26 Gen 2022

Motivazione e bisogni: la piramide di Abram Maslow

Motivazione e bisogni: la piramide di Abram Maslow

Motivazione e bisogno

La motivazione viene definita in psicologia come l’insieme dei fattori che stanno alla base del comportamento di una persona per il raggiungimento di uno scopo, essa precede una determinata azione e si innesca ogni volta che l’individuo avverte un bisogno.

Il bisogno è invece la percezione di uno squilibrio tra la situazione attuale e una situazione desiderata; esso è quindi uno stato di insoddisfazione che spinge l’uomo a procurarsi i mezzi necessari per cambiare le cose/la situazione.

Ma quali sono i bisogni fondamentali per l’essere umano?

La piramide dei bisogni di Maslow

Nel tentativo di definire un modello che potesse spiegare le motivazioni alla base del comportamento umano, lo psicologo Abraham Maslow nel 1954 costruì la “Piramide dei bisogni”. Maslow parte dall’idea che mentre gli individui sono unici ed irripetibili, i bisogni sono comuni a tutti, e per migliorare la loro condizione, è necessario che le persone li soddisfino. Il modello è costituito da cinque differenti livelli, ovvero da cinque differenti categorie di bisogni disposte in ordine gerarchico, dalle più elementari posizionate alla base (bisogni più concreti, necessari alla sopravvivenza dell’individuo) alle più complesse al vertice (bisogni più astratti, di carattere sociale). Secondo l’autore, l’individuo può raggiungere la sua piena realizzazione solo soddisfando i bisogni a tutti i livelli in modo progressivo, e dunque, la soddisfazione dei bisogni più elementari è la condizione per far emergere i bisogni di ordine superiore.

I livelli dei bisogni:

Partendo dalla base della Piramide Motivazionale (o dei Bisogni) ci sono:

  • bisogni fisiologici: fame, sete, sonno, termoregolazione, ecc. Sono i bisogni connessi alla sopravvivenza fisica dell’individuo. Sono i primi a dover essere soddisfatti in quanto alla base del nostro istinto di autoconservazione;
  • bisogni di sicurezza: protezione, tranquillità, prevedibilità, soppressione delle preoccupazioni e ansie, ecc. Sono i bisogni che garantiscono all’individuo un senso di protezione e di serenità, in questa categoria sono inclusi i bisogni legati alla sicurezza finanziaria, alla salute e al benessere come anche alla sicurezza in caso di incidenti o lesioni.
  • bisogni di appartenenza: essere amati e amare, far parte di un gruppo, cooperare, partecipare, ecc.; sono i bisogni che rappresentano l’aspirazione di ognuno di noi a essere parte di una comunità. Per evitare problemi come solitudine, depressione e ansia, è importante che le persone si sentano amate e accettate dagli altri.
  • bisogni di stima: essere rispettati, approvati, riconosciuti, ecc. Sono i bisogni che riguardano il riconoscimento da parte degli altri. Le persone hanno bisogno di raggiungere degli obbiettivi e, quando ci riescono, di ricevere il giusto riconoscimento per i loro sforzi. Ad esempio, la partecipazione ad attività professionali, a risultati accademici, atletici o di squadra e gli hobby personali possono tutti svolgere un ruolo rilevante nel soddisfare i bisogni di stima.
  • bisogni di autorealizzazione: realizzare la propria identità in base ad aspettative e potenzialità, occupare un ruolo sociale, ecc. Si tratta dell’aspirazione individuale ad essere ciò che si aspira ad essere nel profondo, sfruttando le nostre facoltà mentali e fisiche.

Mentre i bisogni fondamentali, una volta soddisfatti tendono a non ripresentarsi, i bisogni più di alto livello (sociali e relazionali) tendono a rinascere con nuovi e più ambiziosi obiettivi da raggiungere.

Ne consegue che l’insoddisfazione, sia sul lavoro, che nella vita pubblica e privata, è un fenomeno molto diffuso che può trovare una sua causa nella mancata realizzazione delle proprie potenzialità. Per Maslow, inoltre, l’autorealizzazione richiede una serie di caratteristiche di personalità, competenze sociali e capacità tecniche.

Le critiche al modello

Nonostante il notevole successo dell’autore e del suo innovativo modello teorico, numerosi studiosi hanno notevolmente criticato la sua trattazione. Questo modello, secondo tali autori, semplificherebbe eccessivamente i bisogni dell’uomo e, soprattutto, il loro livello di importanza. Infatti, la strutturazione in piramide di alcune parti così complesse del sé potrebbe rappresentare un’eccessiva semplificazione. Molte caratteristiche del sé sono interdipendenti e dipendono da diversi fattori, e in tal senso, non è sempre possibile segmentarle così nettamente. Un individuo potrebbe anche essere spinto da più bisogni contemporaneamente.

Un’altra critica che è stata rivolta a tale modello riguarda la mancanza di un’effettiva evidenza scientifica. Tale modello non è infatti mai stato sottoposto al vaglio della sperimentazione, non permettendo di convalidare o disconfermare le ipotesi dell’autore.

La teoria di Maslow è inoltre fortemente centrata sul meccanismo di autodeterminazione dell’individuo, facendo risalire le spinte motivazionali esclusivamente a fattori interni, non considerando di conseguenza l’interazione tra l’individuo e l’ambiente esterno.

Lo schema che spiega il comportamento dell’individuo è in aggiunta notevolmente rigido. Non necessariamente un soggetto deve passare attraverso tutti i livelli della scala gerarchica per mettere in atto un determinato comportamento e la successione di tali livelli potrebbe non corrispondere a una gerarchia oggettivamente condivisibile da tutti i soggetti.

Nonostante le numerose critiche, il contributo dell’autore alla comprensione della motivazione e del ruolo dei bisogni nella spinta motivazionale degli individui è indubbio, inoltre, è relativamente comprensibile che i punti critici di questo modello potrebbero dipendere dal fatto che esso sia stato concepito negli anni ’50, con valori e tradizioni della società completamente differenti da quelli attuali.

19 Gen 2022

La resilienza in psicologia: fattori di rischio e di protezione

La resilienza in psicologia: fattori di rischio e di protezione

Cos’è la resilienza?

Con il concetto di resilienza, in psicologia, ci si riferisce alla capacità di affrontare, resistere e riorganizzare efficacemente la propria vita in modo positivo dopo aver subito eventi traumatici o negativi.

Questa capacità ci permette di affrontare il dolore e le circostanze avverse in maniera piuttosto positiva e di uscirne più forti. Le persone in possesso di tale skill riescono infatti spesso a trasformare un momento difficile in un’occasione di crescita personale senza tuttavia perdere la speranza e l’autostima. Ed è proprio grazie a questa “flessibilità” che il soggetto riesce a tornare alla sua quotidianità senza conseguenze eccessivamente negative a livello psicologico.

La ricerca ha infatti ampiamente dimostrato come l’essere resilienti possa aumentare drasticamente le aspettative di vita. Tale capacità aiuta a tenere sotto controllo lo stress e riduce le probabilità di incorrere in stati ansiosi e depressivi, favorendo, così, una vita più lunga e sana.

Cosa caratterizza una persona resiliente?

Una persona resiliente ha fiducia in se stessa, così come buone capacità di adattamento e autocontrollo. Accetta la realtà così com’è, ha un locus of control interno, dà senso alla propria vita e per questo manifesta la giusta perseveranza per raggiungere i suoi obiettivi. Queste caratteristiche permettono agli individui resilienti di andare avanti anche quando le condizioni esterne sono più dure del normale.

Al contrario, le persone che tendono ad arrendersi facilmente sono solitamente poco resilienti.

È tuttavia importante sottolineare che essere resilienti non significa non esperire stress o non sentirsi mai in difficoltà. Il dolore emotivo, la tristezza e altre emozioni negative sono infatti frequenti e comuni in tutte quelle persone che vivono situazioni negative o avversità.

La resilienza, inoltre, non è un tratto stabile e immodificabile della personalità, infatti implica una serie di comportamenti, pensieri e atteggiamenti che possono essere appresi, migliorati e sviluppati in ciascun individuo. In tal senso essa non va concepita come una dote innata posseduta soltanto da alcuni soggetti; anche gli individui meno resilienti hanno l’opportunità di poter sviluppare e migliorare tale capacità.

Perché alcune persone sono più resilienti di altre?

Ci sono numerosi fattori (individuali, sociali e relazionali) che favoriscono o al contrario ostacolano la resilienza, e proprio tali aspetti permettono di spiegare perché alcuni individui riescono a superare determinate situazioni traumatiche e di forte stress senza riportare effetti negativi a lungo termine, mentre altri “soccombono” sotto la pressione esercitata dalle stesse.

In letteratura sono indicati i principali fattori di rischio che espongono l’individuo ad una maggiore vulnerabilità agli eventi stressanti minando di conseguenza la resilienza. Tra questi vi sono i fattori emozionali (bassa autostima, scarsa capacità di controllo degli impulsi), interpersonali (isolamento, chiusura, rifiuto dei pari), familiari (contesto socioculturale svantaggiato, ostilità all’interno del proprio nucleo familiare, rapporto conflittuale con i propri genitori) e quelli legati allo sviluppo (ritardo mentale, deficit attentivi, difficoltà o deficit nelle interazioni sociali).

Tra i fattori protettivi, che invece promuovono un elevato livello di resilienza, sono stati individuati fattori individuali e familiari.

Tra i primi sono stati evidenziati: l’essere primogenito, l’avere un buon temperamento, l’essere sensibili, autonomi (congiuntamente ad un’adeguata competenza sociale e comunicativa), l’autocontrollo e, infine, la consapevolezza e la fiducia che le proprie conquiste dipendano dai propri sforzi (locus of control interno). A questi fattori si aggiunge il comportamento seduttivo il quale consente di essere benvoluti e di riconoscere e accettare gli aiuti che vengono offerti dall’esterno.

I fattori protettivi familiari comprendono invece l’elevata attenzione riservata al bambino nel primo anno di vita, la qualità delle relazioni tra genitori, il sostegno alla madre nell’accudimento del piccolo, la coerenza nelle regole, il supporto di parenti e vicini di casa, o comunque di figure di riferimento affettivo.

Possiamo diventare più resilienti?

Come già sottolineato, la resilienza è una capacità che può essere migliorata. Questo significa che non si tratta di qualcosa che è accessibile a pochi, bensì, tutti in un momento specifico della nostra vita possiamo essere resilienti.

In tal senso, la letteratura evidenzia cinque componenti che contribuiscono a sviluppare la resilienza.

  • L’ottimismo: la disposizione a cogliere il lato buono delle cose è un’importantissima caratteristica umana che promuove il benessere individuale e preserva dal disagio e dalla sofferenza fisica e psicologica. Chi è ottimista tende a sminuire le difficoltà della vita e a mantenere più lucidità per trovare soluzioni ai problemi.
  • L’autostima: avere una scarsa considerazione di sé ed essere molto autocritici conduce a una minore tolleranza delle critiche altrui, cui si associa una quota maggiore di dolore e amarezza. Tutto ciò risulta in un’aumentata possibilità di sviluppare sintomi depressivi.
  • La robustezza psicologica: essa è a sua volta scomponibile in tre sottocomponenti, ossia, il controllo (la convinzione di essere in grado di controllare l’ambiente circostante, mobilitando così quelle risorse utili per affrontare le situazioni), l’impegno (con la chiara definizione di obiettivi significativi che facilita una visione positiva di ciò che si affronta) e la sfida, (la visione dei cambiamenti come incentivi e opportunità di crescita piuttosto che come minaccia alle proprie sicurezze).
  • Le emozioni positive: il focalizzarsi su quello che si possiede piuttosto che su ciò che ci manca.
  • Il supporto sociale: l’informazione, proveniente da altri, di essere oggetto di amore e di cure, di essere stimati e apprezzati. È importante sottolineare quanto la presenza di persone disponibili all’ascolto sia efficace poiché essa mobilita il racconto delle proprie sventure. Raccontare significa liberarsi dal peso della sofferenza, e l’accoglienza gentile e senza giudizi, rifiuti o condanne da parte degli altri segnerà il passaggio da un’elaborazione interiore e solitaria ad una condivisione partecipata dell’accaduto.

In definitiva, ciò che determina la qualità della resilienza è la qualità delle risorse personali e dei legami che si sono potuti creare prima e dopo l’evento traumatico.

12 Gen 2022

IL CONCETTO DI SÉ E LE SUE DETERMINANTI SOCIALI

IL CONCETTO DI SÉ E LE SUE DETERMINANTI SOCIALI

Il concetto di sé: chi sono io?

Il concetto di sé è la risposta di una persona alla domanda “chi sono io?”. Esso si riferisce all’autovalutazione di sé in un ambito specifico (ad esempio accademico, atletico o dell’aspetto fisico).

Gli elementi del concetto di sé vengono definiti schemi di sé: modelli mentali che strutturano e guidano l’elaborazione di informazioni importanti per il sé. Essi influenzano il modo in cui le persone percepiscono, ricordano e valutano sé stessi e gli altri.

Se ad esempio essere un atleta è uno degli schemi di sé di un ragazzo, egli tenderà a notare il corpo e le abilità fisiche degli altri e richiamerà alla mente con maggior facilità esperienze legate allo sport, registrando informazioni coerenti con il suo schema di sé.

Processi autoreferenziali

Il sé influenza anche la nostra memoria, attraverso un fenomeno noto come effetto autoreferenziale. Esso si riferisce alla tendenza ad elaborare e ricordare meglio le informazioni relative a se stessi. Quando l’informazione è coerente con il concetto di sé, la si elabora facilmente e la si ricorda senza difficoltà. Riusciamo infatti chiaramente a ricordare ciò che una persona ha detto di noi rispetto ad altre cose dette.

Ciò avviene perché i ricordi si formano intorno all’interesse principale, ovvero, se stessi. L’effetto autoreferenziale evidenzia infatti un aspetto fondamentale del funzionamento dell’essere umano: il senso del nostro sé è il centro del nostro mondo.

Sé possibili

Il concetto di sé include non solo gli schemi di sé incentrati su chi si è qui e ora ma anche su chi si potrebbe diventare in futuro, ossia i sé possibili. Essi includono sia le concezioni del sé che si sognano (il sé ricco, il sé amato) che le concezioni del sé che si temono (il sé non realizzato, il sé non amato).

I sé possibili (fantasticare sul proprio futuro o avere paura del proprio futuro) non sono inutili, poiché possono offrire la motivazione necessaria per diventare ciò che si vuole e per evitare ciò che non si vuole. In altri termini essi offrono una motivazione che alimenta la vita a cui si aspira e, di conseguenza, muovono i nostri comportamenti.

Cosa determina il concetto di sé?

Se da un lato gli studi condotti sui gemelli evidenziano l’influenza del patrimonio genetico sulla costruzione del concetto di sé, dall’altro, anche l’esperienza sociale gioca un ruolo molto importante.

La psicologia sociale ha infatti dimostrato che tra i principali fattori che determinano il sé figurano: i ruoli sociali, l’identità sociale, i confronti sociali, i successi e gli insuccessi, i giudizi degli altri e, in senso più ampio, la cultura.

I ruoli sociali

Il ruolo sociale è un insieme di aspettative condivise circa il modo in cui dovrebbe comportarsi una persona in una particolare posizione sociale.

Quando si assume un nuovo ruolo (ad esempio studente, genitore, insegnante), nella fase iniziale se ne è consapevoli e ci si può sentire finti. In tali occasioni si può percepire un’autoconsapevolezza ossessiva: si presta un’eccessiva attenzione ai nuovi discorsi che si fanno e alle nuove azioni in quanto non li si riconosce come naturali. Tuttavia, gradualmente il ruolo viene assorbito all’interno della percezione del sé e diventa naturale. In altri termini, i ruoli adottati arrivano a plasmare gli atteggiamenti ed il concetto di sé.

L’identità sociale

Il concetto di sé non include solo l’identità personale (ovvero la propria percezione degli attributi personali) ma anche l’identità sociale, ossia, la definizione sociale di ciò che si è (per razza, religione, genere, specializzazione accademica…). Quest’ultima implica anche una definizione di ciò che non si è.

Quando si fa parte di un gruppo ristretto circondato da un gruppo più ampio, si è spesso consapevoli della propria identità sociale (ad esempio uno studente di colore in un’università a maggioranza bianca avvertirà la propria identità etnica in modo evidente reagendo di conseguenza), mentre quando il gruppo a cui si appartiene costituisce la maggioranza si tende a pensare meno a esso.

I confronti sociali

Il confronto sociale è la valutazione delle proprie capacità e opinioni mediante il confronto tra sé e gli altri.

Festinger nella sua teoria del confronto sociale sostiene che quando le persone sono incerte e non sono disponibili informazioni oggettive per valutare il sé, esse valutano sé stesse attraverso confronti con altri simili. In altri termini, coloro che ci circondano definiscono gli standard in base ai quali ci definiamo intelligenti o stupidi, simpatici o antipatici.

Tale processo avviene automaticamente. Assistendo a ciò che fa o dice un pari, infatti, non si può fare a meno di effettuare un paragone.

È per tanto possibile provare un certo piacere per il fallimento di un pari o paragonandosi con chi è meno abile o meno fortunato (confronto discendente). Tali confronti difendono il sé e proteggono l’autostima.

È tuttavia possibile in egual misura attenuare la propria soddisfazione e minare la propria autostima quando ci si confronta ­– in scala verticale – innalzando gli standard in base ai quali si valutano le riuscite e i fallimenti (confronto ascendente).

I successi e gli insuccessi

Il concetto di sé è alimentato anche dai successi e dagli insuccessi.

Avere successo significa sentirsi più competenti e ciò alimenta l’autostima, soprattutto quando i risultati ottenuti sono frutto di grande sforzo, impegno costante e dedizione.

Al contrario sperimentare insuccessi può alimentare una scarsa autostima e talvolta essa è causa di qualche problema. Le persone con una bassa autostima sono infatti generalmente più tristi, più nevrotiche, soffrono più facilmente di ansia e depressione e sono più predisposte alla dipendenza da alcool e droghe.

I giudizi degli altri

Il concetto di sé è alimentato anche dai giudizi degli altri. Il fatto che gli altri abbiano una buona opinione di noi aiuta a pensare bene di se stessi. Essere definiti dagli altri come intelligenti e dotati aiuta ad assimilare tali concetti nel proprio comportamento e nel proprio concetto di sé.

In particolare, ciò che conta per il concetto di sé non è tanto come gli altri ci vedono in realtà, bensì il modo in cui noi immaginiamo che ci vedano.

Questo effetto prende il nome di rispecchiamento: il modo in cui le persone pensano di essere percepite dagli altri viene utilizzato come una sorta di specchio per percepire se stessi.

Un ulteriore aspetto da sottolineare è che in genere le persone nelle relazioni interpersonali tendono a fare complimenti e a trattenere le critiche. È perciò possibile sopravvalutare l’apprezzamento degli altri, enfatizzando l’immagine del sé. L’immagine sproporzionata del sé o autoenfatizzazione è più marcata nelle culture occidentali.

La cultura

Per la maggior parte delle persone che appartengono alle culture occidentali prevale maggiormente l’individualismo.

Le culture individualistiche considerano l’individuo come unità di base della società e prestano molta attenzione alle differenze individuali. I gruppi sono numerosi, di grandi dimensioni e hanno un’influenza molto debole.

La persona attribuisce priorità agli scopi e al successo personali e i valori enfatizzati sono l’autonomia, la libertà, la realizzazione di sé, il successo, il piacere e il divertimento, valori rispetto ai quali il gruppo sembra essere più un freno che un trampolino di lancio.

Il sé che si sviluppa in questo tipo di culture è un sé idiocentrico: l’individuo è il centro dinamico della consapevolezza, delle emozioni e delle azioni. Le persone si descrivono evocando attributi personali con scarso riferimento ai gruppi sociali d’appartenenza.

Si parla dunque di un sé indipendente, autonomo, caratterizzato da attributi interni.

Per la maggior parte delle persone che appartengono alle culture orientali prevale invece il collettivismo.

Le culture collettiviste considerano il gruppo come unità di base della società e tendono ad annullare le differenze individuali dei suoi membri. Questi modelli culturali sono caratterizzati dalla presenza di pochi gruppi di piccole dimensioni e molto influenti.

La dipendenza degli individui all’interno di queste culture è molto forte e la persona è pronta a sacrificare i propri scopi e il proprio successo a favore di quelli del gruppo. I valori enfatizzati sono la cooperazione, l’integrità familiare, la sicurezza, l’equità, l’onesta, il dovere e l’obbedienza.

Il se tipico di queste culture è un sé allocentrico: diventa significativo e completo solo nell’ambito delle relazioni sociali.

Il sé è dunque interdipendente e le persone si descrivono in termini sociali e regolano il proprio comportamento in funzione degli altri.

Definire le culture come esclusivamente individualistiche o collettiviste è tuttavia un’eccessiva semplificazione poiché il livello di individualismo varia da persona a persona e tra regioni e regioni. Inoltre, le culture possono cambiare nel tempo e al giorno d’oggi è possibile individuare un orientamento sempre più individualista.