12 Giu 2019

L’effetto alone nel marketing

L’effetto alone nel marketing

L’effetto alone fa parte del repertorio classico della psicologia sociale, è un bias cognitivo, un pregiudizio che porta ad un errore di valutazione. L’alone è una sfumatura che percepiamo attorno a una fiamma o a un’altra sorgente luminosa.
Un fenomeno ottico, quindi, dato dall’impressione che la luce illumini un’area maggiore rispetto a quella reale.
E’ la difficoltà a valutare la realtà. Quante volte ci capita di giudicare una persona intelligente soltanto perché è di bell’aspetto? Le star di Hollywood dimostrano di possedere l’effetto alone. Perché spesso sono attraenti e simpatici e supponiamo naturalmente che siano anche intelligenti, amichevoli; insomma viene rimarcato su di loro un buon giudizio. Ma le nostre valutazioni, sono poi così accurate?
Percepiamo in maniera corretta la realtà dei fatti? La maggior parte delle volte questo non succede!
I politici per esempio conoscono molto bene i vantaggi di creare l’effetto alone. Cercano di apparire cordiali, amichevoli, sorridenti, mentre parlano di argomenti che spesso sono privi di sostanza o facendo giri di parole senza rispondere alle domande. Eppure le persone tendono a credere che la loro politica sia buona, perché la persona appare buona.

Il primo studio sull’effetto alone risale al 1920 con un’intuizione dello psicologo americano Edward Thorndike, noto per i suoi contributi alla psicologia dell’educazione, il quale osservò che quando veniva chiesto alle persone di valutare gli altri sulla base di una serie di tratti, una percezione negativa di uno dei tratti influenzava tutti gli altri.

Un inganno della mente quindi, successivamente studiato anche conducendo diversi esperimenti su gruppi di persone che hanno portato a risultati che confermano quanto potente sia questo effetto.
L’effetto alone trova molti esempi anche per quanto riguarda il marketing: è facile infatti che l’immagine di un prodotto o di un brand proveniente da un certo paese possa influenzare (positivamente o negativamente) l’opinione di altri prodotti provenienti da quello stesso paese.

Tra l’altro un effetto duraturo, difficile a morire, che funziona sia in direzione positiva che negativa, e che quando funziona in direzione negativa viene indicato come “devil effect”.
Un giudizio quindi che solo evidenti prove contrarie possono modificare, dato che sia l’effetto alone che l’effetto del diavolo influiscono su di noi senza che ce ne rendiamo conto.

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Pensiamo a quanto ciò possa influenzare i nostri giudizi sia sulle persone sia su tutto ciò che ci circonda: prodotti, canali di comunicazione, organizzazioni, politica: tutto è sottoposto a questo effetto.
Un grande impatto anche sul marketing, dove non è raro trovare “prodotti alone” appositamente lanciati per promuovere le vendite di un intero brand.

Basti pensare a quando, da utenti, approdiamo su un sito di cui ci piace un certo aspetto: è molto probabile che continueremo ad averne un giudizio positivo e torneremo a visitarlo.
Stesso vale per il contrario: un’esperienza negativa riguardo un certo aspetto farà sì che, sebbene nel frattempo quel sito venga migliorato, difficilmente torneremo a visitarlo.

Sempre per quanto riguarda il web marketing, è stato notato che la qualità dei risultati di ricerca interna ad un sito influenza notevolmente il giudizio che hanno gli utenti sulla qualità del marchio e dei suoi prodotti.
Un ragionamento non logico, certo, ma è proprio questo l’effetto alone: passare direttamente dall’impressione di un aspetto al giudizio complessivo.

Cosa di non poco conto, ad esempio, per chi analizza le prestazioni di un sito, in quanto un calo degli utenti potrebbe rispecchiare l’effetto della loro prima impressione negativa su alcuni elementi di progettazione, contenuti o grafica.

La conclusione è che, non potendo essere immuni dall’effetto alone, dovremo sempre farci i conti, sia per considerare i nostri giudizi sia, per chi lavora nel marketing, tenerlo in considerazione

29 Mag 2019

Emozioni e razionalità: le emozioni sono davvero così irrazionali?

Emozioni e razionalità: le emozioni sono davvero così irrazionali?

Alzi la mano chi non ha mai riflettuto sulle proprie ed altrui emozioni o non si sia mai sentito ostacolato da esse in determinate situazioni. Quando parliamo di emozioni, le abbiniamo immediatamente all’irrazionalità. Gli studi psicologici, tuttavia, dimostrano che esse sono, invece, molto razionali, poiché partono comunque dall’intelletto, derivano dalle funzioni cerebrali, e aiutano, più che ostacolare, l’uomo ad agire e reagire in determinati contesti in modo immediato.

Le emozioni esercitano un’influenza molto forte nella vita quotidiana di ciascuna persona, al punto da influenzare, di conseguenza, il corso delle azioni e le scelte.

Il significato etimologico di ‘emozione’ (dal fr. émotion, der. di émouvoir ‘mettere in moto, eccitare’ •sec. XVII) indica propriamente il movimento, l’impulso che ci porta all’azione. Ogni emozione non fa altro che dare voce ai nostri istinti: l’istinto di conservazione, di preservazione della specie, di difesa, di attacco, ecc.

In psicologia, le emozioni sono spesso definite come uno stato complesso di sentimenti che si traducono in cambiamenti fisici e psicologici, che influenzano il pensiero e il comportamento. L’emotività è associata a una serie di fenomeni psicologici, tra cui il temperamento, la personalità, l’umore e la motivazione.

Non possiamo negare le emozioni, ma solo imparare a identificarle e a canalizzarle, per il nostro equilibrio psicofisico. Se non ascoltate a pieno o assecondate, possono dar vita a disturbi di vario genere, come problematiche di ansia, ecc.

La reazione derivante dal provare un’emozione non è di una sola natura, ma di varie, poiché si tratta di risposte fisiologiche, neurologiche e cognitive.

Le principali teorie psicologiche sulle emozioni.

La teoria di James-Lange. È uno degli esempi più noti di teoria fisiologica delle emozioni. Lo psicologo William James e il fisiologo Carl Lange proposero teorie simili sull’emozione. Entrambi vollero sfidare quella che essi definivano la ‘teoria del senso comune’, secondo cui quando a qualcuno viene chiesto “Perché piangi?” replica: “Perché sono triste”. Questa risposta implica la convinzione che prima vengono le sensazioni, le quali, a loro volta, producono gli aspetti fisiologici ed espressivi dell’emozione. Secondo James e Lange, noi non piangiamo perché siamo tristi, ma ci sentiamo tristi perché piangiamo; non sorridiamo perché siamo felici, ma siamo felici perché sorridiamo, ecc. In sostanza, la reazione emotiva dipende da come vengono interpretate le reazioni fisiche.

La teoria di Cannon-Bard.  Walter Cannon, nel 1927, pubblicò una critica alla teoria James-Lange, convincendo molti psicologi che fosse una teoria insostenibile. Cannon sollevò la questione che l’emozione non è accompagnata da un unico evento fisiologico; lo stato di attivazione del sistema nervoso simpatico è, al contrario, presente in molte e differenti emozioni. Ad esempio, gli stati viscerali che accompagnano la paura e la rabbia sono esattamente gli stessi che sono associati alle sensazioni di freddo e alla febbre. Non sembra, dunque, possibile che le modificazioni fisiologiche negli organi viscerali provochino stati emotivi riconoscibilmente differenziati. Questa ipotesi venne poi ripresa da Philip Bard (1929), che sottolineò il ruolo fondamentale del talamo nello svolgimento dell’esperienza emotiva. Per Cannon e Bard (teoria di Cannon — Bard), gli impulsi nervosi che fanno passare le informazioni sensoriali vengono poi ritrasmessi attraverso il talamo, che riceve questo input verso l’alto della corteccia (provocando un’esperienza emotiva soggettiva) e verso il basso ai muscoli, alle ghiandole e agli organi viscerali (producendo delle modificazioni fisiologiche).

La teoria di Schachter-Singer. Conosciuta anche come la teoria a due fattori di emozione, è un esempio di teoria cognitiva dell’emozione. Questa teoria suggerisce che l’eccitazione fisiologica si verifica prima, e poi l’individuo deve identificare il motivo di questa eccitazione per sperimentare ed etichettarlo come emozione.

Vengono prima i processi cognitivi o quelli emozionali?

Secondo la teoria della valutazione cognitiva, la sequenza degli eventi coinvolge prima uno stimolo, poi un pensiero, per portare all’esperienza simultanea di una risposta fisiologica e dell’emozione. Ad esempio, se incontriamo un serpente nel bosco, immediatamente realizziamo che potremmo essere in pericolo. Ecco che sopraggiunge l’esperienza emotiva, ovvero quella della paura, e le risposte fisiche associate alla reazione di combattimento o fuga. Allo stesso modo, quando ascoltiamo in radio la nostra canzone preferita (stimolo), si attivano immediatamente sia il pensiero relativo al testo e al ritmo di quella canzone che l’attivazione fisiologica del nostro corpo, che vive così l’emozione.

Quali sono le emozioni principali?

Esistono due tipi di emozioni: le emozioni fondamentali e le emozioni complesse.

Le fondamentali sono dette anche ‘emozioni primarie’ poiché si manifestano già nei primi anni di vita dell’uomo e accomunano la specie umana a molte altre specie animali.

Le 6 emozioni primarie sono:

  1. Rabbia: generata dalla frustrazione e si può manifestare attraverso l’aggressività.
  2. Paura: è un’emozione dominata dall’istinto; ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una situazione pericolosa.
  3. Tristezza: si origina a seguito di una perdita o di uno scopo non raggiunto.
  4. Gioia: è un’emozione positiva di chi ritiene soddisfatti i propri desideri.
  5. Sorpresa: si origina da un evento inaspettato, seguìto da paura o gioia.
  6. Disgusto: è caratterizzato da una sensazione di repulsione o evasione di fronte alla possibilità, reale o immaginaria, di entrare in contatto con qualcosa di nocivo, che abbia delle proprietà contaminanti o infestanti.

Le emozioni complesse (secondarie) sono, invece, la combinazione tra emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e l’interazione sociale. Alcune sono: invidia;  allegria; vergogna; ansia; rassegnazione; gelosia; speranza; perdono; offesa; nostalgia; rimorso; delusione.

Emozioni e ragione sono alleate.

La visione che intende ragione ed emozione come forze antagoniste è ormai obsoleta e, possiamo azzardare nel dire, falsa. Gerald L. Clore, professore di Psicologia presso l’Università della Virginia, afferma: <<Piuttosto che pensare all’emozione e alla cognizione come cavalli che corrono in direzioni differenti, dovremmo pensare ad essi come capi di una stessa corda, rafforzati dal loro essere strettamente intrecciati>>.

La verità è dunque che non c’è un confine netto che separa la ragione dall’emozione. Si tratta di due dimensioni dell’essere umano che agiscono sempre insieme. Le emozioni danno luogo a certi pensieri, e i pensieri, a loro volta, fanno nascere determinate emozioni. Tutte le emozioni sono, in un certo senso, “pensate”.

Se consideriamo la razionalità in termini di processo psicologico, è doveroso ammettere che l’uomo non è da definirsi razionale in senso stretto, poiché le sue decisioni sono prese in larga misura sulla base di elementi inconsci, intuitivi, emotivi e strutturati attorno ad euristiche (scorciatoie di pensiero). Non è la razionalità, intesa come ragionamento controllato e logicamente corretto, a guidare la maggior parte delle scelte umane, soprattutto se esse devono essere prese in un tempo limitato, spesso immediato. Nonostante ciò, nella stragrande maggioranza dei casi, le nostre conclusioni sono valide e adattive. Un interessante studio longitudinale (Block & Funder, 1986) ha dimostrato che le persone che fanno maggiore affidamento sulle euristiche sono anche più felici, sane e affermate rispetto a quelle che invece fanno maggiore affidamento sul ragionamento deliberato e logicamente corretto.

Dovremmo, inoltre, dare la giusta rilevanza ai casi in cui una schiacciante emozione determina il comportamento. Questi casi possono essere certamente molto spiacevoli, come un omicidio passionale, ma, fortunatamente, non sono la norma. Quest’ultima è che il comportamento “insegue le emozioni”, come affermano Baumeister et al., 2006. Le azioni sarebbero motivate da sensazioni ed emozioni anticipate.

Si tratta, in sostanza, della ricerca del piacere e della fuga dal dolore come maggiori determinanti del comportamento umano.

Diversi studi dimostrano l’efficacia dell’emozione nella stimolazione del pensiero. L’apprendimento può essere favorito dalle emozioni. Per esempio, far apprendere l’alfabeto ad un bambino con dei giochini è più semplice ed efficace, in quanto il bambino sperimenta gioia attraverso il gioco.

Inoltre, gli stati di felicità favoriscono l’adozione di un punto di vista globale, mentre gli stati di malumore favoriscono l’attenzione per i dettagli. Ad esempio, fare un viaggio di piacere genera gioia e ci porta a vedere tutto molto positivamente, anche gli aspetti più quotidiani; avere un litigio con una persona cara ci porta, invece, a rimuginare sull’accaduto, ripensando ai dettagli della discussione e distogliendo l’attenzione dalle altre attività della giornata.

Tuttavia, anche l’interpretazione cognitiva, al contrario, vincolerebbe il significato dell’emozione, ne indicherebbe l’oggetto. In questo senso, l’intensità di un’emozione o, più generalmente, di uno stato affettivo, sarebbe in funzione dell’analisi cognitiva del contesto. Ad esempio, proviamo rabbia e tristezza quando apprendiamo la notizia di un omicidio, poiché è un atto che va contro il principio morale del diritto alla vita, ma proviamo maggiore rabbia e tristezza se la vittima è un bambino, poiché l’atto è considerato, a livello cognitivo e sociale, più riprovevole.

Possiamo concludere, dunque, che emozioni e razionalità non sono opposte, ma complementari e strettamente interconnesse.

22 Mag 2019

L’ autostima: cos’è e com’è possibile migliorarla

L’ autostima: cos’è e com’è possibile migliorarla

Sentiamo spesso parlare di autostima e molte persone, professionisti e non, dispensano di frequente consigli sulle strategie per aumentarla. L’autostima, tuttavia, è un costrutto non semplice da descrivere.

Allora, cos’è esattamente l’autostima?

L’autostima può essere definita come “l’ insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di se stesso” (Battistelli, 1994).

A costituire il processo di formazione dell’autostima, vi sono due componenti: il sé reale e il sé ideale.

Il sé reale è una visione oggettiva delle proprie abilità, di quello che si è realmente; il sé ideale corrisponde a come l’individuo vorrebbe essere.

Maggiore sarà la discrepanza tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, minore sarà la stima di se stessi, anche in base alle esperienze vissute e al confronto con gli altri. Per ridurre questa discrepanza, la persona può ridimensionare le proprie aspirazioni, in modo da avvicinare il sé ideale a quello percepito, oppure potrebbe cercare di migliorare il sé reale (Berti, Bombi, 2005).

In base a quali aspetti, nello specifico, un individuo si valuta positivamente o negativamente?

Giudizi altrui, sia diretti che indiretti. Si tratta del cosiddetto ‘specchio sociale‘: tramite le opinioni comunicate da altri significativi, il soggetto si autodefinisce.

Confronto sociale: la persona si valuta confrontandosi con chi lo circonda, traendo una valutazione su se stesso.

Processo di autosservazione: l’ individuo si valuta osservandosi, come se fosse una persona esterna, e riconoscendo le differenze tra se stesso e gli altri.

Ad esempio, Kelly (1955), il padre della Psicologia dei Costrutti Personali, considera ogni persona uno ‘scienziato’ che osserva, interpreta, attribuendo significati alle proprie esperienze, e cerca di predire ogni comportamento o situazione, costruendo una teoria su di sé per facilitare il mantenimento dell’autostima.

Le persone si muovono attraverso dei piani ideali: alcuni sono legati ad aspetti concreti e quotidiani della vita (ad esempio: “studiare in modo costante per laurearsi in corso”), altri a questioni più astratte, da realizzare a lungo termine (ad esempio: “diventare un professionista di successo”).
Esistono, principalmente, due tipi di ideali: gli ideali propriamente detti, ovvero esperienze, concetti e standard di riferimento a cui riferirsi e a cui tendere , e gli ideali negativi, ovvero persone, mete e circostanze (anche simboliche), da cui gli individui cercano di distanziarsi perché le giudicano negativamente.

A volte, le autoanalisi che contribuiscono a definire l’autostima di una persona sono falsate dalle sue distorsioni cognitive, ovvero da pensieri che inficiano la considerazione di sé e che di frequente non corrispondono a realtà (o solo in parte), oppure vengono generalizzati a tutti i contesti, o vengono ingigantiti, o non permettono di apprezzare a pieno i successi.

 

Ma come possiamo accrescere la nostra autostima?

 

Secondo Toro (2010), per accrescere la percezione positiva di sé esistono diverse strategie, quali:

  • l’incremento delle capacità di problem solving, poiché spesso l’autostima è in funzione delle proprie capacità di risolvere i problemi.
  • Lo sviluppo di un dialogo interiore (self – talk) positivo. Ad esempio, ripetere a se stessi (quotidianamente o in caso di necessità): “posso farcela”, “sono in grado”, “anche se non è semplice, ho tutte le capacità per poterlo fare”, migliora la percezione di sé e, di conseguenza, la propria autostima.
  • La ristrutturazione dello stile di attribuzione, tesa a farci raggiungere una maggiore obiettività, grazie alla quale è possibile interpretare situazioni e avvenimenti che non dipendono da noi come semplicemente sfavorevoli.
  • Il miglioramento dell’autocontrollo.
  • La modifica degli standard cognitivi: ponendoci aspettative eccessivamente elevate corriamo il rischio di non essere all’altezza di quelle attese e, quindi, di influenzare negativamente l’autopercezione. E’ necessario, dunque, porsi obiettivi più facilmente raggiungibili, mantenendo il giusto grado di ambizione.
  • Il potenziamento delle abilità comunicative: imparare ad essere assertivi, ad esprimere le proprie opinioni, necessità ed emozioni senza difficoltà, all’interno dei contesti sociali.

Infine, quando parliamo di autostima, non possiamo non fare riferimento al concetto di autoefficacia.

Con il termine ‘autoefficacia’ (Bandura, 2000) si intende la fiducia nelle proprie capacità di escogitare le strategie che ci consentono di affrontare nel modo ottimale qualsiasi evenienza.

La nostra autoefficacia dipende da molte variabili, quali, ad esempio: l’esito positivo di situazioni e contesti problematici affrontati; le esperienze vicarie, cioè quelle vissute indirettamente tramite l’osservazione degli altri che hanno saputo fronteggiare brillantemente situazioni di difficoltà, e lo stato di benessere derivante dall’aver superato prove particolarmente impegnative.

 

 

 

21 Mag 2019

La figura del Navigator

La figura del Navigator

Il navigator è la nuova figura professionale prevista nel decreto del Reddito di Cittadinanza 2019 (RdC) per aiutare i cittadini a trovare un lavoro. Infatti all’interno del pacchetto di misure che regola il reddito di cittadinanza è stata introdotta la figura del “navigator”, o tutor del reddito di cittadinanza. Il suo compito principale è seguire il disoccupato dalla presa in carico nei Centri per l’Impiego fino all’assunzione.

Chi sono e che cosa faranno i navigator?

Il navigator deve facilitare l’incontro tra i beneficiari del programma RdC e i datori di lavoro, i servizi per il lavoro e i servizi di integrazione sociale. Ha dunque il compito di fornire assistenza ai CPI (Centri per l’Impiego) nel seguire i beneficiari del reddito di cittadinanza nella ricerca di una nuova occupazione, e al tempo stesso di controllare che tutte le attività proposte siano svolte nei modi e nei tempi stabiliti.

La prima fase del lavoro di un navigator è quindi prendere in carico l’utente nel Centro per l’Impiego. Tutti coloro che usufruiscono del reddito di cittadinanza devono infatti siglare un “Patto per il Lavoro” con un centro per l’impiego o un’agenzia di lavoro. Il patto stabilisce la disponibilità immediata al lavoro della persona e l’adesione ad un percorso di inserimento lavorativo individuale.

Proprio il navigator si occupa di strutturare i percorsi individuali necessari all’inserimento e al reinserimento nel mercato del lavoro. Il navigator fa un colloquio di orientamento con i singoli candidati, per stabilire un bilancio di esperienze e competenze. Confronta poi il profilo del candidato con la domanda di lavoro locale e nazionale, per individuare le offerte di lavoro più in linea con il candidato.

Il tutor dei Centri per l’Impiego svolge quindi un servizio di orientamento e sostegno nella ricerca di occupazione, spiegando tecniche, pratiche, canali e strumenti di ricerca lavoro. Se in linea con le possibilità del candidato, il navigator propone anche un percorso di informazione e sostegno all’autoimpiego (lavoro autonomo), all’impenditorialità e all’avvio di un’impresa. Da qui il significato di navigator: un professionista che possa indirizzare e guidare il disoccupato verso un nuovo lavoro, trovato o creatob36579863623f8260810818dd318c2c5

Quali sono le competenze del Navigator?

Il bilancio delle competenze può invece evidenziare la necessità di formazione o aggiornamento professionale in ottica di una ricollocazione del candidato sul mercato del lavoro. In questo caso il navigator crea per il beneficiario del reddito di cittadinanza dei percorsi di formazione e riqualificazione, inseriti all’interno di un “Patto di Formazione” stipulato con gli enti di formazione accreditati o con i datori di lavoro.
Un’altra mansione del navigator è quella di controllare e sorvegliare il beneficiario del RdC. Infatti per continuare a ricevere il reddito di cittadinanza bisogna rispettare alcuni obblighi, come la frequenza delle attività di formazione, l’accettazione di una delle prime tre offerte di lavoro congrue, e lo svolgimento di almeno 8 ore settimanali in progetti e lavori socialmente utili per la comunità. Il navigator quindi supporta il beneficiario del reddito di cittadinanza nella ricerca del lavoro e al tempo stesso controlla che si impegni attivamente a seguire il percorso proposto.
A livello pratico, per diventare navigator è richiesta una laurea magistrale in economia, giurisprudenza, sociologia, scienze politiche, psicologia o scienze della formazione. Oltre al requisito della laurea, il navigator sarà uno specialista che avrà conseguito quattro anni di esperienza nel settore delle consulenza per il lavoro.

É inoltre fondamentale che il navigator sappiaRead More

17 Apr 2019

COS’È IL COUNSELING PSICOLOGICO?

COS’È IL COUNSELING PSICOLOGICO?

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Nonstante in questi ultimi anni sia andato incontro ad una forte crescita, c’è ancora una certa confusione tra i non addetti ai lavori riguardo a cosa sia e a cosa non sia l’intervento psicologico clinico che va sotto il nome di counseling.

Quando non è presente un espresso ed evidente disturbo psicologico, ma piuttosto una specifica personale difficoltà come modulare una crisi, prendere una decisione, trovare una soluzione, migliorare una relazione affettiva, amicale o lavorativa, scegliere tra molte opzioni, sviluppare una risorsa, gestire pensieri, emozioni e conflitti, etc., può essere molto utile e risolutivo il così detto counseling psicologico che è una “relazione d’aiuto” ed è professione disciplinata dalla Legge n°4 del 14 gennaio 2013.

La British Association for Counselling (BACP) fornisce la seguente definizione: «Il counseling psicologico è un uso della relazione abile e strutturato che sviluppi l’autoconsapevolezza, l’accettazione delle emozioni, la crescita e le risorse personali.
L’obiettivo principale è vivere in modo pieno e soddisfacente. Il counseling può essere mirato alla definizione e soluzione di problemi specifici, alla presa di decisioni, ad affrontare i momenti di crisi, a confrontarsi con i propri sentimenti ed i propri conflitti interiori o a migliorare le proprie relazioni con gli altri.

LO PSICOLOGO COUNSELOR
Il ruolo dello psicologo counselor è quello di facilitare il lavoro dell’utente in modo da rispettarne i valori, le risorse personali e la capacità di autodeterminazione.
Evidentemente, si tratta di un intervento di supporto e di aiuto psicologico alla persona, realizzato sotto forma di colloquio ed avente come obiettivi il miglioramento della qualità di vita del cliente e, più in generale, la promozione del benessere.
Con il counseling psicologico si cerca dunque di consentire, innescare, incentivare e proseguire nella persona una visione realistica di se stessa e dell’ambiente circostante, e quindi dei vari contesti vitali come quello sociale, familiare, affettivo, lavorativo, riducendo in tal modo al minimo fattori conflittuali, soggettivi e/o di errata valutazione.
Tale intervento, limitato nel tempo e negli obiettivi, è riservato al “trattamento” di problemi aspecifici (il dover prendere una decisione importante o migliorare le relazioni interpersonali) ed aventi un ambito circoscritto (affettivo, familiare, sociale, scolastico, lavorativo).
Si tratta di un vero supporto specialistico che si avvale della relazione e della comunicazione che tuttavia non è destinato a persone che risultano affette da disturbi mentali, bensì è indirizzato a soggetti che si trovano a vivere un particolare problema – personale, familiare, evolutivo, professionale e così via – e che, a causa di tale problema, necessitano di intraprendere un percorso di supporto mirato.
Lo psicologo counselor offre al soggetto che lo ha richiesto uno spazio di ascolto e di riflessione all’interno del quale sia possibile considerare e condividere tematiche personali ed emotivamente rilevanti, accrescere la conoscenza di sé e la consapevolezza di situazioni, difficoltà e risorse ed analizzare la situazione critica portata.
Il suo intervento è orientato ad aiutare il cliente ad esaminare ventagli di possibili scelte, a guidarlo rendendolo consapevole dei suoi punti di forza, delle sue risorse e delle ragioni delle sue difficoltà, a svilupparne le potenzialità. Così facendo, vengono promossi atteggiamenti attivi e propositivi ed incentivate le capacità di autodeterminazione; il cliente non rinuncerà al libero arbitrio e alla propria responsabilità seguendo indicazioni che gli vengono date dall’esterno, bensì sceglierà autonomamente, utilizzerà le proprie risorse personali e troverà una soluzione al problema che lo affligge.

È da affermare che un corretto intervento di counseling psicologico comporta il non giudicare la persona che si ha davanti, l’essere disposti a conoscerla, il rispettare i suoi valori e le sue convinzioni. Inoltre, esso differisce notevolmente dal dispensare consigli destinati ad essere seguiti passivamente.
Lo scopo del counseling è quello di consentire all’individuo una visione realistica di sé e dell’ambiente sociale in cui si trova ad operare, in modo da poter meglio affrontare le scelte relative alla professione, al matrimonio, alla gestione dei rapporti interpersonali con la riduzione al minimo della conflittualità dovuta a fattori soggettivi.

La persona può presentare stress, dubbi, preoccupazione, blocchi, problemi affettivi, ansia, bisogno di confidarsi, necessità di confronto e di ascolto, ma non necessariamente un conclamato disturbo psicologico e quindi la necessità di un intervento psicologico. E’ proprio in tale situazione che può allora essere utile e risolutivo il counseling psicologico.

Quello che comunque ci preme sottolineare è che aiutare le persone, in qualunque modo venga fatto è un’attività difficile e delicata, in cui la buona volontà, l’altruismo e la pazienza non bastano. A volte con le migliori intenzioni si possono creare gli effetti peggiori e risulta indispensabile avere un rapporto di fiducia e di collaborazione con un professionista preparato e di esperienza.