26 Feb 2020

CONOSCI LE CARATTERISTICHE DI UN VERO LEADER?

CONOSCI LE CARATTERISTICHE DI UN VERO LEADER?

Quali sono le caratteristiche di un leader da tenere assolutamente in considerazione?

Quando parliamo di leadership ci sono tanti fattori da analizzare, che hanno a che fare con le idee, ma anche con le azioni.

Dare una definizione univoca di leader (e di leadership) non è affatto semplice; possiamo dire che la leadership è l’arte di motivare un gruppo di persone ad agire per raggiungere un obiettivo comune.

L’essere leader implica sicuramente essere in grado di ispirare gli altri e di essere pronti a farlo. Per fare questo, ci sono aspetti della personalità e caratteristiche che trasformano un soggetto in direttore dell’azione.

LEADERSHIP AZIENDALE: DI COSA PARLIAMO?

Per leadership aziendale si intende quel processo sociale che porta una persona, all’interno di un’azienda, ad essere in grado di influenzare i comportamenti degli altri senza l’ausilio di metodi coercitivi o minacce. Questo significa che il leader è in grado di  influenzare pensieri, atteggiamenti e comportamenti altrui, attraverso metodi che variano dalla motivazione alla comunicazione, dalla responsabilizzazione alla creazione di obiettivi comuni. In sostanza, la leadership aziendale è la capacità di guidare un gruppo verso un obiettivo comune, sfruttando le capacità e gli sforzi di ogni membro. Il concetto di gruppo è fondamentale. Senza seguaci, infatti, il leader non esiste, nonostante possegga tutte le caratteristiche e le qualità per essere una perfetta guida.

Nonostante non esista una definizione formale convincente di Leader aziendale, è comunque indubbio che avere un buon leader a capo di un gruppo aziendale sia di vitale importanza per la salute degli affari.

Proprio come un medico individua la patologia del paziente e stabilisce una terapia per la guarigione, allo stesso modo il leader aziendale deve essere in grado di diagnosticare i problemi del gruppo e trovare delle soluzioni adeguate per risolverli.

COSA NON È LA LEADERSHIP.

Abbiamo detto che fornire una definizione univoca di leadership è piuttosto complesso. Proviamo dunque a fare l’operazione inversa e cerchiamo di rispondere ad ogni tuo dubbio in materia parlando di cosa non è la leadership, sfatando qualche luogo comune:

  • Leadership non è gestione: La leadership all’interno di un’azienda spesso si confonde con la gestione del personale o con il management. È bene sottolineare che management e leadership sono correlati, ma non sono la stessa cosa. La più grande differenza tra manager e leader sta nel modo di relazionarsi con il lavoro. Il manager si concentra sulla supervisione dei risultati attraverso dati e statistiche, confrontandoli con gli obiettivi previsti e apportando, eventualmente, modifiche in termini di gestione economico-finanziaria e strutturale delle risorse. Il leader invece si focalizza sulle persone: cerca i modi per motivare il suo gruppo e per far sì che ogni membro dia il massimo per raggiungere l’obiettivo comune. Deve inoltre scegliere la giusta strategia di leadership aziendale per guidare il suo team verso il successo. Si può essere un manager o un leader, si può essere entrambi, o nessuno dei due, ma i due concetti rimangono comunque separati.

  • Leadership non è anzianità: l’avanzare dell’età o dell’esperienza in azienda non rende leader automaticamente. Possono esistere dei dirigenti senior, ma non è affatto detto che siano dei leader;

  • Leadership non è titolo: non esiste una laurea per diventare un leader. Ci sono delle caratteristiche che possono essere affinate e su cui si può lavorare per migliorare se stessi e la propria efficienza.

LE CARATTERISTICHE DI UN BUON LEADER:

  1. Comunicazione: Il leader deve essere in grado di spiegare in modo chiaro e sintetico ai dipendenti obiettivi SMART necessità organizzative di qualunque entità. I leader devono padroneggiare tutte le forme di comunicazione, comprese conversazioni individuali, dipartimentali e complete, nonché comunicazioni tramite telefono, e-mail e social media. Una gran parte della comunicazione implica l’ascolto. Pertanto, i leader dovrebbero stabilire un flusso costante di comunicazione tra loro e il loro personale o membri del team, sia attraverso una politica della “porta aperta” o conversazioni regolari con i lavoratori.

  2. Positività: Ci saranno molti alti e bassi, ma l’azienda li affronterà meglio se hai creato una cultura dell’ottimismo. Per farlo serve coraggio. Devi davvero credere di poter rendere possibile l’impossibile.

  3. Pianificazione: nessuna improvvisazione. Un buon leader deve essere capace di individuare le priorità e comprendere i problemi davvero rilevanti per risolverli nel minor tempo possibile. Deve intuire cosa accadrà, all’azienda e al mercato, nel medio e lungo periodo. 

  4. Affidabilità: essere affidabile è tutto per i leader aziendali, che agiscono un po’ come motivatori personali. I dipendenti devono essere in grado di sentirsi a proprio agio rivolgendo domande o chiedendo chiarimenti al leader. Onestà e integrità sono caratteristiche imprescindibili per ispirare gli altri. 

  1. Flessibilità: Soprattutto in questo momento storico, dove lo smart working si impone sempre più prepotentemente nelle aziende, la flessibilità è una delle caratteristiche di un leader fondamentali. Il buon leader dà sempre l’esempio, accettando i cambiamenti con positività.

  2. Responsabilità: È più facile dare la colpa di un errore a un’altra persona che assumersi le proprie responsabilità. Ma, nel lavoro di squadra, è importante che ognuno riconosca i propri sbagli con umiltà. Anche se a sbagliare è il capo.

  3. Creare un clima positivo, senza conflitti ed assegnare a ciascuno il proprio ruolo in azienda: ognuno deve essere in grado di lavorare nelle condizioni più favorevoli possibile e questo è un compito che spetta soltanto a chi è a capo di un gruppo di lavoro. Poiché si trascorre molto tempo in ufficio, è fondamentale che ci sia un clima sereno e di grande collaborazione. Un buon leader, quindi, deve essere in grado di capire gran parte degli aspetti caratteriali ed evitare, per quanto possibile, di creare team che non siano in grado di integrarsi e di lavorare insieme al raggiungimento degli obiettivi. 

26 Feb 2020

La dipendenza da videogiochi: l’ “Internet Gaming Disorder”

La dipendenza da videogiochi: l’ “Internet Gaming Disorder”

Molte volte sentiamo mamme o papà lamentarsi per la cattiva abitudine dei propri figli adolescenti nel trascorrere ore e ore della giornata davanti ai videogiochi.

L’uso eccessivo di videogiochi è un fenomeno molto frequente, soprattutto negli adolescenti. I dati statistici riportano che il 55 per cento dei ragazzi e il 20 per cento delle ragazze, già sotto i 15 anni, passano una media di due ore al giorno davanti alla console, giocando sui cellulari, con i tablet e con il pc.

L’industria dei videogiochi, diventa sempre più sofisticata grazie alla dilagante domanda da parte dei consumatori, per catturare nuovi clienti e per aumentare la loro spesa. I più importanti produttori di videogiochi, ad esempio quelli americani, stanno assumendo una specifica categoria di professionisti: gli psicologi. Questo perché i produttori hanno bisogno, sempre di più, di entrare nella testa dei ragazzi, devono afferrarli e, in qualche modo, renderli prigionieri. Proprio da un punto di vista psicologico, il passaggio da qui alla dipendenza è davvero molto sottile.

L’Internet Gaming Disorder nel DSM-5

La dipendenza patologica da videogiochi, infatti, è stata inclusa nella più recente versione del DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali). Nello specifico la troviamo sotto l’etichetta “Internet Gaming Disorder”, ovvero l’uso frequente di videogame sia online che offline, spesso insieme ad altri giocatori, che determina sofferenza o una compromissione significativa del funzionamento dell’individuo. Va detto che l’Internet Gaming Disorder è l’unica altra dipendenza comportamentale inserita, assieme al gioco d’azzardo patologico, nella sezione 3 del DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), ha inserito il gaming disorder nell’ultima revisione della International Classification of Diseases (Icd-11), l’elenco che contiene tutte le patologie riconosciute, oltre 55mila, usato per le diagnosi dai medici di tutto il mondo (la nuova versione verrà adottata a partire dal 2022).

Secondo il DSM.5, almeno cinque dei seguenti criteri diagnostici proposti per l’Internet Gaming Disorder, devono essere soddisfatti per un anno di tempo:

  1. Preoccupazione per il gioco online: la persona pensa frequentemente alla precedente o alla prossima attività di gioco così che il videogame diventa l’attività principale della vita quotidiana.
  2. Sintomi di ritiro quando il gioco online è impedito, descritti solitamente come irritabilità, ansia o tristezza.
  3. Un aumento progressivo della tolleranza al gioco che conduce alla necessità di spendere sempre più tempo giocando.
  4. La persona ha provato a smettere o a trattenersi dal giocare online ma ha fallito.
  5. La persona ha perso interesse per le relazioni nella vita reale, gli hobby precedenti o altre forme di intrattenimento come risultato dell’attività di gioco online.
  6. La persona ha continuato ad abusare del gioco online pur sapendo quanto impatto ciò avesse sulla sua sfera psicosociale.
  7. La persona ha mentito a familiari o altre persone in merito alla quantità di tempo speso a giocare.
  8. La persona usa i giochi online come via di fuga dalla realtà o per alleviare sentimenti di ansia, colpa o impotenza.
  9. La persona ha perso o ha messo a rischio una relazione, un lavoro o un’opportunità di studio o di carriera a causa del gioco online.

Per essere riconosciuto come problema mentale, il gaming disorder deve durare almeno 12 mesi, ma ci possono essere eccezioni per casi particolarmente gravi. Chiaramente non tutti i videogiocatori soffrono del disturbo: anzi, i “malati” sono solo una minima parte.

Specificazioni diagnostiche

Gli autori del DSM-5 compiono anche una serie di riflessioni e di ampliamenti teorici sui diversi criteri diagnostici presentati. La preoccupazione per il gioco deve essere presente al momento in cui il giocatore non è impegnato nel gioco. Essa deve manifestarsi più volte al giorno nel corso dello stesso giorno. L’aumento di tempo speso a giocare deve essere spiegato da un incremento del desiderio di gioco. Dovrebbe essere presente la percezione di non essere appagati da sessioni di gioco di durata inferiore. L’aumento di tempo dedicato al gioco non dipende solamente da un aumento del tempo libero (es. la fine della scuola).

Diagnosi differenziale della dipendenza da videogame

È importante diversificare questo disturbo dall’”Internet Addiction” e dal “Gambling Disorder”.

  • “Internet Addiction”: ovvero la dipendenza da internet, fa riferimento alle conseguenze negative derivanti da qualsiasi attività che può essere svolta online (Young et al., 1999). Quindi non solo l’uso eccessivo e problematico di giochi online o offline come nel caso della dipendenza da videogiochi;
  • “Gambling Disorder”: fa riferimento al coinvolgimento eccessivo e problematico con giochi che prevedano scommesse di soldi. Ciò non riguarda i videogame, sebbene alcuni di questi prevedano la possibilità di “sbloccare” delle funzioni pagando.

videogiochi

I sintomi

Il gaming disorder porta principalmente tre sintomi: ansia e stressrabbia e violenzasvogliatezza fino alla totale mancanza di appetito e di sonno. Una vita che appassisce, insomma.

Poi, ci sono problemi anche organici perché spesso questi giovani ragazzi non mangiano, non bevono e non dormono per giocare, con conseguenze anche sulla loro salute.

Sicuramente possono esserci anche delle complicanze neurologiche: famosi sono stati in passato i casi di crisi epilettiche indotte dalla stimolazione luminosa e dalla deprivazione di sonno a cui questi soggetti erano esposti. Anche la cefalea non manca mai, sia come complicanza dello stato emotivo (sintomo indotto dallo stress), che come meccanismo organico per un problema legato all’esposizione protratta al gioco.

Come combattere la dipendenza dai videogiochi

  • Allertarsi, e non restare passivi o indifferenti, di fronte ai primi segnali di dipendenza dei ragazzi.
  • Giocare con loro, scegliere con loro il videogioco e condividere con loro il tempo necessario e sufficiente per avere il piacere di godersi questa forma di divertimento. Insieme, e non da soli.
  • Non utilizzarli nelle camere da letto, spiegando che non è il luogo giusto per i videogiochi, in questo caso nemici del prezioso sonno.
  • Proporre e condividere qualche alternativa, anche la più semplice: un film, una passeggiata, buona musica, una lettura.

È importante sapere che ore e ore davanti a una console o ad uno smartphone, peggiorano la qualità della vita degli adolescenti, li rendono più aggressivi e più irascibili, peggiorano la qualità delle loro relazioni con i coetanei. E li spingono verso il baratro della solitudine.

Per via della sovrapposizione diagnostica e clinica con altre forme di dipendenza comportamentale è lecito supporre che esse beneficino di trattamenti psicoterapici di tipo cognitivo comportamentale. Questi possono essere integrati da tecniche proprie del colloquio motivazionale e dalle strategie di prevenzione delle ricadute utili per le dipendenze in generale.

19 Feb 2020

SCHEMA THERAPY

SCHEMA THERAPY

Cosa è la Schema Therapy?

La Schema Therapy è stata originariamente ideata dallo psicoterapeuta Jeffrey Young per pazienti con disturbi psicologici cronici e radicati che non hanno tratto beneficio dalla terapia cognitivo comportamentale standard. Negli ultimi anni la Schema Therapy è diventata un modello generale per il trattamento di diverse problematiche.

La Schema Therapy offre un approccio innovativo ed efficace per il trattamento di pazienti con disturbi d’ansia, depressione, disturbi alimentari e in particolar modo per i disturbi di personalità. I problemi vengono affrontati su un piano emotivo, cognitivo e comportamentale, con l’applicazione di numerose tecniche tratte dalle diverse terapie (Terapia Cognitivo Comportamentale, della Psicanalisi, del Costruttivismo, della Terapia della Gestalt, della Terapia Focalizzata sulle Emozioni e dell’Attaccamento, …).

Per quale motivo la Schema Therapy risulta essere così efficace?

In questa terapia il focus iniziale è costituito da quello che la persona che soffre porta nel colloquio con lo psicoterapeuta. Lo psicoterapeuta indaga su quelle che sono le costanti problematiche del paziente partendo dal presente e procedendo all’indietro nella storia della persona in terapia, fino al momento in cui tali problematiche si sono formate, ovvero nell’infanzia. Poi si cerca di capire insieme alla persona cosa è capitato nella sua infanzia che lo ha portato a stare male e si individuano quindi i bisogni emotivi che non sono stati soddisfatti. Tale non soddisfacimento dei bisogni emotivi da bambina costituisce un trauma ripetuto che porta alla formazione di quelli che vengono chiamati schemi maladattivi precoci. Per “schemi” si intendono quelle emozioni, pensieri, ricordi, sensazioni corporee dolenti che si sviluppano se bisogni universali d’amore, di protezione, autonomia, libertà, spontaneità-gioco e contenimento non sono stati soddisfatti nell’infanzia. Questi schemi possono essere attivati da particolari situazioni che in qualche modo richiamano gli eventi dolorosi del passato e possono essere rivissute ripetutamente nel corso della vita causando una sofferenza intensa e portando a condotte disfunzionali.

schema therapy

Gli Schemi risultano quindi essere delle costanti nella vita di una persona e tenderanno ad attivarsi anche nel presente. Questo avviene tramite dei complessi meccanismi fisiologici che si attivano in una zona del cervello chiamata amigdala. L’Amigdala è la sede in cui viene immagazzinata la componente emotiva di un ricordo e si attiva in modo molto forte ogni qualvolta l’individuo si trova in una situazione in cui si potrebbe ripresentare un evento negativo.

Quando una persona ha formato degli schemi maladattavi, l’amigdala tende ad attivarsi in modo sempre più generalizzato producendo nell’individuo fortissime emozioni ancora prima che il soggetto possa capire cosa gli sta capitando. In questi casi la persona mette in atto tre tipi di comportamento: resa, evitamento, contrattacco che tendono a rafforzare lo schema stesso e ad incrementare l’attivazione dell’amigdala stessa.

Le caratteristiche più peculiari della Schema Therapy sono:

  • Enfasi sulle emozioni e bisogni delle persone. La Schema Therapycerca di cogliere quali esperienze si attivano in un determinato momento e aiuta a trovare delle modalità adattive e sane per soddisfare i propri bisogni;
  • Una comprensione delle difficoltà attuali attraverso una rielaborazione dei vissuti dolorosi dell’infanzia e dell’adolescenza, per favorire esperienze nuove e correttive nel presente.
  • Enfasi sulla relazione terapeutica, che viene vista come base sicura.

Come è strutturata la Schema Therapy?

In generale, la Schema Therapy si articola in tre fasi:

  1. Assessment psicoeducazione”: il terapeuta aiuta il paziente ad analizzare i problemi principali, a comprenderne le origini e a creare delle associazioni fra essi e i problemi della vita presente.  Il terapeuta deve spiegare le problematiche principali, dare indicazione per la seconda fase di trattamento, ma soprattutto creare una relazione terapeutica in cui il paziente si senta compreso, rispettato e sicuro.
  2. Trattamento e Cambiamento”: è la fase in cui vengono attivate diverse tecniche e strategie (tecniche esperienziali/emotive, tecniche cognitive, tecniche comportamentali e tecniche relazionali), con l’obiettivo di correggere gli schemi e sostituire gli stili di coping disadattivi con modelli di comportamento più funzionali.
  3. Autonomia”: in questa fase il paziente assume sempre più responsabilità, sviluppa relazioni sane fuori del contesto terapeutico, aumenta l’integrazione sociale e lavorativa. Gradualmente in questa fase si riducono i contatti tra paziente e terapeuta.

Il terapeuta e la Schema Therapy

Il terapeuta della Schema Therapy deve:

  • Presentarsi come una persona “vera” e genuina;
  • Essere disponibile a soddisfare i bisogni primari di sicurezza, stabilità, accettazione e autonomia;
  • Mettere a confronto la persona con le sue sofferenze e strategie di vita, in modo delicato e chiaro;
  • Entrare in relazione e costruire un dialogo curativo con tutte le parti disturbanti e sane del paziente.

Spesso si pensa che “il passato è passato” e che ormai non si possa fare niente. Questo però non è assolutamente vero. Partendo da una buona relazione terapeutica, lo Psicoterapeuta all’interno del contesto della Schema Therapy può cambiare come il paziente vive il passato, le emozioni collegate ai ricordi, e quindi cambiare sé stesso e la propria personalità.

In conclusione, l’obiettivo della Schema Therapy, è quello di rafforzare il cosiddetto “Adulto sano” presente in noi, che accudisce e valorizza la nostra parte vulnerabile. Infatti, molte delle persone che hanno seguito la Schema Therapy, riferiscono di sentire dentro una parte adulta che entra in contatto con quella parte bambina e con i suoi bisogni, prendendosene cura come un bravo genitore o un adulto sano. Quindi, è proprio dentro sé stessi che i pazienti hanno ciò che permette loro di vivere una vita finalmente serena.

19 Feb 2020

DEFINIRE GLI OBIETTIVI AZIENDALI CON IL METODO S.M.A.R.T.

DEFINIRE GLI OBIETTIVI AZIENDALI CON IL METODO S.M.A.R.T.

Gli obiettivi fanno parte di ogni aspetto della vita: come conduci le tue relazioni, cosa vuoi raggiungere al lavoro, come usi il tempo libero e così via. Tutto si riduce alle priorità e cosa vorresti ottenere in ogni aspetto, se fai una scelta consapevole o vai con le preferenze del subconscio. Senza fissare obiettivi, la vita diventa una serie di eventi caotici che non controlli. Diventi il giocattolo della coincidenza. Lo stesso per gli obiettivi aziendali.

PRIMA REGOLA: per ottenere dei risultati bisogna avere degli obiettivi chiari, definiti, misurabili.

Il metodo S.M.A.R.T. è stato sviluppato da Peter Drucker nel 1954, come parte integrante della filosofia di gestione aziendale MBO (Management by Objectives). Si tratta di un sistema per la definizione degli obiettivi, che vengono messi al primo posto rispetto alle attività necessarie per il loro raggiungimento. Una efficiente gestione degli obiettivi di business è possibile soltanto se ne si conosce la validità. Il metodo S.M.A.R.T. ed è un acronimo tanto semplice quando efficace.

S(specific)
Un obiettivo deve essere innanzitutto quanto più
specifico e preciso possibile. Mai generalizzare. Tutto deve essere tangibile. Gli obiettivi vaghi o generalizzati non sono utili perché non forniscono una direzione sufficiente. 

Le domande seguenti possono essere un buon punto di partenza:

Cosa voglio realizzare?”

Perché questo obiettivo è importante?”

Chi è coinvolto?”

Dove si trova?”

Quali risorse o limiti sono coinvolti?”

Il segreto per rendere specifico un obiettivo è caratterizzarlo tramite un numero e una scadenza.

M(measurable)
Un obiettivo è misurabile se, dopo una certa data di inizio, puoi visualizzare gli avanzamenti verso il risultato sperato.L’obiettivo deve poter essere espresso numericamente. “Voglio vendere di più” non è un obiettivo. “Voglio aumentare le vendite di tale prodotto del 10%” lo è. Impostare obiettivi misurabili permette alle persone di “mantenere la rotta“, restare nei tempi prestabiliti, provando progressivamente la soddisfazione del risultato che sprona all’impegno necessario per raggiungere l’obiettivo finale.

Un obiettivo “misurabile” è in grado di rispondere a queste domande:

Quanto?”

Quanti?”

Come saprò quando è compiuto?”

A(achievable)
Ovvero
raggiungibile. Puoi definire tutti gli obiettivi che vuoi ma la concretezza è la componente che fa la differenza tra sogni e ambizioni. Il tuo obiettivo deve essere quindi realistico e commisurato alle risorse e alle capacità di cui disponi. Per impostare obiettivi pertinenti e concreti dovresti definirne pochi, i più rilevanti. Senza questo tipo di focus, puoi finire con troppi obiettivi, lasciandoti troppo poco tempo da dedicare a ciascuno di essi.

Un obiettivo rilevante può rispondere “sì” a queste domande:

Questo sembra valere la pena?”

È questo il momento giusto?”

Questo corrisponde ai nostri altri sforzi / bisogni?”

Sono la persona giusta per raggiungere questo obiettivo?”

È applicabile nell’attuale contesto socio-economico?”

R (relevant)
Raggiungere un obiettivo significa investire tempo e denaro.Sarebbe bene valutare i
limiti e le risorse necessarie che hai a disposizione e che potresti usare per l’obiettivo in essere. Ne vale davvero la pena? Riflettici bene e analizza i costi e i benefici.

Un obiettivo raggiungibile risponderà a domande come:

Come posso raggiungere questo obiettivo?”

Quanto è realistico l’obiettivo, basato su altri vincoli, come fattori finanziari?”

T(Time-based)
Ogni obiettivo deve avere una scadenza e prevedere diversi step di verifica. “Voglio aumentare le vendite di tale prodotto del 10% ENTRO SEI MESI”. Solitamente un obiettivo legato al tempo risponde a queste domande:

Quando?”

Cosa posso fare tra sei mesi?”

Cosa posso fare tra sei settimane da oggi?”

Cosa posso fare oggi?”

Per stimare il tempo di raggiungimento dell’obiettivo potresti suddividere l’obiettivo in più attività e assegnare un responsabile ad ognuna di esse. Successivamente, per stimare la durata di un’attività potresti utilizzare la tecnica del backward planning, o pianificazione a ritroso. Tramite essa, parti dalla scadenza dell’obiettivo e definisci a ritroso le varie attività che dovrai svolgere quotidianamente e quanto tempo dedicherai ad ognuna di esse fino ad arrivare ad oggi.

Se vedi che necessiti di maggior tempo puoi fare tre cose:

  1. Svolgere attività in parallelo (ove possibile);

  2. Aumentare il numero di persone per team;

  3. Spostare in avanti la data di raggiungimento dell’obiettivo, per evitare di rendere l’obiettivo irraggiungibile.

VARIANTI DEL METODO SMART

Nel corso degli anni, come spesso accade, anche il metodo S.M.A.R.T. ha subito reinterpretazioni e varianti, a seconda dei diversi ambiti di utilizzo. Ad esempio, in un progetto che coinvolge più persone la lettera A dell’acronimo può significare “Assignment”, perché per la sua realizzazione è necessario individuare “chi fa cosa” all’interno del gruppo di lavoro.

Il metodo SM.A.R.T. ti permette quindi di analizzare oggettivamente un progetto o un’idea di business e capire se e quanto l’obiettivo che intendi raggiungere sia chiaro, definito, misurabile, fattibile e strutturabile/verificabile su di una base temporale concreta. Se ti senti sopraffatto o intimorito dalle dimensioni e dalla complessità di un obiettivo, e ti serve una strategia per portarlo a termine, il metodo S.M.A.R.T è la risorsa che fa per te.

12 Feb 2020

PHILOFOBIA: LA PAURA DI INNAMORARSI

PHILOFOBIA: LA PAURA DI INNAMORARSI

Ognuno di noi ha delle paure, ma non tutti le vivono con la stessa intensità! Le fobie sono paure irrazionali, estreme che possono concentrarsi su più focus diversi.  Quando si parla di fobia si entra nell’ambito del disagio psicologico, dove una minaccia aumenta di dimensioni e le reazioni sono incontrollabili. Una fobia può focalizzarsi potenzialmente su un qualunque oggetto anche la cui natura sia positiva.

Ma come si può aver paura dell’amore?

Si sa che le prime fasi dell’innamoramento sono quelle che più fanno battere il cuore e che rimangono nei nostri ricordi. Eppure, non tutti sono così aperti alla possibilità di amare. Alcuni, addirittura, soffrono della cosiddetta “philofobia”, ossia la fobia dell’innamoramento. Chi ne soffre ha paura di innamorarsi ed evita tutte quelle situazioni che possano causare lo sbocciare di un nuovo amore.

L’etimologia del termine philofobia, deriva da due parole greche: “philo” che significa amore e “fobia” che significa “paura”. La traduzione letterale è pertanto paura d’amore, e vuole significare la paura che può provare un soggetto, verso l’amore romantico o la creazione di legami emotivi in generale.

La philofobia, o filofobia, o philophobia, rientra nella classificazione delle fobie, poiché ne possiede le caratteristiche:

  • Paura eccessiva e persistente verso la situazione ritenuta minacciosa;
  • Davanti allo stimolo fobico, si presenta immediatamente l’ansia;
  • Il soggetto stesso riconosce la paura come irrazionale;
  • L’evitamento dello stimolo fobico diventa la strategia del soggetto per evitare la paura.

Non confondiamo la philofobia con una delusione d’amore. Sentirsi traditi o non corrisposti non è certamente un’esperienza piacevole, ma può portare all’evitamento dell’amore, non necessariamente alla paura dello stesso. La philofobia ha origini più profonde e spesso personali. Quali sono le cause? Come superare questa fobia?

Le Cause

Le persone che soffrono di philofobia non sono in grado di stabilire un coinvolgimento emotivo. La paura dell’amore può iniziare evitando il contatto ravvicinato con membri del sesso opposto, per poi trasformarsi in un’insensibilità nei confronti delle relazioni affettive, tale da evitare tutte le persone.

La philofobia può essere un disturbo fobico semplice oppure può fare parte di un quadro psicologico più ampio (cioè si manifesta in soggetti che soffrono di altre fobie e/o disturbi d’ansia).

Come accade per altri disturbi fobici, le cause esatte della philofobia non sono ancora state identificate. Tuttavia, esistono alcuni fattori che possono favorire la paura dell’amore:

  • Pregresse esperienze negative: una storia d’amore finita male, un divorzio, la separazione dei genitori, violenza domestica, l’abbandono.
  •  Pregiudizi culturali: esistono pregiudizi, credenze e convinzioni che inibiscono o addirittura proibiscono relazioni d’amore romantiche: basti pensare alle etnie in cui i matrimoni sono organizzati dalle famiglie. Certe relazioni d’amore sono vietate (come nel caso dell’omosessualità) o viste come “peccato” e, se le norme dettate dai preconcetti vengono violate, sono punite brutalmente. Ciò può causare frustrazione e senso di colpa in chi si innamora.
  • Depressione e disturbi d’ansia: coloro che soffrono di depressione sono particolarmente vulnerabili dal punto di vista emotivo, quindi sono predisposti a sviluppare dei meccanismi di difesa, isolandosi o evitando qualsiasi legame d’amore. La philofobia può presentarsi anche in persone con disturbi ossessivo-compulsivi, le quali, in particolare, non sono disposte a “perdere il controllo” ed a mostrare le proprie debolezze.

I Sintomi

La philofobia si delinea come un sentimento che nasce dalla paura di perdere il controllo di sé a causa delle proprie emozioni o del rivelare sé stessi.

A livello psicologico i sintomi della philofobia sono:

  • Ansia in presenza dello stimolo fobico;
  • Paura persistente dell’innamoramento,che include anche angoscia e nervosismo al pensiero di essere coinvolto in una relazione;
  • Difficoltà a rapportarsi con un possibile partner;
  • Isolamento dal mondo esterno e solitudine.

Questi sintomi si possono verificare sia all’inizio della storia, ma anche dopo qualche appuntamento, quando il soggetto capisce di stare entrando in una relazione d’amore.

Quando il soggetto si confronta con qualsiasi cosa associata all’amore ed al romanticismo, la philofobia può indurre anche una serie di segni fisiologici-somatici, tra cui:

  • Aumento del battito cardiaco;
  • Respirazione affannosa;
  • Senso di svenimento o vertigini;
  • Nausea;
  • Sensazione di “testa vuota” o di vivere in una situazione irreale;
  • Bocca secca;
  • Sudorazione eccessiva (specie alle mani);
  • Tremori;
  • Pianto;
  • Intorpidimento.

Questi sintomi sono tipici delle forme fobiche e sono una risposta del corpo che si “prepara alla fuga” perché la mente ha passato l’informazione di una situazione di pericolo.

Terapia e Rimedi

Le persone che sviluppano una philofobia persistente ed ingiustificata, spesso hanno bisogno di un supporto per essere in grado di impegnarsi in relazioni normali. A seconda della gravità del quadro clinico, la philofobia può essere affrontata in modo efficace con la combinazione di vari approcci terapeutici (psicoterapia, farmaci, desensibilizzazione sistemica, ipnosi ecc.). Questi interventi hanno l’obiettivo di indurre il paziente a razionalizzare la propria fobia, cercando di concentrarsi sulla possibilità di reagire ai pensieri ansiogeni e di affrontare le convinzioni negative associate all’idea di innamorarsi.

 

“Ci sono due forze motrici fondamentali: la paura e l’amore. Quando abbiamo paura, ci ritraiamo indietro dalla vita. Quando siamo innamorati, ci apriamo a tutto ciò che la vita ha da offrire con passione, entusiasmo, e l’accettazione” (John Lennon).

12 Feb 2020

LEADERSHIP FEMMINILE

LEADERSHIP FEMMINILE

In una meta-analisi condotta presso la Northwestern University si è dimostrato che la leadership continua ad essere vista, dal punto di vista culturale, come qualcosa che appartiene al genere maschile. Gli studi hanno scoperto che le donne manager incontrano soprattutto due tipi principali di pregiudizio: esse sono considerate “meno qualificate” e “meno naturali”, rispetto agli uomini, nei ruoli di maggiore comando.

La leadership al femminile non è valutata positivamente poiché le doti o qualità che sono associate all’immagine stereotipata delle donne non vengono considerate utili o desiderabili.
Cosa manca alle donne per essere delle buone leader? Lo stereotipo femminile esclude competenze desiderabili al lavoro, come assertività, capacità di negoziare, la volontà e il comando. La leadership delle donne d’altro canto viene ostacolata da caratteristiche che non rientrano nell’immagine del “buon capo”. Anche in questo caso l’ostacolo maggiore è lo stereotipo che abbiamo in mente, perché di per sé queste competenze potrebbero costituire anche delle ottime qualità, vediamone alcune:

-empatia;

-incapacità di mettere al di sopra di tutto gli aspetti economici-finanziari e la tendenza a sottovalutarsi.

Inoltre, finora le qualità principali di una leadership di successo si basavano sui concetti di assertività e competitività associati a una leadership maschile, ma nel nostro secolo a causa di notevoli cambiamenti nel campo delle tecnologie e nella globalizzazione, si potrebbe anche ipotizzare che questi vecchi modelli di leadership non funzioneranno più. Probabilmente sarà necessario proporre qualcosa di nuovo per affrontare le nuove sfide: ad esempio la leadership femminile.

SI PUÒ ESSERE LEADER RIMANENDO DONNE?

Partiamo allora da un altro quesito: quali competenze si nascondono dietro la capacità di esercitare una leadership costruttiva?

Una leadership consapevole, responsabile e sostenibile non ha connotati di genere, ma si declina su vari tratti tra cui: visione, costruzione di mondi possibili, coinvolgimento, condivisione inclusiva, gestione di conflitti, gestione e riconoscimento dei feedback, autoapprendimento dalle esperienze e dagli errori, sapersi porre come riferimento e saper fare un passo indietro, senza deliri di onnipotenza, anzi, con consapevolezza dei propri limiti, e altro ancora.

La parola potere da molte donne è positivamente interpretata come responsabilità di o per qualcosa e verso qualcuno, ma da altre è talvolta intesa come sinonimo di qualcosa di negativo, che evidentemente rimanda a logiche manipolatorie e distruttive di esercizio del potere, e che come tali vengono dunque rifiutate tout court.  Ciò porta però alcune donne ad avere timore di assumere un ruolo di leadership, perché ne percepiscono solo tale connotato negativo e, non volendo giustamente assumerlo, scelgono di auto-escludersi da opportunità o proposte di ruoli di vertice e per timore di incarnare stereotipi negativi che rifiutano. Come se questa negatività fosse l’inevitabile modo di gestire il potere nella realtà. Senza dimenticare il rischio di alcune donne di trasformarsi in virago nella gestione di ruoli apicali, imitando i lati peggiori e distruttivi che alcuni modelli maschili incarnano nell’esercizio del potere e perdendo quindi di autenticità.

LE DONNE SONO LEADER MIGLIORI O PEGGIORI DEGLI UOMINI?

Questa domanda non ha una risposta perché lo stile di leadership appropriato dipende dal contesto. Quello che è vero è che nelle organizzazioni moderne uno stile di leadership non coercitivo, basato sul lavoro di team e sulla costruzione di relazioni di solito funziona meglio.

Questo stile, detto anche trasformazionale, richiama alcune caratteristiche considerate femminili e si dice che le donne lo adottino più spesso degli uomini. La capacità trasformativa gestita in modo costruttivo ed eticamente responsabile non ha prerogative di genere, ovviamente, ma come donne e uomini dovremmo forse meglio indirizzarla per dimostrare più spesso che il “potere delle persone” è superiore alle “persone di potere”.

05 Feb 2020

LA DIPENDENZA AFFETTIVA

LA DIPENDENZA AFFETTIVA

La dipendenza affettiva è una patologia relazionale, nella quale l’amore e ciò che ne deriva a livello emotivo diventa l’oggetto di un desiderio morboso o di un’ ossessione.

Il disturbo si instaura tra due persone che hanno un rapporto molto intimo e simbiotico: in questa forma di dipendenza, ciò che viene bramosamente ricercato, è una relazione affettiva e tutto ciò che da questo rapporto ne consegue. In chi ne soffre, la dipendenza affettiva determina un’apparente senso di benessere e gratificazione, ma, allo stesso tempo, incrementa il forte bisogno di legame nei confronti del partner da cui dipende, sulla quale investe tutte le proprie energie.

Stabilire la differenza tra amore e dipendenza affettiva è molto importante. Solo una cosa, infatti, distingue l’amore dalla dipendenza affettiva, la sofferenza. La sofferenza emerge, non appena si comincia ad accettare tutto, rinunciando ad ogni interesse personale per il “bene” della persona amata. La dipendenza affettiva patologica si riscontra quando la relazione copre tutto lo spazio disponibile e, quando, nonostante il dolore e la sofferenza vissuta, si torna dopo ogni esperienza negativa di nuovo con la persona che ci fa soffrire. Ci si aggrappa alla persona amata che ha il potere di calmare la nostra ansia e il dolore interiore, con l’illusione di ritrovare un senso di benessere psicologico perduto. Si stabilisce un circolo vizioso; l’illusione del benessere costringe continuamente a ritornare a quella che è la fonte della nostra dipendenza affettiva e della sofferenza in amore.

CAUSE DELLA DIPENDENZA AFFETTIVA

Tra le cause della dipendenza affettiva, si fa riferimento a quelle di tipo biologico e quelli psicologiche. I medici parlano di mal funzionamento della dopamina, sostanza impiegata nei processi di gratificazione e motivazione. Tra le cause psicologiche, possiamo considerare traumi infantili, casi di maltrattamento, casi di genitori distanti, che non hanno dato opportuno amore ai figli oppure che, al contrario, gliene hanno forse dato troppo, rendendoli così insicuri. La bassa autostima, la sbagliata percezione di sé e l’insicurezza chiudono il quadro delle numerose cause della dipendenza affettiva.

CARATTERISTICHE DELLA DIPENDENZA AFFETTIVA

La dipendenza affettiva comporta atteggiamenti, stati d’animo e sintomi che sono, in gran parte, simili a quelli di altre dipendenze comportamentali.

Queste manifestazioni includono:

  • PIACERE o benessere derivante dall’oggetto della dipendenza (partner e rapporto con lo stesso);

  • Necessità di aumentare il tempo trascorso con il partner diminuendo, al contempo, i momenti investiti in attività autonome o contatti con altre persone (TOLLERANZA);

  • Emozioni negative molto intense – come ansia e depressione- quando il partner è distante fisicamente o sentimentalmente (ASTINENZA);

  • Incapacità di riflettere in maniera lucida sulla propria situazione e di controllare i propri comportamenti, alternata a momenti di lucidità, in cui la persona dipendente sperimenta vergogna e rimorso (PERDITA DI CONTROLLO).

USCIRE DALLA DIPENDENZA AFFETTIVA

Uscire dalla dipendenza affettiva non è facile: nei casi più gravi si può parlare di vera e propria patologia, e prima di agire è necessario individuare i problemi, analizzarli e cercare di risolverli. In una relazione del genere, la persona dipendente arriva ad annullare i propri bisogni e ai propri diritti, pur di poter restare insieme al proprio partner. Chi vive la relazione con dipendenza affettiva non riuscirà più a comprendere quali sono le sue reali necessità, l’unica fonte di gratificazione sarà vedere la felicità del partner. L’ amore diventa debolezza, la relazione diventa simbiosi, si può arrivare a parlare di droga, dal momento che si agisce senza possibilità di intendere e di volere una relazione che porterà al consumo di almeno uno dei due partner. Come accade per gli altri generi di dipendenza, il trattamento della dipendenza affettiva può richiedere un tempo prolungato.

Il giusto approccio al problema richiede:

  • Riconoscimento della propria dipendenza affettiva;

  • Presa di coscienza delle conseguenze che il disturbo ha prodotto;

  • Volontà di intraprendere un processo di cambiamento.

Nella maggior parte dei casi, l’approccio alla dipendenza affettiva comporta il porre fine al rapporto disfunzionale e cominciare a gestire l’astinenza, rendendo possibile l’instaurarsi di normali relazioni sentimentali.

A seconda della gravità del quadro clinico, la dipendenza affettiva può essere affrontata in modo efficace con la combinazione di vari approcci terapeutici (psicoterapia, farmaci ecc.).

05 Feb 2020

IL MANAGER DELLA FELICITÀ IN AZIENDA

IL MANAGER DELLA FELICITÀ IN AZIENDA

Il successo di un’azienda passa attraverso la felicità, la soddisfazione e il coinvolgimento delle proprie risorse. Dipendenti più coinvolti significa dipendenti più felici e soddisfatti e, di conseguenza, più produttivi. E non è un caso che le organizzazioni stiano investendo sempre più tempo per comprendere al meglio le richieste dei propri dipendenti e più risorse per introdurre nuove figure professionali che si prendano cura dei desideri e del benessere delle persone dal punto di vista dei percorsi di carriera, della formazione e degli obiettivi di crescita. Un ambiente di lavoro negativo influisce in modo pesante sulla produttività dei lavoratori; per far fronte a questo problema, e risollevare il livello di soddisfazione dei lavoratori, è emersa nel panorama mondiale questa figura nuova, a metà tra il manager e il motivatore.

In Italia lo chiamiamo Manager della Felicità, traduzione del termine inglese Chief Happiness Officer.

Chi è il Manager della Felicità? l Manager della felicità è tra le figure aziendali impegnate nella gestione del personale e propone un approccio mirato a creare un luogo di lavoro piacevole e di valore per le persone coinvolte.

Accanto alle attività di ricerca, selezione e gestione pratica delle posizioni lavorative, questa figura contempla aspetti maggiormente legati alla sfera emotiva e psicologica dei lavoratori, sviluppando strategie concrete per accrescere il loro grado di coinvolgimento con l’azienda.

Il suo obiettivo è rendere felici i dipendenti, occupandosi di attività quali:

 – fare da mediatore tra azienda e personale;

 – interpretare i bisogni dei lavoratori;

 – fare in modo che ciascuno si senta soddisfatto e appagato della propria posizione e della vita lavorativa in generale.

Non si tratta di un intervento saltuario, bensì di un percorso nel tempo, che il manager deve saper formulare e assecondare in base alle necessità e alle condizioni iniziali.

Quali sono le sfere di competenza del Manager della Felicità, quindi? Eccone alcune:

  • Reclutamento e onboarding;

  • pianificazione delle carriere;

  • gestione delle prestazioni;

  • coinvolgimento e riconoscimento degli obiettivi raggiunti;

  • off-boarding e pensionamento.

Nonostante il titolo, il Manager della Felicità interviene su elementi molto concreti e delicati, che riguardano lo sviluppo dei lavoratori all’interno dell’azienda, con l’obiettivo duplice di rendere il team più coeso e, allo stesso tempo, più efficace.

Valorizzare i dipendenti individualmente, favorirne la crescita professionale, aiutarli in percorsi di formazione e nell’acquisizione di skill sempre più sofisticate, creare un ambiente di lavoro basato sulla meritocrazia e sul gioco di squadra.Il CHO dedica molto tempo all’ascolto dei bisogni e delle esigenze delle persone che formano l’azienda, organizzando fasi di monitoraggio e di accrescimento del livello di motivazione e di soddisfazione tramite:

 – questionari

 – indagini aziendali

 – colloqui personali.

Perché è importante la felicità in azienda?

La felicità in azienda è importante per superare con maggior efficacia e determinazione i momenti di particolare intensità lavorativa, promuovendo una collaborazione proficua e continua tra colleghi e superiori.

Unire lavoro e felicità risulta essere, quindi, una scelta particolarmente indicata per tutte quelle realtà che vogliono avere:

 – stabilità;

 – crescita;

 – vantaggi competitivi.

Può apparire un discorso cinico, voler rendere più felici i dipendenti solo per fatturare di più e ottimizzare i processi aziendali, ma se si mette un attimo da parte la malizia e il pregiudizio, ci si rende conto che migliorare la vita dei lavoratori rendendo contestualmente l’azienda più solida non può che essere una vittoria per tutti.