03 Lug 2019

Il Tecnostress

Il Tecnostress

Il termine Tecnostress venne coniato dallo psicologo americano Craig Broad nel suo libro edito nel 1984 da Addison Wesley: “Technostress: the human cost of computer revolution” (“Il costo umano della rivoluzione dei computer”). Lo psicologo faceva riferimento per la prima volta allo stress legato all’uso delle tecnologie e al loro impatto a livello psicologico.
L’utilizzo delle tecnologie informatiche è ormai talmente diffuso, che immaginare la nostra vita quotidiana senza computer o senza Internet sarebbe quasi inverosimile. Allo stesso modo il mondo del lavoro è talmente sempre più connesso all’utilizzo di apparecchiature informatiche, che anche le professioni più tradizionali si avvalgono ormai dell’aiuto delle nuove tecnologie. Ci sono poi delle attività lavorative, che vengono svolte quasi esclusivamente tramite l’utilizzo di attrezzature informatiche. In questi casi un rischio a cui sono sottoposti gli operatori è quello relativo all’enorme flusso di informazioni digitali, che il cervello umano deve processare. Ciò può causare notevoli problemi per la salute e la sicurezza sul lavoro delle persone, che svolgono attività con massiccio utilizzo di: computer, Internet, Email, Software di Istant Messaging (WhatsApp, Messanger; Skype, ecc…).

I tempi indotti dalla tecnologia che evolve troppo rapidamente non si adattano al percorso degli individui, per questo si sviluppa una pressione psicologica caratterizzata da disagio e frustrazione. Già nella definizione di Broad veniva fatto riferimento a determinati sintomi da ricondurre alla sindrome del Tecnostress come ansia, affaticamento mentale, depressione, incubi notturni; in particolare, molte persone erano soggette a frequenti attacchi di rabbia causati dalle difficoltà di utilizzo di computer e software e dalla gestione di guasti o blocchi che interrompevano l’attività lavorativa.

Un’elevata esposizione ai fattori finora elencati può comportare l’insorgenza di fenomeni quali:
-Tecnostress
-Internet dipendenza
-Email addiction

Oggi quello che stressa non è la scarsa performanza delle tecnologie informatiche, che anzi funzionano molto bene, bensì l’eccessivo utilizzo che se ne fa e l’enorme mole di informazioni a cui si è sottoposti. Tutto ciò può provocare notevoli scompensi per la salute:

-Affaticamento mentale, cefalea;
-Ipertensione;
-Insonnia;
-Disturbi muscolo-scheletrici;
-Ansia
-Attacchi di panico
Alterazione percettiva della realtà.
-Tutto ciò produce conseguenze anche a livello lavorativo (ed economico), generando: aumento dell’assenteismo, difficoltà nel lavoro in team, diminuzione della produttività.

 

1522142047692.jpg--la_sfida_della_produttivita__sovravvivere_al_tecnostress

Tra le patologie appena elencate l’insonnia e gli attacchi di panico meritano sicuramente un approfondimento.

Per quanto riguarda l’insonnia è stato verificato che, oltre al sovraccarico informativo, che impedisce il rilassamento del cervello prima del sopraggiungere del sonno, anche l’esposizione ai led a “luce blu” degli schermi touch può produrre alterazione del normale ciclo sonno – veglia.

Gli attacchi di panico sono anch’essi un sintomo grave del Tecnostress. Il panico è una paura estremamente forte, che si manifesta in maniera violenta ed improvvisa. Quando il nostro cervello percepisce un pericolo molto grave, il nostro organismo si predispone ad affrontarlo. Una volta passato il pericolo, la fase di allarme o “panico” dovrebbe ritornare sotto controllo riportando la situazione in equilibrio. Quando, invece, il cervello umano è subissato da un elevato numero di informazioni digitali, potrebbe insorgere la sensazione di non riuscire a gestire una tale mole di dati nei tempi richiesti. In questo caso la situazione non ritorna in equilibrio, generando uno stato di allarme costante, da cui possono scaturire gli attacchi di panico.

La gestione delle conseguenze prevede l’attuazione di strategie di prevenzione, formazione e di misure per la gestione del carico sintomatologico. Rimedi validi per il Tecnostress sono quelli che inducono al rilassamento mentale e fisico e all’interruzione, per alcuni porzioni di tempo, del flusso digitale attraverso tecniche mentali (pnl, esercizi di concentrazione), tecniche olistiche (yoga, agopuntura, meditazione), tecniche sportive (sport e passeggiate a contatto con la natura), tecniche rigenerative (alimentazione naturale, uso di piante mediche e officinali, omeopatia, naturopatia). In ambito professionale è importante prevedere una riorganizzazione del lavoro e un’adeguata distribuzione del carico informativo nel rispetto degli orari e degli spazi extra-lavorativi. Una buona strategia dovrà includere anche l’attivazione della richiesta di una maggiore formazione dei lavoratori sulla valutazione del rischio Tecnostress e dei danni connessi ai campi elettromagnetici.

29 Mag 2019

Social media manager: chi è e cosa fa

Social media manager: chi è e cosa fa

Sempre più spesso nell’ultimo periodo si è sentito parlare di social media manager, ovvero quella figura professionale che è rivolta alle aziende, istituzioni e organizzazioni, ma anche a figure pubbliche che si occupano di curare la propria immagine sui social network.
Questa figura professionale opera attraverso i principali social tra i quali YouTube, Facebook, LinkedIn, Twitter, Instagram e tanto altro.
Gli obiettivi in genere sono diversi, ma quelli più noti sono i seguenti ovvero: aumentare le vendite di un prodotto, migliorare la notorietà di una marca oppure l’immagine di una azienda. Spesso si tratta di una persona che, comunque, segue un percorso scolastico e professionale ben definito.
Una gestione efficace delle pagine e dei contenuti condivisi, il coinvolgimento della fanbase e la risoluzione in tempo reale delle eventuali “crisi”, del resto, sono task fondamentali per chi ha intenzione di investire sui social e su una strategia digitale coerente.

Il social media manager possiamo dire che è quella figura professionale che, in qualche modo, rappresenta un’azienda, un’istituzione e ne cura il progetto sui social network.
I canali che utilizza un social media manager sono quindi quelli di un:

– libero professionista
– di un’azienda
– una realtà no profit

socialmedia-manager

Il lavoro però in genere non è per forza legato a generare profitti in modo diretto, ma più che altro a raggiungere degli obiettivi. Si tratta quindi di un professionista che lavora proprio sui social network che gestisce una o anche più piattaforme, in base a quelle che sono le proprie necessità. Ovviamente trattandosi di una figura professionale a tutti gli effetti, deve essere in possesso di determinati requisiti e quindi deve essere una persona competente, con esperienza e propensione verso il lavoro. Come abbiamo già anticipato, dunque, è una una figura professionale che si rivolge alle organizzazioni, alle aziende, alle situazioni ma anche a figure pubbliche che vogliono in un qualche modo curare la propria immagine sui social network.

Gli obiettivi possono essere davvero tanti, come ad esempio:

– aumentare le vendite di un determinato prodotto o servizio
– aumentare la notorietà di una determinata marca o di una determinata azienda

Detto ciò ci si chiede quali siano effettivamente i suoi compiti e quindi quale può essere il campo di azione. La risposta è piuttosto semplice, ovvero il social media manager si occupa di quelli che sono i profili Social e va a definire un vero e proprio piano editoriale per ogni canale, studiandone e creando i contenuti, ma soltanto dopo aver studiato un target di riferimento e stilato gli obiettivi ben precisi.

Una volta fissati questi ultimi, il social media manager va a studiare un piano specifico per il cliente andando anche ad individuare il social più adatto per raggiungere il suo obiettivo. Soltanto a questo punto sviluppa una strategia specifica e poi va a fissare quindi gli obiettivi, i competitor ed anche il budget. Soltanto in un secondo momento si va ad occupare della gestione operativa dei social, che si può anche organizzare insieme ad altre strutture figure professionali che facciano parte sempre del team. Successivamente deve necessariamente pensare a gestire il piano editoriale, andando a definire gli argomenti i tempi ed anche i formati.

In questa fase coinvolge anche altre figure professionali come il grafico, il copywriter, il montaggio video. Infine c’è una fase che dedicata alla gestione del pubblico e alla discussione con il pubblico, ovvero quella fase in cui la pagina Facebook diventa un vero e proprio canale di customer care.

Chiunque sia convinto che il lavoro del social media manager si limiti a postare contenuti su Facebook, Twitter e simili, e al massimo a rispondere a un paio di commenti, si sbaglia.
Curare i canali social di un’azienda, un ente, un’associazione o qualsiasi altro soggetto pubblico, infatti, significa mettere in gioco non solo conoscenze tecniche (rispondendo a specifiche domande, come: quali sono i tool migliori per la propria strategia digitale, come si calcola il ritorno sopra gli investimenti e come fare per massimizzarlo, quali sono le scelte di contenuto che premiano il coinvolgimento delle community), ma anche una serie di soft skill che hanno a che vedere, per esempio, con le dinamiche delle interazioni umane e i rapporti interpersonali.

Quello dei social media è un mondo in continua trasformazione: cambiano gli strumenti, cambiano gli algoritmi e, a volte, non basta “copiare” dai contenuti più virali del periodo i principi per una strategia social vincente. L’unica cosa che si può fare è rimanere costantemente aggiornati sulle novità del settore e imparare dalla propria stessa presenza in questi ambienti, anche quando ciò significa esporsi al rischio fail.

08 Mag 2019

Le persone al centro della trasformazione digitale

Le persone al centro della trasformazione digitale

Per QWERTY si intende semplicemente la sequenza delle lettere dei primi sei tasti della riga superiore della tastiera di ogni pc. Lo schema fu brevettato nel 1864: le coppie di lettere maggiormente utilizzate vennero separate così da evitare che i martelletti delle macchine da scrivere si incastrassero tra loro, costringendo chi scriveva a doverli sbloccare manualmente. Nel 1932 fu presentata una diversa tastiera, che avrebbe consentito di rendere molto più veloce la scrittura ma non venne accettata. Ormai tutti si erano abituati allo schema “qwerty”, perché cambiare?! Solo per rendere più veloce la battitura?! Da allora le tastiere sono rimaste inalterate, tanto “si è sempre fatto così…”. Potremmo tutti scrivere più veloci ma non lo facciamo. Creiamo macchine sempre più sofisticate e potenti ma siamo prigionieri dell’abitudine, anche se palesemente anacronistica.

142313291-9a635b9c-32ce-477d-9cb7-f58b553781ec

Teoricamente questo tipo di approccio in sé potrebbe essere considerato perfino corretto, così come lo è ogni abitudine. Tutti noi normalmente viviamo solo grazie alle nostre abitudini. Il nostro cervello sul piano fisiologico è alla costante ricerca di tutti i modi possibili per economizzare ogni sforzo. L’abitudine è la risposta quotidiana a questa necessità. Non è necessario pensare ogni volta a ciò che dobbiamo fare. La facciamo e basta, perché così abbiamo sempre fatto e ci siamo sempre trovati bene nel fare certe cose invece di altre.

Facciamo un esempio. Ogni mattina, quando dobbiamo andare al lavoro, per guidare l’auto attiviamo il “pilota automatico” dell’abitudine. Facciamo sempre lo stesso percorso senza pensarci. Liberata l’attenzione dal compito di decidere la strada possiamo dunque dedicarci ad altro. Da una parte saremo più vigili su imprevisti repentini come un ciclista che ci taglia la strada, dall’altra potremo lasciare spazio all’immaginazione o ad attività a maggior valore aggiunto come la pianificazione della giornata di lavoro.

La vita organizzativa tende a essere modellata sulla falsariga del meccanismo che regola la vita individuale. Poiché, però, il contesto e il mercato cambiano con sempre maggiore velocità mentre l’organizzazione tende a conformarsi ad abitudini e regole non scritte ma operanti nei fatti, è lecito aspettarsi una sempre maggior lontananza tra quello che avviene quotidianamente e quello che sarebbe auspicabile per massimizzare il rapporto costi – benefici. In questo senso l’organizzazione vive strutturalmente nel “non sufficientemente ottimizzata”.

L’ottimizzazione quasi sempre deve muoversi contemporaneamente su più versanti: tecnologico, organizzativo funzionale e gestionale e umano. Nel giro di breve i downsizing, che normalmente giocano solo sul versante delle risorse umane, hanno il fiato corto.

Il senso di urgenza è necessario ma da solo non può bastare. Per analogia, il cantiere dell’ottimizzazione continua ha bisogno di elargire gratificazioni ai promotori del cambiamento e a chi ne subisce più degli altri gli oneri immediati.

Nel contempo è necessario tranquillizzare chi non è investito immediatamente dai processi di riorganizzazione, affinché possa lavorare con serenità. È quindi sempre molto utile avviare una rassicurante attività di comunicazione interna e di sviluppo per tutta la rimanente parte dell’organismo che deve continuare a produrre con forte motivazione e sguardo al futuro.

Per attecchire realmente ogni cambiamento si dovrà poi trasformare a poco a poco in una nuova abitudine, una sorta di nuovo percorso per andare al lavoro, che io possa rifare tutte le mattine senza doverci sempre ripensare.