08 Lug 2020

I “bambini nascosti” e il ruolo fondamentale dello psicologo

I “bambini nascosti” e il ruolo fondamentale dello psicologo

Quando una persona sta male può dipendere da situazioni esterne o situazioni interne legate alla sua infanzia, che hanno a che fare con il suo “inconscio disturbato”. Si parla anche di “bambini nascosti”, che sono i bambini nascosti nel nostro inconscio, che ci disturbano perché non sono ancora cresciuti .
Si cerca dalla posizione privilegiata di persona “al di sopra delle parti” di lavorare sul presente, se invece si accorge che la problematica di sofferenza è legata alla presenza di vecchi schemi passati e radicati dall’infanzia, cerca di andare a “prendere per mano” il bambino nascosto del paziente e a tirarlo fuori, dal buio dove è finito, alla luce del sole, dove si può illuminare di vita.
Tutte le persone a tutte le età crescono e progrediscono lungo il percorso di sviluppo della loro vita. Il bambino verso l’adolescenza, l’adolescente verso la fase adulta, l’adulto verso la vecchiaia, l’anziano verso la fine dei suoi giorni. Anche le persone che si mettono in coppia percorrono un loro cammino. Ogni età presenta le sue caratteristiche di vita, e ci si può sentire bloccati ed essere effettivamente bloccati nella vita a qualsiasi età. Perché una persona ha una sofferenza psicologica, e sta male fino a volte a bloccarsi? La teoria psicoanalitica ci insegna che c’è sempre un motivo, una causa, per ogni stato di sofferenza, di malessere e di disagio, un motivo visibile o invisibile, e che per risolvere il problema bisogna prima di tutto risalire a tale causa. Generalmente ci sono due generi di cause che possono portare ad una sofferenza psicologica.
Ci sono cause legate a fatti realmente accaduti nella realtà, come per esempio situazioni ambientali esterne reali sfavorevoli, o addirittura traumatiche, drammatiche, che non si riesce a superare, come potrebbe essere una separazione o una perdita affettiva importante, un lutto da elaborare, o una situazione della vita dove ci si trova in difficoltà. Oppure perchè ci sono dentro la persona che soffre, delle cause profonde, recondite, che potrebbe conoscere in parte, o di cui non è bene a conoscenza, che hanno a che fare con la vita che la persona in sofferenza ha vissuto da bambino, quindi relativa a “fantasmi” che la persona si porta dietro fin quando era molto piccola. In questo caso si sta male ma non si sa bene il perché.

Il più delle volte non si è a conoscenza di queste dinamiche.
Anche per i fatti concreti, o le situazioni realmente visibili, le problematiche potrebbero avere comunque a che fare con il passato, e derivare da difficili relazioni emotive che hanno bloccato la persona che soffre in parte già nell’infanzia o in adolescenza, situazioni che ha vissuto con le sue principali figure di riferimento, che di solito sono state la madre ed il padre ma sulla comprensione delle cause che hanno portato la persona che soffre a produrre quel disturbo stesso, in modo tale che il soggetto possa cercare di liberarsi definitivamente da esso. Ci vuole più tempo, a volte molto più tempo, non lo si può mai prevedere quanto tempo ci vuole, dipende da tanti fattori, ma se il percorso funziona i risultati possono essere duraturi e possono essere definitivi, e c’è una crescita, che comprende anche un “rafforzamento globale” della personalità che cambia, si diventa “più adulti”, o se si era troppo “bambini” si diventa finalmente adulti. E la vita viene vista in un’altra prospettiva, e si ricomincia a camminare o ci si ritrova a camminare “nuovi” per la prima volta, dopo essere passati dal “buio” delle tenebre che erano dentro di noi, alla “luce”, alla luce del sole che ci illumina!

Lo psicologo cercherà di comprendere le problematiche, di dare una maggiore chiarezza rispetto al problema, cercherà di accendere una luce nella strada del cammino, fino a che una luce diventa sempre più intensa, che permetta di vedere dove prima c’era l’oscurità, ed uscire anche dal tunnel.

Il bambino nascosto nasce nel passato, dalle esperienze d’infanzia.
Siamo tutti il frutto del nostro passato, e delle volte capita che si rimane bloccati nella vita, o perché questi bambini interni nascosti non vogliono affacciarsi alla realtà e non vogliono crescere, e c’è sempre un motivo che va scoperto, smascherato, oppure per motivi contingenti legati alla realtà presente.

01 Lug 2020

Endorfina, quando la vita sociale è un antidoto naturale.

Endorfina, quando la vita sociale è un antidoto naturale.

L’amicizia fa bene alla salute. E vi è una conclusione scientifica. Studi più remoti hanno dimostrato che l’endorfina aiuta a migliorare le relazioni sociali sia negli esseri umani che negli animali. Ma vale anche il contrario: frequentare persone care migliora la produzione di endorfina da parte del cervello.

Una teoria, nota come brain opioid theory of social attachment, stabilisce che le interazioni sociali provocano emozioni positive quando le endorfine si legano ai recettori degli oppioidi nel cervello, allo stesso modo della morfina. Questo è ciò che ci dà la sensazione di benessere che proviamo quando vediamo i nostri amici più cari.

Per poter sviluppare la loro teoria, i ricercatori dell’Università di Oxford hanno eseguito un test: hanno preso 101 volontari di età compresa tra i 18 e i 34 anni, chiedendo loro di rimanere appoggiati contro un muro mantenendo le gambe piegate ad angolo retto fino a quando riuscivano a resistere. Successivamente alla prova, i partecipanti hanno dovuto rispondere a due questionari, relativi al numero dei loro amici e sulla frequenza con cui li vedono. In altre parole, hanno usato la tolleranza a un dolore prolungato, come resistere a lungo in una posizione di stress fisico, come parametro per valutare l’attività dell’endorfina nel cervello. Pertanto se la teoria fosse corretta, le persone con tante interazioni sociali dovrebbero avere una soglia di sopportazione al dolore più elevata. E dal test è emerso proprio questo. Davvero gli amici portano via il dolore – ora lo dice anche la scienza.

 

Questi risultati sono interessanti perché, secondo alcuni studi, l’interruzione della produzione di endorfina potrebbe essere causata da disturbi come la depressione. Questo potrebbe essere una parte del motivo per cui le persone depresse soffrono di una mancanza di piacere e spesso si isolano dal loro contesto sociale. Di conseguenza, avere una larga rete di amici e conoscenti diventa un efficace mezzo di prevenzione e cura dagli eccessi di stress, e dalle loro possibili conseguenze.

 

Endorfine e lo sport

Un altro risultato notevole che è emerso è quello relativo a chi pratica attività sportiva, soprattutto a livello agonistico. Chi ha un fisico più tonico e palestrato, riesce a sopportare il dolore più a lungo, ma i dati dimostrano anche che ha una minore cerchia di amici. Questo potrebbe essere spiegato fisiologicamente, immaginando sia dovuto al fatto che l’attività sportiva rilascia un’alta quantità di endorfine. Pertanto chi riesce a soddisfare questa esigenza attraverso lo sport, ha meno bisogno di interagire con gli altri. Si tratta, ad ogni modo, di speculazione. Altri test più approfonditi potrebbe servire a fare chiarezza su questo aspetto.

 

Qual’è la morale?

Questi studi suggeriscono che la quantità e la qualità dei nostri rapporti sociali influenzano la nostra salute fisica e mentale e ciò può anche essere un fattore determinante per la durata della nostra vita. Come specie ci siamo evoluti fino a prosperare in un ambiente socialmente ricco, ma nell’era digitale, la carenza delle interazioni sociali potrebbe essere un fattore che incide sull’aumento di malati nella nostra società moderna.

 

La morale, quindi, non è solo che gli amici fanno bene alla salute. È necessario coltivare rapporti umani e ciò significa porre ancora più cautela nel modo in cui utilizziamo la tecnologia. Soprattutto nell’era di Facebook e dei social network, è d’obbligo un uso più coscienzioso, senza lasciare che essa deteriori i nostri rapporti, perché essi sono e rimarranno sempre insostituibili.

24 Giu 2020

Nativi digitali: la tecnologia fa bene ai bambini?

Nativi digitali: la tecnologia fa bene ai bambini?

Il termine per indicare questa nuova generazione è nativi digitali. Coniato da Marc Prensky agli inizi degli anni 2000 e aveva lo scopo di spingere gli educatori a pensare in modo diverso sull’insegnamento e l’apprendimento.

Ѐ fondamentale il ruolo dei genitori, i quali devono dare il buon esempio. Occorre quindi sensibilizzarli, soprattutto su quali possono essere le conseguenze di un cattivo utilizzo della tecnologia.

Se, utilizzata impropriamente, può provocare seri danni.

Nei primi anni di vita, l’interazione con le persone è fondamentale per un corretto sviluppo dei bambini. Ammaliati da pc, videogames e quant’altro i bambini passano le loro giornate in modo sedentario.

Ne derivano problemi come ad esempio l’obesità. Il tempo dedicato allo sport e all’attività fisica è sempre minore. Stando in casa, da soli, i nostri bimbi a lungo andare avranno difficoltà a relazionarsi con i coetanei.

Le prove della ricerca stanno ora crescendo per confermare che le capacità superiori dei nativi digitali non sono di fatto una realtà.

Per regolare il rapporto tra bambini e tecnologia può bastare il solo cambiamento del modello di istruzione? Certo che no. La scuola e la famiglia devono remare nella stessa direzione se si vuole contrastare un minimo un eventuale sviluppo negativo della società.

Servirebbe a poco se ai bambini venisse insegnato una visione più approfondita della tecnologia e li si lasciasse giocare sempre con gli smartphone mentre si cena con i parenti.

Il rischio è quindi quello di crescere bambini sottoposti a stimoli stressanti per il cervello, estraniati dalla vita reale e fin troppo sedentari, senza neanche acquisire alcuna abilità o conoscenza utile. Forse non sono solo nativi digitali, ma è la società a renderli così legati alla tecnologia.

Viene da chiedersi: come bisogna comportarsi? Non esiste una “dose giornaliera consigliata”. Quella, semmai la possono decidere i genitori. Deve essere accompagnata dall’insegnamento dei valori e di quelle cose importanti che permettano il corretto sviluppo dei bambini.

17 Giu 2020

Le funzioni cognitive della mente umana. Cosa può arrivare a fare?

Le funzioni cognitive della mente umana. Cosa può arrivare a fare?

Un bambino ha fame e si avvia in cucina per prendere da mangiare. Quali processi ha intercorso la sua mente per metterle in atto? Apparentemente, la situazione sarebbe di stimolo fisiologico (fame) e tentativo di rispondere allo stimolo insorto, in un semplice rapporto causa-effetto. In realtà, nel cervello sono successe molte più cose. Questo funzionamento cognitivo come altri è inteso come la “prestazione dei processi mentali di percezione, apprendimento, memoria, comprensione, consapevolezza, ragione, giudizio, intuizione e linguaggio”. Questa lista di facoltà psichiche altro non è che un sunto delle principali funzioni cognitive della mente umana, quell’insieme di capacità che, combinate tra loro, rendono possibile la vita come la conosciamo. La prima elencata è la percezione che non è altro che il processo di conoscenza di oggetti, eventi o relazioni, interne o esterne, attraverso l’interpretazione di stimoli. Include sia l’attività di attribuzione di significato ai segni che arrivano al cervello, sia la vera e propria lettura dell’ambiente tramite i sensi. Insieme ai cinque conosciuti, gioca un ruolo importantissimo la propriocezione, ossia la capacità del corpo di determinare la propria posizione ed estensione nello spazio, senza il supporto di altri canali sensoriali.

Altra componenti le elenchiamo tra un po’ però prima illustriamo un esempio. Prendiamo un bambino di pochi mesi adesso che proverà a raggiungere il dito con le sue manine, senza la minima idea di cosa significhi. L’atto di indicare è solo un esempio di tutti quei segni che diamo per scontati al punto da crederli innati, ma che non sono affatto naturali. Ed essendo convenzioni, dietro a ciascuno di essi c’è un processo di apprendimento che ci ha insegnato a collegare quel gesto a un dato concetto. Oltre naturalmente a uno specifico linguaggio inteso come sistema di codici e correlazioni.

Il riconoscimento di sé è un’altra abilità cognitiva non esclusiva dell’uomo, anzi, neppure in uso nelle fasi iniziali della crescita. Il celebre test dello specchio, in cui il soggetto esaminato viene posto di fronte a uno specchio ed è in grado (o no) di riconoscere un segno colorato applicato sul suo corpo, dà risultati negativi per bambini fino a un anno e mezzo/due anni di vita. Essere capaci di riconoscersi nell’immagine riflessa, e quindi provare a rimuovere il segno, è indicatore di una sviluppata consapevolezza di sé, del proprio aspetto e del senso di spazialità.

Un’ultima particolare funzione cognitiva è quella, studiata solo negli umani per ovvie questioni di comunicazione, di metacognizione, ovvero i pensieri sui propri pensieri. Il caso più evidente è il fenomeno della “punta della lingua”, ovvero quando ci rendiamo conto di sapere un certo nome, ma non riusciamo a ricordarlo distintamente. Eppure la consapevolezza di tale informazione esiste, e ne siamo perfettamente coscienti. O il déjà vu, l’impressione di aver già memoria di una situazione, rientra appieno nella categoria dei fenomeni mentali metacognitivi.

L’elenco delle funzioni andrebbe avanti all’infinito, nella molteplicità degli ambiti in cui le abilità del cervello possono spaziare. La mostruosa complessità di ciò che la mente è in grado di elaborare, insieme alla naturalezza con cui ci riesce, può rendere la più elementare delle azioni un’affascinante dimostrazione di cosa la natura è stata capace di creare.

10 Giu 2020

Il desiderio di cambiare

Il desiderio di cambiare

Voglio cambiare la mia vita: come faccio?

Succede a tutti. Non vogliamo più stare in una situazione che prima abbiamo tanto desiderato e voluto e anche costruito sia in famiglia che a lavoro ma a maggior ragione anche in amore.  Avvertiamo quel malessere interiore che tende a confondersi come ansia, sofferenza e voglia di cambiare vita

All’inizio si cerca di resistere ma poi più si nega il tutto peggio diventa sopportare il tutto e non c’è più niente da fare. Vogliamo cambiare anzi forse lo stiamo già facendo. Abbiamo sviluppato nuove esigenze e un nuovo modo di essere. Ci sentiamo quasi avviliti, non siamo noi a volerlo, ma è proprio da noi che parte questa spinta. Ci sentiamo strattonati, perché una parte di noi è ancora molto legata a ciò che sta vivendo, mentre un’altra chiede, con altrettanta forza, una trasformazione, un’altra vita.

La voglia di cambiamento è presente a tutte le età.

Quando giri a vuoto i tuoi luoghi comuni,i pregiudizi, la tua visione della vita finiscono sullo sfondo e in quel momento ti senti perduto. Hai bisogno di girare a vuoto non perché ti senti fuori luogo o strano ma perché la tua mente è troppo ordinata :  e allora un entità presente dentro di te che è nascosta e sopita per tanto tempo ti vuole distrarre dalle illusioni in cui ti sei calato, vuole restituirti la tua essenzialità per riportarti a casa.

Niente sensi di colpa, perché il cambiamento è necessario

La prima cosa è riconoscere ciò che sta avvenendo in se stessi. Queste emozioni sono il prodotto della nostra mente profonda, dell’anima. Per legittimarle, però, bisogna fare i conti con il senso di colpa, sempre in agguato quando si tratta di fare scelte dettate da necessità interiori, invisibili a occhi esterni.

Cambiare equivale, a una sorta di tradimento: si tradiscono il passato, le aspettative e l’identità che abbiamo proposto fino a qui. Dobbiamo ricordarci che cambiare non è una colpa: anzi, la colpa è fingere di essere quel che non si è più. Perciò, invece che sulla nostra inesistente colpevolezza, orientiamo la mente su quel che ci chiede davvero questa spinta.

Serve il silenzio

È necessario in primo luogo un po’ di silenzio. Cerchiamo di capire se si tratta solo di una reazione momentanea e settoriale o di un effettivo bisogno di un’altra vita. Osserviamoci ogni tanto nella giornata, guardiamo il disorientamento nel momento in cui arriva senza commento, perché tutti i sintomi che arrivano sono energia che prende contatto con noi. C’è qualcosa di sconosciuto in noi che vuole vivere e che non può essere definito e compreso dentro il nostro piccolo io, anzi: occorre che l’io si faccia da parte perché la nostra natura si riveli.

No alle decisioni forzate

Ecco la parte più importante: calibrare il cambiamento, qualunque esso sia, sulle nostre vere esigenze. Che non sono – è fondamentale ricordarlo – solo quelle espresse dalla voglia di un’altra vita ma anche quelle relative al contesto affettivo e alle abitudini che fino ad oggi abbiamo tenuto, le quali parlano ancora di noi e che spesso vorremmo mantenere anche dopo il “passaggio epocale”. Qui è necessario restare lucidi e non farsi tenere sotto scacco sia dall’intransigenza della pulsione, che chiede “uno strappo” con tutto il passato, sia dai sentimentalismi che danno troppo valore ad alcune parti della nostra vita che non l’hanno più. Serve “saggezza”. Dove trovarla? Non arriva aggiungendo pensieri, ma togliendoli. Le scelte migliori della nostra vita, le più sagge, sono sempre quelle che, a un certo punto, sono sbocciate da sole, senza che noi ci imponessimo di fare una cosa piuttosto che l’altra.

Quando è il momento, la cosa giusta da fare è facile da riconoscere e da mettere in pratica. Mettiti in attesa, lascia venire le emozioni, tienile con te giorno dopo giorno, osservale senza prendere decisioni. Al momento giusto decideranno loro.

Quando ci sentiamo insoddisfatti è poi importante non perdere tempo a fantasticare un domani migliore. La nostra interiorità invece ha bisogno di cose concrete e facilmente realizzabili.

03 Giu 2020

Autostima : come si struttura nel corso del tempo

Autostima : come si struttura nel corso del tempo

L’autostima è uno dei pilastri fondamentali su cui costruire il proprio benessere emotivo: una percezione positiva di sé aiuta a porsi in atteggiamento costruttivo nei vari ambiti di vita (sfera lavorativa, relazioni sociali e affettività). E’ utile innanzi tutto rendersi conto di quale sia il proprio dialogo interno nei momenti di stress e frustrazione.

Qualcuno si troverà ad attribuire il proprio insuccesso a se stesso mentre altre persone tenderanno ad accusare la vita, gli altri o il destino per quanto accaduto. Ci troveremo a fare i conti con un diverso grado di senso di colpa o impotenza, mortificazione, tristezza e rabbia. Tale modalità dipende in parte dal temperamento di ognuno e in parte dall’ambiente familiare e dai condizionamenti subiti negli anni dello sviluppo della personalità.

Qualunque sia la genesi della mancanza di autostima, è importante consapevolizzare i propri meccanismi interiori per poterli poi padroneggiare e coltivare la fiducia in sé seguendo una serie di utili strategie, per poter progressivamente divenire amici di se stessi ed abbandonare il severo sguardo autocritico.

E’ importante porsi degli obiettivi raggiungibili: sia sul lavoro che nelle relazioni molto spesso la stima di sé viene danneggiata dall’aver scelto un obiettivo “ideale” e poco realistico e di avere la percezione di partire già sconfitti. Prima di cominciare a “scalare una montagna troppo alta” è importante preparare tutti gli strumenti che ci serviranno per la scalata e soprattutto dividere il percorso in varie tappe.

E’ funzionale immaginare dei sotto-obiettivi, raggiungibili in breve tempo e verificabili, che diano il polso della situazione e fungano da continua verifica della direzione in cui si sta procedendo. Spesso accade infatti che, per l’ansia di raggiungere un risultato in tempi brevi, si rischi di sentire un sovraccarico tale che ci impedisce persino di partire.

Un’altra utile riflessione riguarda la necessità di rendersi autonomi dalle aspettative degli altri: sforzarsi di raggiungere un risultato per ottenere il riconoscimento altrui è un’arma a doppio taglio.

Se da un lato inizialmente ci si può sentire sostenuti e motivati dallo sguardo degli altri, in un secondo momento ci si può rendere conto di come la motivazione esterna sia molto più fragile di quella interna, che nasce dal profondo e ci aiuta a non demordere anche quando le circostanze sono sfavorevoli. Prima di intraprendere un cammino domandiamoci dunque se siamo davvero noi stessi a desiderarlo o se siamo condizionati dall’esterno, e in che misura. In questo modo saremo maggiormente in grado di essere davvero felici per i nostri successi, indipendentemente dal rimando esterno che ci verrà dato. Un altro possibile accorgimento per incrementare la visione positiva di sé è quella di coltivare relazioni costruttive: chi non ha stima di sé spesso tende a ricercare la vicinanza di persone che gli rimandino quell’immagine negativa di cui sono vittime, perché è l’unica che riconoscono. Ciò accade per un meccanismo inconscio molto potente chiamato “coazione a ripetere”, in cui la persona si pone attivamente in una situazione per lei penosa ripetendo vecchie esperienze senza riuscire a risalire al prototipo. Nel momento in cui ci rendiamo conto di reiterare modalità disfunzionali possiamo apprendere nuove strategie per modificare il comportamento e dunque il corrispondente vissuto emotivo. Avvicinandoci a persone rispettose ed amorevoli sentiamo crescere la stima in noi stessi e cominciamo ad accorgerci di essere degni di fiducia e rispetto, aspetti che prima non conoscevamo. In tale contesto favorevole si può cominciare anche ad accettare i complimenti e riconoscere le buone qualità che gli altri ci rimandano, a cui spesso stentiamo a credere e viviamo con imbarazzo, perché non siamo abituati a questa immagine buona che ci viene rimandata. Cominciando a sperimentarsi in contesti favorevoli, ci si accorgerà di qualità e caratteristiche personali che precedentemente risultava difficile vedere.

Possiamo inoltre modificare gradualmente il dialogo interno immaginando propositi o frasi di segno positivo che ci caratterizzano e che non siano troppo generici, provando a ripeterle mentalmente per poterle sostituire ai pensieri svalutanti che ci affollano la mente nei momenti di tensione, stress o frustrazione. In questo modo si può divenire maggiormente consapevoli dei propri approcci disfunzionali ai problemi.

E’ utile anche creare delle risorse interne che fungano da barriera protettiva da possibili fallimenti o commenti altrui (come ad esempio il senso dell’umorismo, la capacità di relativizzare, il saper dire di no, l’esplicitare la propria idea anche se in dissenso etc…).

 

23 Ott 2018

La psicologia al servizio dei datori di lavoro

La psicologia al servizio dei datori di lavoro
L’ Art. 28 del D.Lgs. 81/08, che invita ad eseguire la valutazione dello stress lavoro-correlato, appare a molti imprenditori come l’ennesima pressione da sopportare e da“sbrigare” nel modo più economico, veloce e meno invadente possibile, oltre ad essere magari l’ennesimo decreto da sabotare o da dirottare politicamente perdendo l’occasione di utilizzare nuove conoscenze date dalle scienze psicologiche per provare ad attuare dei cambiamenti.
Per abitudine, per cultura, per stili di gestione l’Italia è un paese che troppo raramente investe nella formazione continua, non ama mettere in discussione modelli gestionali che assicurano o che hanno assicurato lo stipendio a fine mese, in altre parole si teme l’ignoto e tutto ciò che in qualche modo appare estraneo; inoltre qualora si voglia investire per esempio nella formazione si fatica a trovare un’offerta che sia qualitativamente e quantitativamente adeguata alle esigenze aziendali.
Le difficoltà, la confusione e la sfiducia espressa da parte dei datori di lavoro trova espressione nella richiesta di essere sottoposti a test che rilevino il loro livello di stress individuale causato dal D.Lgs. 81/08 poiché irrompe prepotentemente nelle loro aziende e nella loro tranquillità lavorativa assodata nel tempo.
Ad oggi, la mancanza di chiare Linee Guida, per la valutazione dello stress lavoro-correlato, ha permesso alle molteplici fantasiose personalità di esprimersi senza regole troppo precise, lanciando sul mercato prodotti accattivanti per cercare di “rosicchiare” ancora un po’ un mercato già pesantemente “azzannato”.
Come eseguire quindi una valutazione, non fine a se stessa, i cui ingredienti siano capacità preventiva e valutativa in un approccio organizzativo globale?
Il D.Lgs.81/08 individua chiaramente nel datore di lavoro la figura deputata a tale valutazione ma non fornisce, purtroppo, altrettante indicazioni su come eseguirla. Le figure già previste dal decreto e di supporto al datore di lavoro quali l’RSPP e il MC si offrono spesso di partecipare a tale valutazione, pur non avendo approfondita conoscenza e consapevolezza rispetto all’ambito psicologico da indagare.
Una buona valutazione richiede l’utilizzo di molteplici tecniche psicologiche; gli psicologi maturano, nel loro percorso formativo, grande consapevolezza e conoscenza dei fattori umani e dei rischi psicosociali insiti nelle organizzazioni.
Grande o piccola l’azienda è comunque fatta di persone la cui consulenza richiede una specifica preparazione, offrendo così un supporto non invadente capace d’essere un reale aiuto qualitativo,a sostegno dei datori di lavoro e di tutti i lavoratori.
Metodologie psicologiche integrate
In questo ultimo mese si parla molto di analisi qualitativa (interviste, osservazioni, colloqui) e quantitativa (questionari), in una sorta quasi d’opposizione l’una all’altra.
In aziende piccole, medie ed oggi anche grandi, una mera valutazione quantitativa (oggettiva) non riesce sempre ad evidenziare potenziali rischi psicosociali, né come la raccolta degli indicatori oggettivi aziendali (giorni di malattia, assenteismo, turnover, etc.) possano definire la soglia al di sopra della quale tale valutazione sia opportuno eseguirla, aprendo un’interessante sfida sull’argomento e sull’applicazione di queste tecniche. Piccole o grandi le aziende sono create da persone, basate su una o più culture, con mille o più difficoltà; l’analisi qualitativa, eseguita attraverso colloqui, interviste, osservazioni, etc. si dimostra essere quella mano che conduce “i numeri” in una specifica dimensione, e ancora, quell’occhio che riconosce i risultati quantitativi contestualizzandoli.
Conclusione
Da ciò si possono evincere una serie di considerazioni finalizzate alla valutazione dello stress lavoro-correlato: da una parte l’importanza dell’utilizzo di molteplici metodologie (sia qualitative che quantitative), ogni qual volta sia possibile, in un’ottica complementare ed integrativa; dall’altra l’importanza d’avere esperti della materia che abbiano conoscenza e consapevolezza delle metodologie da utilizzare affinché la valutazione assuma un carattere non solo valutativo bensì preventivo al servizio del datore di lavoro e dell’intera organizzazione.
16 Ott 2018

La motivazione al lavoro

La motivazione al lavoro

La motivazione è in gran parte determinata dalla psicologia di un individuo. Le nostre vite, soprattutto la nostra vita lavorativa, sono fortemente influenzate dai sistemi di ricompensa creati dal nostro cervello.

Per capire come la gente interpreti la ricompensa, i leader possono capire quale sia il modo migliore per motivare con successo la loro squadra, e come comunicare in modo più convincente con i loro clienti. Ricordati, il termine ricompensa non implica sempre un significato economico.

Avere un team adeguatamente motivato significa in genere avere clienti più soddisfatti e felici.

Quando pensiamo al lavoro, di solito mettiamo la motivazione e il pagamento sullo stesso piano valoriale, ma la realtà è che probabilmente dovremmo aggiungere al nostro concetto di motivazione anche: il significato, la creazione, le sfide, la propria identità, l’orgoglio.

Per saperne di più su ciò che rende le persone più produttive e più felici al lavoro, sono stati eseguiti numerosi studi riguardanti questo affascinante argomento. Qui di seguito, diamo uno sguardo ad alcuni degli studi di Dan Ariely (economista comportamentale) contenenti interessanti implicazioni riguardanti ciò che ci fa sentire bene nel nostro lavoro.

1. Vedere i Frutti del Nostro Lavoro Può Renderci Più Produtti

L’esperimento: In uno studio condotto presso la Harvard University, Dan Ariely ha formato due gruppi e a entrambi i partecipanti ha chiesto di costruire i personaggi della serie Lego Bionicles, che sarebbero stati pagati loro con un importo decrescente per ogni successiva realizzazione: 3 dollari per il primo, 2,70 dollari per il successivo, e così via.

Mentre le realizzazioni del gruppo A venivano conservate sotto il tavolo, per essere smontate alla fine dell’esperimento, i Bionicles del gruppo B venivano invece smontati non appena erano stati costruiti, in un ciclo infinito di in cui quelli che costruivano vedevano distruggere le proprie creazioni davanti ai loro occhi.

I risultati: gli individui del gruppo A hanno costruito in tutto 11 Bionicles, in media, mentre chi partecipava nel gruppo B ne ha fatto solo 7 prima di smettere.

Il risultato finale: Anche se la posta in gioco non era elevata, e anche se gli appartenenti al gruppo A sapevano che il loro lavoro sarebbe stato distrutto al termine dell’esperimento, poter vedere i risultati del loro lavoro, anche per un breve periodo di tempo è stato sufficiente per migliorare sensibilmente le prestazioni.

2. Meno Viene Apprezzato il Nostro Lavoro, Più Sono i Soldi che Vogliamo in Cambio per Farlo

L’esperimento: Ariely ha dato ai partecipanti allo studio (studenti del MIT) – un pezzo di carta sul quale erano scritte lettere a caso, e ha chiesto loro di trovare le coppie di lettere identiche.

Ad ogni fase venivano offerti loro sempre meno soldi rispetto al turno precedente. Le persone del primo gruppo dopo aver scritto i loro nomi sui fogli e averli consegnati allo sperimentatore, questo dopo aver pronunciato un ambiguo “Uh huh”, riponeva quei fogli in un mucchio.

Gli individui del secondo gruppo non avevano scritto i loro nomi, e lo sperimentatore metteva le schede da loro consegnate in un mucchio, senza nemmeno guardarle.

Gli appartenenti al terzo gruppo hanno visto triturare il loro lavoro immediatamente dopo averlo completato.

I risultati: le persone che hanno visto distruggere il loro lavoro, al fine di continuare a fare quel compito necessitano del doppio di soldi rispetto a quelli il cui lavoro è stato riconosciuto.

Le persone del secondo gruppo, il cui lavoro è stato conservato ma ignorato, occorrono quasi tutti i soldi delle persone il cui lavoro è stato tagliuzzato.

Il risultato finale: Ignorare le prestazioni lavorative delle persone equivale quasi a frantumare il loro sforzo davanti ai loro occhi. La buona notizia è che aggiungere un po’ di motivazione non sembra essere così difficile. La cattiva notizia è che eliminare la motivazione è incredibilmente facile, e se non stiamo attenti potremmo esagerare.

3. Più Difficoltoso è un Progetto, Più ci Sentiamo Fieri di Lavorarci

L’esperimento: In un altro studio, Ariely diede a un gruppo di costruttori di origami principianti, carta e istruzioni per costruire una forma (abbastanza brutta, tra l’altro).

 

A chi aveva fatto il progetto origami, così come agli spettatori, fu chiesto alla fine quanto avrebbe pagato per quel prodotto realizzato.

In una seconda variante Ariely nascose le istruzioni da alcuni partecipanti, che realizzarono un prodotto più brutto facendo anche più fatica.

I risultati: Nel primo esperimento, chi aveva costruito gli origami avrebbe pagato il prodotto finito cinque volte di più rispetto a chi lo aveva solo valutato da spettatore.

Nel secondo esperimento, la mancanza di istruzioni ha enfatizzato questa differenza: i costruttori avevano valutato i prodotti brutti ma costruiti con difficoltà con un prezzo ancor più elevato rispetto a quelli realizzati con più facilità ed esteticamente migliori, mentre la valutazione degli osservatori era ancora inferiore.

Il risultato finale: la valutazione sul valore del nostro lavoro è direttamente legata allo sforzo che abbiamo speso per compierlo. Inoltre, pensiamo erroneamente che anche le altre persone attribuiscano lo stesso valore che noi diamo al nostro lavoro.

4. Sapere che il Nostro Lavoro Aiuta gli Altri Può Aumentare la Nostra Motivazione Inconscia

L’esperimento: Come descritto sul New York Times Magazine, lo psicologo Adam Grant ha condotto uno studio presso il call center per la richiesta di fondi per l’Università del Michigan, in cui uno studente che aveva beneficiato della borse di studio grazie alla raccolta fondi del centro, ha parlato per 10 minuti alle persone che lavoravano nel call center per richiedere via telefono donazioni alle persone.

I risultati: Un mese dopo, gli addetti del call center trascorrevano il 142% di tempo in più tempo al telefono rispetto a prima e i ricavi erano aumentati del 171%. C’è da dire però che questi hanno negato che l’intervento dello studente che aveva ricevuto la borsa di studio li avesse in qualche modo influenzati.

Il risultato finale: i buoni sentimenti hanno scavalcato i processi cognitivi consci degli addetti al call center, andando ad attingere ad una risorsa motivazionale subconscia. Sono stati spinti maggiormente ad avere successo, anche se non hanno individuato il fattore scatenante di tale forza motivazionale.

5. L’impegno di Aiutare gli Altri ci Rende Più Propensi a Seguire le Regole

L’esperimento: Grant ha condotto un altro studio in cui ha messo dei cartelli nelle aree adibite al lavaggio mani di un ospedale, sui quali si leggeva “L’igiene delle mani ti protegge dall’insorgenza di malattie” o “L’igiene delle mani previene ai pazienti di contrarre malattie”.

I risultati: Medici e infermieri utilizzarono per il 45% più sapone o disinfettante nelle stazioni con i cartelli che menzionavano i pazienti.

Il risultato finale: Aiutare gli altri attraverso quello che viene chiamato “comportamento prosociale” ci dà una forte motivazione al lavoro.

6. Il Rinforzo Positivo sulle Nostre Capacità Può Aumentare le Prestazioni sul Lavoro

L’esperimento: degli studenti della Harvard University hanno parlato e condotto finte interviste con due gruppi sperimentali: con i partecipanti al primo gruppo gli sperimentatori annuivano e sorridevano, mentre si erano rivolti al secondo gruppo scuotendo la testa inarcando le sopracciglia e incrociando le braccia.

I risultati: i partecipanti al primo gruppo in seguito risposero più accuratamente ad una serie di domande numeriche rispetto a quelli del secondo gruppo.

Il risultato finale: le situazioni stressanti possono essere gestibili, dipende tutto da come ci sentiamo. Ci troviamo in uno “stato di sfida” quando pensiamo di poter gestire un determinato compito (come ha fatto il primo gruppo). Quando invece siamo in uno “stato di minaccia“, la difficoltà del compito ci travolge, e ci scoraggiamo.

Siamo più motivati ​​e lavoriamo meglio all’interno di una stato di sfida quando abbiamo fiducia nelle nostre capacità.

7. Le Immagini che Innescano Emozioni Positive Possono Davvero Aiutarci a Focalizzarci sul Lavoro

L’esperimento: I ricercatori dell’Università di Hiroshima chiesero agli studenti universitari di eseguire un compito di destrezza prima e dopo aver guardato le immagini di animali cuccioli e adulti.

 

I risultati: in entrambi i casi si sono verificati miglioramenti di prestazione, ma un miglioramento superiore del 10% si è verificato quando i partecipanti hanno guardato le immagini di simpatici cuccioli e gattini.

Il risultato finale: i ricercatori suggeriscono che l’emozione positiva sella “carineria-scatenante” ci aiuta a focalizzare la nostra attenzione, aumentando le nostre prestazioni su un compito che richiede molta concentrazione.

09 Ott 2018

Le competenze necessarie nei team di lavoro

Nel mondo del lavoro di oggi è importante che i team siano altamente performanti, inter-funzionali e formati da persone in grado di adattarsi prontamente ai cambiamenti ed alla flessibilità richiesta nei contesti organizzativi.
La capacità di lavorare efficacemente in squadra, per il raggiungimento di obiettivi comuni, rappresenta quindi una competenza fondamentale per il successo delle persone e delle aziende.

 

Ecco le competenze fondamentali per una buona riuscita di un team.

1. Entusiasmo e Commitment

Un membro del team esemplare trasmette entusiasmo e commitment agli altri. L’impegno per la causa passa attraverso la condivisione degli ideali, della vision e della mission dell’organizzazione.

2. Competenza
Un buon team player si assicura di essere preparato. All’interno di un team composto da persone competenti, infatti, è più facile che le persone abbiano fiducia nel raggiungimento della qualità del risultato. La competenza costruisce una squadra forte e riduce l’ansia.

3. Perseveranza e Impegno
La perseveranza, la focalizzazione verso l’obiettivo, è facile per coloro che sono impegnati e concentrati. Quando si è impegnati, inoltre, si è fermi nella convinzione di farcela.

4. Creatività
Il pensiero fuori dagli schemi è la chiave per la trasformazione organizzativa e genera innovazione. Un team che risolve problemi in maniera creativa è vincente perché fatto di persone che non hanno avuto paura di condividere il loro pensiero, anche se non convenzionale, unite a persone che sono state capaci di accogliere nuove idee.

5. Senso dell’umorismo
La leggerezza tiene unita la squadra, insieme ai valori e alla visione condivisi. La dedizione e l’impegno nei confronti dei valori condivisi non impediscono ai membri del team di divertirsi!

6. Curiosità
I migliori membri del team fanno domande aperte, non sono portatori della verità assoluta e sono curiosi per natura, aperti ad ascoltare altri punti di vista.

7. Affidabilità
Un membro ideale del team comprende l’importanza dell’impegno preso verso se stessi e verso gli altri. Affidabilità è mantenere la parola data, di volta in volta.

8. Collaborazione
La collaborazione è prima di tutto dare il proprio contributo, prima ancora che offrirsi di aiutare gli altri. I membri forti del team valorizzano il potere e la sinergia create da un’efficace collaborazione.

 

02 Ott 2018

Il lavoro e la felicità

Si chiama Chief Happiness Officer e sviluppa la felicità sul posto di lavoro. Aiuta le aziende a misurare la felicità attraverso nuovi parametri come il grado di soddisfazione, la crescita del brand e la diminuzione degli infortuni.

Ecco alcuni consigli da seguire per perseguire la felicità sul posto di lavoro.

Iniziamo con aiutare gli altri
Parliamo di azioni di gentilezza nei confronti di un collega (offri aiuto con un progetto, fai un complimento sincero, fai spuntare un sorriso in un momento difficile, offri un caffè, etc). Se un collega è in difficoltà, invece di parlare di lui con gli altri, aiutalo.

Dedichiamo del tempo ai colleghi
Fermati a parlare con qualcuno alla macchinetta del caffè, instaura nuove relazioni, siediti ad un tavolo con persone nuove a mensa, connettiti con le persone e mantieni questi rapporti.
Un buon rapporto con gli altri, sul posto di lavoro, ci aiuterà a sorridere di più, ad alleviare la tensione, stimolare la creatività e migliorare le prestazioni.

Non fermarti, impara cose nuove
Prova a fare cose per la prima volta; impara da un collega, segui il modus operandi del capo, leggi un libro inerente un argomento che può aiutarti sul lavoro.
Imparare cose nuove ci fa sentire bene, ci mantiene curiosi ed entusiasti, inoltre ci dona un senso di successo e realizzazione che aumenta la fiducia in noi stessi.

Rimani positivo
Le emozioni positive, oltre che farci stare bene, ci permettono di lavorare meglio aumentando la nostra capacità di affrontare situazioni negative e la nostra flessibilità. Allenati ad essere positivo quindi in ogni situazione ed a guardare il bicchiere mezzo pieno svolgendo compiti che ti fanno stare bene, sorridendo e cercando di dire qualcosa di positivo quando si entra in ufficio. La reazione degli altri potrebbe sorprenderti.
Lasciamo fuori la negatività.

Stare bene con noi stessi
Cerca di essere con te stesso gentile allo stesso modo in cui lo sei con gli altri.
Guarda ai tuoi errori come a opportunità di crescita e celebra i tuoi successi, anche se piccoli.

Sviluppa la resilienza
E’ la capacità di gestire lo stress in modo sano, esercitandosi a riflettere prima di agire ed a mantenersi ad un certa distanza dai problemi, che non vuol dire fuggire e scansarli nascondendosi, ma guardarli dall’esterno.
Avremo un senso di stima e soddisfazione più elevato, saremo in grado anche di aiutare maggiormente i colleghi e soffriremo meno gli effetti negativi dello stress.