

L’organizzazione ha indubbiamente un ruolo fondamentale nel sostenere la conciliazione tra lavoro e vita privata. Se essa decide di adottare un approccio family-friendly, allora dovrà necessariamente prevedere programmi che offrano sostegno al dipendente, soluzioni su misura e che prendano in considerazione le differenze individuali.

Le strategie a sostegno del dipendente possono riguardare diversi livelli di intervento:

  • strategie basate sull’orario (orario flessibile, lavoro part-time, permessi per i neogenitori);
  • strategie basate sull’informazione (servizi/sportelli di documentazione, assistenza e supporto, siti web lavoro-vita che offrono informazioni e forum di scambio);
  • strategie economiche (buoni/convenzioni, assicurazione sanitaria, facilitazioni per i prestiti);
  • servizi diretti (asili aziendali, centri benessere/palestre interni all’azienda, sostegno per le emergenze);
  • strategie di cambiamento culturale (formare manager e supervisori a sostenere e comprendere le esigenze dei loro collaboratori in termini di conciliazione).

L’obiettivo dei programmi family-friendly è la conciliazione lavoro-famiglia attraverso la promozione e il sostegno dell’equilibrio dei due mondi, ciò al fine di permettere all’individuo di ottenere riscontri positivi (piuttosto che negativi) da entrambe le direzioni.

09 Mar 2022

Gli scenari lavorativi post-pandemia

Gli scenari lavorativi post-pandemia

La pandemia da covid-19 oltre ad aver inciso sul piano sanitario ha portato dei cambiamenti sul piano sociale ed economico che caratterizzeranno la nostra vita in maniera sostanziale. Questi cambiamenti inevitabilmente stanno modificando anche il mondo del lavoro.

Inoltre, Le conseguenze di questa crisi, al livello aziendale, non porteranno a conseguenze negative al livello finanziario, ma coinvolgeranno certamente anche dinamiche aziendali interne ed esterne. Occorrerà dunque prepararsi ad apportare un cambiamento di paradigma nella gestione del contesto organizzativo post crisi. Infatti, i processi di ristrutturazione e riorganizzazione che diventeranno presto necessari, così come le nuove necessità dei dipendenti, non hanno precedenti storici recenti.

Per alcune organizzazioni, così come per alcuni lavoratori, potrebbe sembrare semplice tornare all’organizzazione aziendale e del lavoro pre-pandemia, per altri potrebbe invece essere terribile; tuttavia, nonostante queste differenze bisogna considerare che il mondo è invariabilmente cambiato e ciò pone di fronte a nuovi scenari caratterizzati da difficoltà così come nuove esigenze di crescita a cui è necessario rispondere.

Che impatto ha avuto la pandemia?

La crisi pandemica ha scatenato conseguenze negative su diversi livelli, tra cui quello sociale ed economico. Le misure restrittive adottate dal governo in questi due anni hanno causato la perdita di migliaia di posti di lavoro e ciò ha portato ad un aumento della disoccupazione e del tasso di povertà arrivando a livelli estremamente preoccupanti. La pandemia ha anche contribuito ad ampliare ulteriormente i gap (di genere e generazionale) che già caratterizzavano negativamente la nostra società prima del Covid. Nello specifico, nel 2020 il tasso di occupazione maschile è diminuito solo del 1,2%, a fronte di una diminuzione di quello femminile del 2,2% e di quello giovanile, sceso addirittura del 9%.

A tutto ciò va aggiunto l’enorme impatto psicologico negativo scaturito da questo periodo: secondo studi statistici una persona su quattro potrebbe soffrire di disturbo post traumatico da stress e anche chi non è stato colpito da sintomi psichici gravi è molto probabile che sia stato sottoposto ad un aumento di ansia, frustrazione o irascibilità. Un altro cambiamento psicologico importante è legato alla percezione del rischio, un processo cognitivo coinvolto in diverse attività quotidiane che orienta i comportamenti delle persone di fronte a decisioni che prevedono delle minacce potenziali, una sorta di valutazione soggettiva e spesso automatica riguardo a ipotizzabili costi e benefici di una certa situazione.

In questo scenario sono sempre di più le persone, ed i giovani in particolare, che risultano inattivi, e per le aziende diventa sempre più complicato proporsi come una istituzione in grado di offrire opportunità.

Cosa dovrebbero fare le aziende

In questa complicata situazione le aziende possono attuare interventi attivi con l’obiettivo di trasformare le criticità in punti di forza e poter usufruire di benefici a medio-lungo termine.

Per raggiungere tali obiettivi, occorre innanzitutto cambiare il concetto di sede di lavoro: l’ufficio non sarà più concepito solo come il luogo dove si va a lavorare, ma dovrà diventare sempre più un ambiente in cui le persone costruiscono relazioni, e grazie al quale imparano a lavorare meglio sentendosi anche liberi di esprimere i propri valori. Gli uffici serviranno quindi soprattutto come luogo per costruire una cultura organizzativa volta a favorire le connessioni umane anche con l’aiuto anche delle moderne tecnologie.

Un altro aspetto rilevante su cui poter intervenire è la promozione del benessere mentale tra i dipendenti. Prima della pandemia i lavoratori erano abituati a progettare la propria vita privata in funzione di quella lavorativa. Oggi invece la vera sfida è capire come il lavoro possa essere progettato tenendo conto della vita privata dei dipendenti e cercando di conciliare la sfera lavorativa con quella personale. L’obiettivo per i manager sarà infatti quello di sviluppare una leadership empatica cercando di soddisfare le esigenze lavorative e psicologiche dei dipendenti.

Nell’ottica di ripensare i luoghi di lavoro diventa importante anche la normalizzazione del lavoro a distanza. Spetta alle aziende, in questo senso, rendere lo smart working il più possibile efficace ed efficiente per tutti, attraverso l’utilizzo della tecnologia. Lavorare in modo ibrido, in parte da remoto e in parte in ufficio, può rivelarsi uno strumento utile per aumentare la flessibilità, caratteristica sempre più importante nella scelta di una professione.

Ma lo smart working è la soluzione definitiva?

Lo smart working proseguirà anche dopo la pandemia, sebbene in maniera ridotta. Secondo le stime, terminato lo stato di emergenza, tra il 20 e il 25% dei lavoratori potrebbe continuare a lavorare da casa fra i tre e i cinque giorni a settimana. Questo si tradurrebbe in significative conseguenze anche a livello geografico; infatti, sempre più persone lascerebbero le grandi città per spostarsi verso i centri più piccoli, più accessibili a livello di prezzi e di vita.

L’aspetto economico avrà infatti un ruolo importante: rispetto a chi è rientrato in ufficio full time, un lavoratore in smart working spenderà di più per quanto riguarda le spese di luce e gas, da aggiungere agli aumenti delle bollette dell’ultimo periodo. Se invece si considerano altre fonti di spesa che invece hanno subito riduzioni e che rientrano a pieno titolo tra i benefici dello smart working, come i costi ridotti di trasferimento, si comprende come il tema risulti essere molto articolato.

Non meno complessa è l’analisi degli aspetti psicologici: se da una parte vari sondaggi riportano come una buona percentuale di lavoratori preferisce rimanere in smart working anche in futuro, rinunciando anche ad una parte di stipendio, allo stesso tempo non bisogna pensare che tutto il lavoro svolto da remoto possa essere efficace e produttivo quanto quello in presenza.  Ad esempio, tutto ciò che riguarda la negoziazione e la comunicazione in situazioni delicate, il brainstorming o l’inserimento di nuovi dipendenti, rischia di perdere efficacia se svolto a distanza.

Le opinioni relative ai pro e contro dello smart working risultano contrastanti: sul piano organizzativo, per esempio, si ritiene che con tale modalità lavorativa sia aumentata la produttività, ma che allo stesso tempo siano peggiorati gli aspetti relativi a coordinamento e al rapporto tra colleghi; per quanto concerne la conciliazione tra tempi di lavoro e privati, più o meno si equivalgono i pareri di chi ritiene che lo smart working ne abbia migliorato il bilanciamento e chi invece sottolinea come sia più difficile “staccare”, con un complessivo aumento del carico di ore lavorative.

In conclusione

In sintesi, ormai si parla di una “nuova normalità”, lasciando intendere in questo modo che la pandemia non è stata solo un caso isolato, ma un banco di prova per situazioni che potremmo rivivere nei prossimi decenni. In tutto questo, la tecnologia è diventata quasi indispensabile, dato che ha reso possibile l’interazione sociale in mancanza della possibilità di stare insieme fisicamente e ha impedito un blocco a livello lavorativo. Ovviamente non è possibile ipotizzare una società senza socializzazione e senza uno spazio fisico per il coinvolgimento diretto, ma se guardiamo le cose in prospettiva, la direzione presa è quella di una vita sempre più permeata dalle tecnologie.

La pandemia ha mostrato infatti le opportunità del digitale, ora tocca a noi fare in modo che non diventi un aspetto circostanziale in attesa di un ritorno ad una  presunta normalità, ma un aspetto strutturale da integrare correttamente sia a livello sociale che lavorativo.

23 Feb 2022

L’importanza degli ambienti di lavoro psicologicamente sicuri

L’importanza degli ambienti di lavoro psicologicamente sicuri

Negli ambienti lavorativi la natura delle mansioni sta subendo un forte cambiamento, elementi come la modularità, la prevedibilità e gli aspetti routinari stanno lasciando il posto a compiti che richiedono sempre più le “soft skills” (come, ad esempio, la capacità di giudizio, di proporre nuove idee, di comunicazione e di gestione dell’incertezza).

Questi cambiamenti mettono sempre più in primo piano le possibilità espressive dei lavoratori, e in tal senso, risulta essenziale per i dipendenti così come per i dirigenti, l’instaurarsi di un clima di sicurezza psicologica, che renda le persone libere di esprimersi e di raggiungere obbiettivi elevati all’interno del loro contesto lavorativo.

Il termine “sicurezza psicologica” nasce nel 1990, ed è definita come: “l’atmosfera in cui le persone riescono a mostrare ed impiegare sé stesse in una attività, senza paura delle possibili conseguenze negative”. Tale concetto risulta cruciale negli ambienti di lavoro e, in tal senso, è essenziale che tali ambienti siano il più possibile “psicologicamente sicuri” per far si che i lavoratori possano sentirsi liberi di scambiare opinioni ed idee favorendo dinamiche di apprendimento ed insight. Inoltre, un lavoratore soddisfatto e appagato produce profitti maggiori e tutto ciò è reso possibile solo mantenendo un ambiente di lavoro sano, in cui il benessere del lavoratore è al centro.

Nonostante la rilevanza di tali aspetti nel mondo moderno, gli stessi, nella loro applicazione concreta, non sembrano essere considerati tra i principali obiettivi di investimento aziendale.

Cosa rende un ambiente di lavoro “Psicologicamente sicuro”?

Un’organizzazione “psicologicamente sicura” permette ai suoi dipendenti di sbagliare e di condividere i propri errori con altri senza la paura di sentirsi umiliati, in imbarazzo o addirittura puniti, creando di conseguenza un ambiente di lavoro libero dal giudizio altrui, in cui si beneficia di fiducia reciproca, aperto alla crescita personale ed aziendale.

In tal senso, è importante, al fine di rendere un’organizzazione “psicologicamente sicura”, apportare delle modifiche alle dinamiche di comunicazione tra colleghi e i loro superiori, coinvolgere tutti i membri nelle questioni aziendali, valorizzare le idee proposte, motivare i lavoratori dando peso e significato ai loro sforzi, cercare di esprimere apprezzamento in caso di successo ed evitare, laddove possibile, di condannare l’insuccesso con punizioni.

Infine, sarebbe opportuno proporre una continua valutazione della leadership aziendale per far sì che il processo di apprendimento non coinvolga soltanto i dipendenti, ma anche i diretti superiori, facendo così sentire i lavoratori parte integrante del processo di crescita aziendale.

Che benefici?

La ricerca ha dimostrato che attuare questi comportamenti porta benefici non solo sul morale dei dipendenti, ma anche su aspetti più materiali e immediatamente tangibili per l’organizzazione. Mettere in atto queste azioni, infatti, accresce il coinvolgimento dei dipendenti (il cosiddetto “engagement”) aumentando, di conseguenza, la probabilità che un tentativo di innovazione del processo produttivo abbia successo.

Altri benefici per nulla trascurabili sono la diminuzione degli incidenti sul lavoro e la riduzione del turnover (ovvero il ricambio di personale). Rendendo un dipendente motivato e fidelizzato, egli si sentirà anche soddisfatto e valorizzato, e dunque difficilmente cercherà un impiego in un’altra organizzazione. 

Cosa intacca la sicurezza psicologica sul posto di lavoro?

Numerosi elementi, presenti all’interno di un contesto aziendale, possono potenzialmente essere la causa di un decremento della sicurezza psicologica sul posto di lavoro, portando ad effetti negativi evidenti.

Ad esempio, una progettazione, organizzazione o gestione dei processi lavorativi amministrati in maniera superficiale, spingono il lavoratore a dover gestire situazioni con un elevato carico di lavoro. Inoltre, richieste non in linea con le risorse e aspettative del dipendente o un’assegnazione dei ruoli non definita con chiarezza possono portare a situazioni di evidente disagio minando la sicurezza psicologica dell’organizzazione.

Il benessere lavorativo è inoltre intaccato in ambienti caratterizzati da violenza psicologica, mobbing e molestie verbali e fisiche.

Infine, una comunicazione insoddisfacente e la mancanza di sostegno da parte dei colleghi o dei superiori può portare ad un’incapacità di gestire i cambiamenti organizzativi e a vivere il lavoro come “precario” e non sicuro.

E quali sono gli effetti di tutto ciò?

I possibili effetti della mancanza di sicurezza psicologica sul posto di lavoro sono molteplici e possono riguardare sia i singoli individui che le aziende nel loro complesso: per quanto riguarda i primi, la scarsa sicurezza sul posto di lavoro può portare a effetti negativi dal punto di vista fisico (ad esempio malattie cardiovascolari o disturbi muscoloscheletrici) e psicologico (ad esempio stress, esaurimento, ansia o depressione).

Per quanto riguarda le imprese, gli effetti possono invece essere più concreti, tangibili e soprattutto quantificabili a livello collettivo. Essi possono riguardare fenomeni come la scarsa redditività, l’assenteismo, il presenteismo estremo (continuare a lavorare nonostante la malattia con conseguente calo di efficienza) oppure un aumento dei tassi di incidenti e infortuni; dal punto di vista più operativo aziendale, possono contribuire ad aumentare i tassi di prepensionamento e le spese di produzione per le imprese e le società, con un aumento evidente dei costi e una diminuzione del guadagno. Gli effetti possono essere dunque sia diretti che indiretti, e nel caso dei primi un ambiente psicologicamente non sicuro può diventare un fattore molto caro per l’azienda, sia dal punto di vista economico che strutturale.

In conclusione:

Componenti come la fiducia, il lavoro di squadra, la flessibilità, l’empatia si configurano come facilitatori nella gestione delle dinamiche aziendali e di eventuali situazioni di crisi. E, al contrario, l’eccessiva enfasi sul controllo di ogni processo all’interno dell’azienda o la riluttanza a coinvolgere i propri dipendenti nei processi decisionali possono creare instabilità e generare reazioni avverse del lavoratore nei confronti dell’organizzazione.

Le aziende moderne dovrebbero dunque mettere in discussione la loro struttura adottando una vision di gruppo aperta al cambiamento, alla sperimentazione proattiva orientando anche i propri sforzi all’evitamento di incomprensioni e situazioni di attrito nella loro realtà organizzativa.

11 Feb 2022

Effetto Pigmalione: la profezia che si autoavvera

Effetto Pigmalione: la profezia che si autoavvera

L’effetto Pigmalione è un meccanismo psicologico per il quale gli esiti di una determinata azione vengono influenzati dalle nostre aspettative o da quelle di chi ci sta intorno.

Il nome dell’effetto deriva da un antico mito greco secondo cui, uno scultore di nome Pigmalione desiderava a tal punto che la statua di donna da lui realizzata divenisse umana che essa, ad un certo punto, prese vita.

L’effetto Pigmalione spiega dunque quel fenomeno nominato “profezia che si auto-avvera”, nel quale le aspettative proprie e altrui finiscono per trasformarsi in realtà.

Nella seconda metà del 900’ Robert Rosenthal, professore di psicologia presso l’università di Harvard, fu molto colpito da un caso che all’epoca fece molto scalpore: il caso del cavallo “Clever Hans.”. Tale animale divenne famoso perché sembrava capace di comprendere e risolvere correttamente problemi matematici. In seguito, fu dimostrato che, pur non possedendo tali capacità, il cavallo era in grado di cogliere dei segnali corporei del suo addestratore e grazie a questi di rispondere correttamente alle domande.

Colpito da questo fenomeno, Rosenthal avanzò l’ipotesi che le aspettative dell’addestratore di Clever Hans riuscissero a condizionare le risposte del cavallo, e così come per l’animale, lo stesso effetto si sarebbe verificato anche con l’uomo.

L’esperimento di Robert Rosenthal

L’équipe guidata dal professore americano ideò dunque negli anni Sessanta un esperimento volto a valutare quanto le aspettative potessero influenzare gli esiti di una determinata azione. Sottopose un gruppo di alunni di una scuola elementare californiana a un test di intelligenza e successivamente selezionò, casualmente senza considerare il punteggio ottenuto al test, alcuni bambini. Infine, comunicò la lista degli alunni selezionati agli insegnanti dicendo loro che si trattava di allievi più intelligenti della media.

Rosenthal, dopo un anno, ripassò nella scuola e verificò/constatò che i bambini selezionati, seppur scelti casualmente, avevano confermato a pieno le previsioni ipotizzate nel suo esperimento. I bambini selezionati casualmente avevano infatti migliorato notevolmente il proprio rendimento scolastico fino a divenire i migliori della classe. I risultati dello studio dimostrano dunque come l’effetto Pigmalione (anche chiamato effetto Rosenthal) si sia attuato grazie all’influenza positiva degli insegnanti che, per via delle aspettative indotte dalla condizione sperimentale, riuscirono a stimolare una viva passione e un forte interesse per gli studi nei loro allievi, inducendo di conseguenza anche un effettivo miglioramento nel loro rendimento scolastico.

Effetto Golem

Dunque, le aspettative positive di chi ci sta attorno possono condizionare positivamente i nostri risultati. Purtroppo, però, è anche vero il contrario: le aspettative negative possono portarci a credere di avere determinati limiti che in realtà non ci appartengono/non abbiamo, influenzando, di conseguenza, gli esiti delle nostre azioni.

Si innesca così un fenomeno opposto, il cosiddetto “effetto Pigmalione negativo”, anche chiamato “effetto Golem”, dal nome del gigante di argilla di cui si parla nel folklore ebraico.

L’effetto sul posto di lavoro

Gli studi di Rosenthal hanno dimostrato la rilevanza di questo fenomeno in ambito scolastico, tuttavia, nel corso del tempo successive ricerche hanno verificato l’esistenza di tale effetto anche in altri contesti, come quello lavorativo nel rapporto tra capi e dipendenti oppure in quello familiare nelle relazioni tra genitori e figli.

Nel caso del contesto lavorativo, ad esempio, il fenomeno potrebbe essere osservato quando le aspettative del manager influenzando le prestazioni dei dipendenti.

Nello specifico, quando vogliamo impressionare un datore di lavoro che ha elevate aspettative, tendiamo a comportarci e a sforzarci per fare in modo di soddisfarle, impegnandoci di più e credendo di più in noi stessi e nelle nostre capacità. Ed ecco che la “profezia” di successo si avvera.

Se, al contrario, il datore di lavoro ha basse aspettative nei nostri confronti, condizionati inconsciamente da tale atteggiamento, tenderemo ad essere meno produttivi, meno motivati e di conseguenza ad impegnarci meno.

Ma come possiamo difenderci da tale effetto?

Sottrarsi a questo tipo di pressione sociale non risulta un compito semplice, tuttavia, anche la sola comprensione del fenomeno può aiutarci a riconoscerlo e dunque ad affrontarlo con una consapevolezza differente. Nello specifico, riflettere sulle aspettative (personali e non) che ci spingono in una determinata direzione può aiutarci a resistere alla spinta ad uniformarci alle stesse.

26 Gen 2022

Motivazione e bisogni: la piramide di Abram Maslow

Motivazione e bisogni: la piramide di Abram Maslow

Motivazione e bisogno

La motivazione viene definita in psicologia come l’insieme dei fattori che stanno alla base del comportamento di una persona per il raggiungimento di uno scopo, essa precede una determinata azione e si innesca ogni volta che l’individuo avverte un bisogno.

Il bisogno è invece la percezione di uno squilibrio tra la situazione attuale e una situazione desiderata; esso è quindi uno stato di insoddisfazione che spinge l’uomo a procurarsi i mezzi necessari per cambiare le cose/la situazione.

Ma quali sono i bisogni fondamentali per l’essere umano?

La piramide dei bisogni di Maslow

Nel tentativo di definire un modello che potesse spiegare le motivazioni alla base del comportamento umano, lo psicologo Abraham Maslow nel 1954 costruì la “Piramide dei bisogni”. Maslow parte dall’idea che mentre gli individui sono unici ed irripetibili, i bisogni sono comuni a tutti, e per migliorare la loro condizione, è necessario che le persone li soddisfino. Il modello è costituito da cinque differenti livelli, ovvero da cinque differenti categorie di bisogni disposte in ordine gerarchico, dalle più elementari posizionate alla base (bisogni più concreti, necessari alla sopravvivenza dell’individuo) alle più complesse al vertice (bisogni più astratti, di carattere sociale). Secondo l’autore, l’individuo può raggiungere la sua piena realizzazione solo soddisfando i bisogni a tutti i livelli in modo progressivo, e dunque, la soddisfazione dei bisogni più elementari è la condizione per far emergere i bisogni di ordine superiore.

I livelli dei bisogni:

Partendo dalla base della Piramide Motivazionale (o dei Bisogni) ci sono:

  • bisogni fisiologici: fame, sete, sonno, termoregolazione, ecc. Sono i bisogni connessi alla sopravvivenza fisica dell’individuo. Sono i primi a dover essere soddisfatti in quanto alla base del nostro istinto di autoconservazione;
  • bisogni di sicurezza: protezione, tranquillità, prevedibilità, soppressione delle preoccupazioni e ansie, ecc. Sono i bisogni che garantiscono all’individuo un senso di protezione e di serenità, in questa categoria sono inclusi i bisogni legati alla sicurezza finanziaria, alla salute e al benessere come anche alla sicurezza in caso di incidenti o lesioni.
  • bisogni di appartenenza: essere amati e amare, far parte di un gruppo, cooperare, partecipare, ecc.; sono i bisogni che rappresentano l’aspirazione di ognuno di noi a essere parte di una comunità. Per evitare problemi come solitudine, depressione e ansia, è importante che le persone si sentano amate e accettate dagli altri.
  • bisogni di stima: essere rispettati, approvati, riconosciuti, ecc. Sono i bisogni che riguardano il riconoscimento da parte degli altri. Le persone hanno bisogno di raggiungere degli obbiettivi e, quando ci riescono, di ricevere il giusto riconoscimento per i loro sforzi. Ad esempio, la partecipazione ad attività professionali, a risultati accademici, atletici o di squadra e gli hobby personali possono tutti svolgere un ruolo rilevante nel soddisfare i bisogni di stima.
  • bisogni di autorealizzazione: realizzare la propria identità in base ad aspettative e potenzialità, occupare un ruolo sociale, ecc. Si tratta dell’aspirazione individuale ad essere ciò che si aspira ad essere nel profondo, sfruttando le nostre facoltà mentali e fisiche.

Mentre i bisogni fondamentali, una volta soddisfatti tendono a non ripresentarsi, i bisogni più di alto livello (sociali e relazionali) tendono a rinascere con nuovi e più ambiziosi obiettivi da raggiungere.

Ne consegue che l’insoddisfazione, sia sul lavoro, che nella vita pubblica e privata, è un fenomeno molto diffuso che può trovare una sua causa nella mancata realizzazione delle proprie potenzialità. Per Maslow, inoltre, l’autorealizzazione richiede una serie di caratteristiche di personalità, competenze sociali e capacità tecniche.

Le critiche al modello

Nonostante il notevole successo dell’autore e del suo innovativo modello teorico, numerosi studiosi hanno notevolmente criticato la sua trattazione. Questo modello, secondo tali autori, semplificherebbe eccessivamente i bisogni dell’uomo e, soprattutto, il loro livello di importanza. Infatti, la strutturazione in piramide di alcune parti così complesse del sé potrebbe rappresentare un’eccessiva semplificazione. Molte caratteristiche del sé sono interdipendenti e dipendono da diversi fattori, e in tal senso, non è sempre possibile segmentarle così nettamente. Un individuo potrebbe anche essere spinto da più bisogni contemporaneamente.

Un’altra critica che è stata rivolta a tale modello riguarda la mancanza di un’effettiva evidenza scientifica. Tale modello non è infatti mai stato sottoposto al vaglio della sperimentazione, non permettendo di convalidare o disconfermare le ipotesi dell’autore.

La teoria di Maslow è inoltre fortemente centrata sul meccanismo di autodeterminazione dell’individuo, facendo risalire le spinte motivazionali esclusivamente a fattori interni, non considerando di conseguenza l’interazione tra l’individuo e l’ambiente esterno.

Lo schema che spiega il comportamento dell’individuo è in aggiunta notevolmente rigido. Non necessariamente un soggetto deve passare attraverso tutti i livelli della scala gerarchica per mettere in atto un determinato comportamento e la successione di tali livelli potrebbe non corrispondere a una gerarchia oggettivamente condivisibile da tutti i soggetti.

Nonostante le numerose critiche, il contributo dell’autore alla comprensione della motivazione e del ruolo dei bisogni nella spinta motivazionale degli individui è indubbio, inoltre, è relativamente comprensibile che i punti critici di questo modello potrebbero dipendere dal fatto che esso sia stato concepito negli anni ’50, con valori e tradizioni della società completamente differenti da quelli attuali.

19 Gen 2022

La resilienza in psicologia: fattori di rischio e di protezione

La resilienza in psicologia: fattori di rischio e di protezione

Cos’è la resilienza?

Con il concetto di resilienza, in psicologia, ci si riferisce alla capacità di affrontare, resistere e riorganizzare efficacemente la propria vita in modo positivo dopo aver subito eventi traumatici o negativi.

Questa capacità ci permette di affrontare il dolore e le circostanze avverse in maniera piuttosto positiva e di uscirne più forti. Le persone in possesso di tale skill riescono infatti spesso a trasformare un momento difficile in un’occasione di crescita personale senza tuttavia perdere la speranza e l’autostima. Ed è proprio grazie a questa “flessibilità” che il soggetto riesce a tornare alla sua quotidianità senza conseguenze eccessivamente negative a livello psicologico.

La ricerca ha infatti ampiamente dimostrato come l’essere resilienti possa aumentare drasticamente le aspettative di vita. Tale capacità aiuta a tenere sotto controllo lo stress e riduce le probabilità di incorrere in stati ansiosi e depressivi, favorendo, così, una vita più lunga e sana.

Cosa caratterizza una persona resiliente?

Una persona resiliente ha fiducia in se stessa, così come buone capacità di adattamento e autocontrollo. Accetta la realtà così com’è, ha un locus of control interno, dà senso alla propria vita e per questo manifesta la giusta perseveranza per raggiungere i suoi obiettivi. Queste caratteristiche permettono agli individui resilienti di andare avanti anche quando le condizioni esterne sono più dure del normale.

Al contrario, le persone che tendono ad arrendersi facilmente sono solitamente poco resilienti.

È tuttavia importante sottolineare che essere resilienti non significa non esperire stress o non sentirsi mai in difficoltà. Il dolore emotivo, la tristezza e altre emozioni negative sono infatti frequenti e comuni in tutte quelle persone che vivono situazioni negative o avversità.

La resilienza, inoltre, non è un tratto stabile e immodificabile della personalità, infatti implica una serie di comportamenti, pensieri e atteggiamenti che possono essere appresi, migliorati e sviluppati in ciascun individuo. In tal senso essa non va concepita come una dote innata posseduta soltanto da alcuni soggetti; anche gli individui meno resilienti hanno l’opportunità di poter sviluppare e migliorare tale capacità.

Perché alcune persone sono più resilienti di altre?

Ci sono numerosi fattori (individuali, sociali e relazionali) che favoriscono o al contrario ostacolano la resilienza, e proprio tali aspetti permettono di spiegare perché alcuni individui riescono a superare determinate situazioni traumatiche e di forte stress senza riportare effetti negativi a lungo termine, mentre altri “soccombono” sotto la pressione esercitata dalle stesse.

In letteratura sono indicati i principali fattori di rischio che espongono l’individuo ad una maggiore vulnerabilità agli eventi stressanti minando di conseguenza la resilienza. Tra questi vi sono i fattori emozionali (bassa autostima, scarsa capacità di controllo degli impulsi), interpersonali (isolamento, chiusura, rifiuto dei pari), familiari (contesto socioculturale svantaggiato, ostilità all’interno del proprio nucleo familiare, rapporto conflittuale con i propri genitori) e quelli legati allo sviluppo (ritardo mentale, deficit attentivi, difficoltà o deficit nelle interazioni sociali).

Tra i fattori protettivi, che invece promuovono un elevato livello di resilienza, sono stati individuati fattori individuali e familiari.

Tra i primi sono stati evidenziati: l’essere primogenito, l’avere un buon temperamento, l’essere sensibili, autonomi (congiuntamente ad un’adeguata competenza sociale e comunicativa), l’autocontrollo e, infine, la consapevolezza e la fiducia che le proprie conquiste dipendano dai propri sforzi (locus of control interno). A questi fattori si aggiunge il comportamento seduttivo il quale consente di essere benvoluti e di riconoscere e accettare gli aiuti che vengono offerti dall’esterno.

I fattori protettivi familiari comprendono invece l’elevata attenzione riservata al bambino nel primo anno di vita, la qualità delle relazioni tra genitori, il sostegno alla madre nell’accudimento del piccolo, la coerenza nelle regole, il supporto di parenti e vicini di casa, o comunque di figure di riferimento affettivo.

Possiamo diventare più resilienti?

Come già sottolineato, la resilienza è una capacità che può essere migliorata. Questo significa che non si tratta di qualcosa che è accessibile a pochi, bensì, tutti in un momento specifico della nostra vita possiamo essere resilienti.

In tal senso, la letteratura evidenzia cinque componenti che contribuiscono a sviluppare la resilienza.

  • L’ottimismo: la disposizione a cogliere il lato buono delle cose è un’importantissima caratteristica umana che promuove il benessere individuale e preserva dal disagio e dalla sofferenza fisica e psicologica. Chi è ottimista tende a sminuire le difficoltà della vita e a mantenere più lucidità per trovare soluzioni ai problemi.
  • L’autostima: avere una scarsa considerazione di sé ed essere molto autocritici conduce a una minore tolleranza delle critiche altrui, cui si associa una quota maggiore di dolore e amarezza. Tutto ciò risulta in un’aumentata possibilità di sviluppare sintomi depressivi.
  • La robustezza psicologica: essa è a sua volta scomponibile in tre sottocomponenti, ossia, il controllo (la convinzione di essere in grado di controllare l’ambiente circostante, mobilitando così quelle risorse utili per affrontare le situazioni), l’impegno (con la chiara definizione di obiettivi significativi che facilita una visione positiva di ciò che si affronta) e la sfida, (la visione dei cambiamenti come incentivi e opportunità di crescita piuttosto che come minaccia alle proprie sicurezze).
  • Le emozioni positive: il focalizzarsi su quello che si possiede piuttosto che su ciò che ci manca.
  • Il supporto sociale: l’informazione, proveniente da altri, di essere oggetto di amore e di cure, di essere stimati e apprezzati. È importante sottolineare quanto la presenza di persone disponibili all’ascolto sia efficace poiché essa mobilita il racconto delle proprie sventure. Raccontare significa liberarsi dal peso della sofferenza, e l’accoglienza gentile e senza giudizi, rifiuti o condanne da parte degli altri segnerà il passaggio da un’elaborazione interiore e solitaria ad una condivisione partecipata dell’accaduto.

In definitiva, ciò che determina la qualità della resilienza è la qualità delle risorse personali e dei legami che si sono potuti creare prima e dopo l’evento traumatico.

12 Gen 2022

IL CONCETTO DI SÉ E LE SUE DETERMINANTI SOCIALI

IL CONCETTO DI SÉ E LE SUE DETERMINANTI SOCIALI

Il concetto di sé: chi sono io?

Il concetto di sé è la risposta di una persona alla domanda “chi sono io?”. Esso si riferisce all’autovalutazione di sé in un ambito specifico (ad esempio accademico, atletico o dell’aspetto fisico).

Gli elementi del concetto di sé vengono definiti schemi di sé: modelli mentali che strutturano e guidano l’elaborazione di informazioni importanti per il sé. Essi influenzano il modo in cui le persone percepiscono, ricordano e valutano sé stessi e gli altri.

Se ad esempio essere un atleta è uno degli schemi di sé di un ragazzo, egli tenderà a notare il corpo e le abilità fisiche degli altri e richiamerà alla mente con maggior facilità esperienze legate allo sport, registrando informazioni coerenti con il suo schema di sé.

Processi autoreferenziali

Il sé influenza anche la nostra memoria, attraverso un fenomeno noto come effetto autoreferenziale. Esso si riferisce alla tendenza ad elaborare e ricordare meglio le informazioni relative a se stessi. Quando l’informazione è coerente con il concetto di sé, la si elabora facilmente e la si ricorda senza difficoltà. Riusciamo infatti chiaramente a ricordare ciò che una persona ha detto di noi rispetto ad altre cose dette.

Ciò avviene perché i ricordi si formano intorno all’interesse principale, ovvero, se stessi. L’effetto autoreferenziale evidenzia infatti un aspetto fondamentale del funzionamento dell’essere umano: il senso del nostro sé è il centro del nostro mondo.

Sé possibili

Il concetto di sé include non solo gli schemi di sé incentrati su chi si è qui e ora ma anche su chi si potrebbe diventare in futuro, ossia i sé possibili. Essi includono sia le concezioni del sé che si sognano (il sé ricco, il sé amato) che le concezioni del sé che si temono (il sé non realizzato, il sé non amato).

I sé possibili (fantasticare sul proprio futuro o avere paura del proprio futuro) non sono inutili, poiché possono offrire la motivazione necessaria per diventare ciò che si vuole e per evitare ciò che non si vuole. In altri termini essi offrono una motivazione che alimenta la vita a cui si aspira e, di conseguenza, muovono i nostri comportamenti.

Cosa determina il concetto di sé?

Se da un lato gli studi condotti sui gemelli evidenziano l’influenza del patrimonio genetico sulla costruzione del concetto di sé, dall’altro, anche l’esperienza sociale gioca un ruolo molto importante.

La psicologia sociale ha infatti dimostrato che tra i principali fattori che determinano il sé figurano: i ruoli sociali, l’identità sociale, i confronti sociali, i successi e gli insuccessi, i giudizi degli altri e, in senso più ampio, la cultura.

I ruoli sociali

Il ruolo sociale è un insieme di aspettative condivise circa il modo in cui dovrebbe comportarsi una persona in una particolare posizione sociale.

Quando si assume un nuovo ruolo (ad esempio studente, genitore, insegnante), nella fase iniziale se ne è consapevoli e ci si può sentire finti. In tali occasioni si può percepire un’autoconsapevolezza ossessiva: si presta un’eccessiva attenzione ai nuovi discorsi che si fanno e alle nuove azioni in quanto non li si riconosce come naturali. Tuttavia, gradualmente il ruolo viene assorbito all’interno della percezione del sé e diventa naturale. In altri termini, i ruoli adottati arrivano a plasmare gli atteggiamenti ed il concetto di sé.

L’identità sociale

Il concetto di sé non include solo l’identità personale (ovvero la propria percezione degli attributi personali) ma anche l’identità sociale, ossia, la definizione sociale di ciò che si è (per razza, religione, genere, specializzazione accademica…). Quest’ultima implica anche una definizione di ciò che non si è.

Quando si fa parte di un gruppo ristretto circondato da un gruppo più ampio, si è spesso consapevoli della propria identità sociale (ad esempio uno studente di colore in un’università a maggioranza bianca avvertirà la propria identità etnica in modo evidente reagendo di conseguenza), mentre quando il gruppo a cui si appartiene costituisce la maggioranza si tende a pensare meno a esso.

I confronti sociali

Il confronto sociale è la valutazione delle proprie capacità e opinioni mediante il confronto tra sé e gli altri.

Festinger nella sua teoria del confronto sociale sostiene che quando le persone sono incerte e non sono disponibili informazioni oggettive per valutare il sé, esse valutano sé stesse attraverso confronti con altri simili. In altri termini, coloro che ci circondano definiscono gli standard in base ai quali ci definiamo intelligenti o stupidi, simpatici o antipatici.

Tale processo avviene automaticamente. Assistendo a ciò che fa o dice un pari, infatti, non si può fare a meno di effettuare un paragone.

È per tanto possibile provare un certo piacere per il fallimento di un pari o paragonandosi con chi è meno abile o meno fortunato (confronto discendente). Tali confronti difendono il sé e proteggono l’autostima.

È tuttavia possibile in egual misura attenuare la propria soddisfazione e minare la propria autostima quando ci si confronta ­– in scala verticale – innalzando gli standard in base ai quali si valutano le riuscite e i fallimenti (confronto ascendente).

I successi e gli insuccessi

Il concetto di sé è alimentato anche dai successi e dagli insuccessi.

Avere successo significa sentirsi più competenti e ciò alimenta l’autostima, soprattutto quando i risultati ottenuti sono frutto di grande sforzo, impegno costante e dedizione.

Al contrario sperimentare insuccessi può alimentare una scarsa autostima e talvolta essa è causa di qualche problema. Le persone con una bassa autostima sono infatti generalmente più tristi, più nevrotiche, soffrono più facilmente di ansia e depressione e sono più predisposte alla dipendenza da alcool e droghe.

I giudizi degli altri

Il concetto di sé è alimentato anche dai giudizi degli altri. Il fatto che gli altri abbiano una buona opinione di noi aiuta a pensare bene di se stessi. Essere definiti dagli altri come intelligenti e dotati aiuta ad assimilare tali concetti nel proprio comportamento e nel proprio concetto di sé.

In particolare, ciò che conta per il concetto di sé non è tanto come gli altri ci vedono in realtà, bensì il modo in cui noi immaginiamo che ci vedano.

Questo effetto prende il nome di rispecchiamento: il modo in cui le persone pensano di essere percepite dagli altri viene utilizzato come una sorta di specchio per percepire se stessi.

Un ulteriore aspetto da sottolineare è che in genere le persone nelle relazioni interpersonali tendono a fare complimenti e a trattenere le critiche. È perciò possibile sopravvalutare l’apprezzamento degli altri, enfatizzando l’immagine del sé. L’immagine sproporzionata del sé o autoenfatizzazione è più marcata nelle culture occidentali.

La cultura

Per la maggior parte delle persone che appartengono alle culture occidentali prevale maggiormente l’individualismo.

Le culture individualistiche considerano l’individuo come unità di base della società e prestano molta attenzione alle differenze individuali. I gruppi sono numerosi, di grandi dimensioni e hanno un’influenza molto debole.

La persona attribuisce priorità agli scopi e al successo personali e i valori enfatizzati sono l’autonomia, la libertà, la realizzazione di sé, il successo, il piacere e il divertimento, valori rispetto ai quali il gruppo sembra essere più un freno che un trampolino di lancio.

Il sé che si sviluppa in questo tipo di culture è un sé idiocentrico: l’individuo è il centro dinamico della consapevolezza, delle emozioni e delle azioni. Le persone si descrivono evocando attributi personali con scarso riferimento ai gruppi sociali d’appartenenza.

Si parla dunque di un sé indipendente, autonomo, caratterizzato da attributi interni.

Per la maggior parte delle persone che appartengono alle culture orientali prevale invece il collettivismo.

Le culture collettiviste considerano il gruppo come unità di base della società e tendono ad annullare le differenze individuali dei suoi membri. Questi modelli culturali sono caratterizzati dalla presenza di pochi gruppi di piccole dimensioni e molto influenti.

La dipendenza degli individui all’interno di queste culture è molto forte e la persona è pronta a sacrificare i propri scopi e il proprio successo a favore di quelli del gruppo. I valori enfatizzati sono la cooperazione, l’integrità familiare, la sicurezza, l’equità, l’onesta, il dovere e l’obbedienza.

Il se tipico di queste culture è un sé allocentrico: diventa significativo e completo solo nell’ambito delle relazioni sociali.

Il sé è dunque interdipendente e le persone si descrivono in termini sociali e regolano il proprio comportamento in funzione degli altri.

Definire le culture come esclusivamente individualistiche o collettiviste è tuttavia un’eccessiva semplificazione poiché il livello di individualismo varia da persona a persona e tra regioni e regioni. Inoltre, le culture possono cambiare nel tempo e al giorno d’oggi è possibile individuare un orientamento sempre più individualista.