30 Apr 2019

COS’È LA RESILIENZA? CARATTERISTICHE E COME AUMENTARLA

COS’È LA RESILIENZA? CARATTERISTICHE E COME AUMENTARLA

La resilienza è la capacità di auto-ripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo.

“ciò che non lo uccide, lo rende più forte” (Friedrich Nietzsche).
La necessità di combattere ha la sua ragion d’essere nell’inevitabilità delle sconfitte, delle delusioni e dei conflitti quotidiani, fino a quegli sconvolgimenti esistenziali, come una violenza o la perdita di una persona cara, che, spezzando un equilibrio preesistente, pongono colui che li ha subiti di fronte a una serie di interrogativi: Perché proprio a me? Che senso ha quanto mi è accaduto?
Domande da cui non è possibile sfuggire: solo cercando una risposta chiarificatrice, un senso, seppur a volte mai definitivamente compiuto, è possibile ridefinire la propria sofferenza, che, al di là del dolore gratuito, può essere vista come un valore aggiunto, e fonte di maggiore sensibilità verso le bellezze dell’esistenza, nonché per le sofferenze altrui.
La resilienza è la capacità di un individuo, comunità, o sistema, di intervenire attivamente in situazioni di stress, mitigando, rispondendo con azioni appropriate, sviluppando nuovi comportamenti, al fine di assorbire lo shock e ripristinare la condizione di equilibrio iniziale. Darwin su tali argomenti ci ha tramandato insegnamenti importanti. Studiò infatti che le specie che hanno maggiori probabilità di sopravvivenza, non sono né le più forti né tanto meno le più intelligenti; sono quelle che meglio rispondono al cambiamento. Sembra, quindi, che essere reattivi nello sviluppo di capacità di adattamento sia fondamentale e la resilienza, in tutto questo, ricopre un ruolo centrale.
Le difficoltà quindi come opportunità, come sfida, che mobilita le proprie risorse, sia interne che esterne, una sfida dalla quale non ci si può esimere, in nome del raggiungimento di un equilibrio più funzionale.

 

Come aumentare la resilienza.
La resilienza è in gran parte frutto degli occhiali attraverso cui gli individui vedono se stessi, gli altri e il mondo. Occorre pertanto modificare le lenti con cui interpretano gli eventi e vi attribuiscono un significato. Per prima cosa, è importante valutare lo stile di attribuzione causale, ovvero il modo cui l’individuo concettualizza e spiega gli eventi che accadono e quanto si percepisce in grado di incidere su di essi.
Spesso un processo di resilienza è ostacolato proprio dalla valutazione cognitiva del soggetto, dall’etichetta che questi attribuisce a se stesso, ad esempio “sono un perdente, un fallito, non ce la posso fare, sono una vittima, non riesco a controllare nulla, perché proprio a me? ecc.” oppure agli altri e al mondo esterno “la vita è imprevedibile, il mondo è pericoloso, gli altri sono più forti, ogni evento è una catastrofe”. Cambiare le lenti cognitive non vuol dire certo adottare una visione ingenuamente ottimistica, bensì mantenere un realismo funzionale che permetta un adattamento consapevole alla realtà, in modo che gli eventi negativi, ordinari o straordinari, siano visti come potenzialmente forieri di spunti di crescita e apprendimento, piuttosto che come una minaccia incombente alla propria incolumità.
Un altro modo per promuovere la resilienza è avvicinarsi alla pratica della Mindfulness, e nello specifico sviluppare la capacità di decentrarsi dai propri pensieri, considerandoli per quello che sono, ovvero contenuti della mente, e non realtà. L’accettazione intenzionale e non giudicante del qui e ora permette, da un lato, di depurare la valutazione cognitiva da errori e distorsioni, dall’altro, facilita la gestione dello stress. L’attitudine ad accettare sentimenti spiacevoli, a osservare pensieri e sensazioni, senza reagire a essi, è una delle modalità per costruire e rinforzare il processo di resilienza.

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Se è vero che certe ferite non si rimargineranno mai completamente, qualunque trauma, se non vissuto passivamente come punizione o negazione della felicità, può rappresentare, nel suo accadere repentino e imprevedibile, un’occasione di realizzazione superiore, al pari della condizione del cigno che si è sviluppato a partire dal brutto anatroccolo della nota favola di Andersen (Cyrulnik, 2002).

24 Apr 2019

LA GESTIONE DELLE EMOZIONI IN AZIENDA

LA GESTIONE DELLE EMOZIONI IN AZIENDA

Avete mai pensato che la gestione dell emozioni, che di solito tendiamo a relegare nella sfera privata del nostro vivere, possa essere una risorsa anche in azienda?

In azienda, spesso le emozioni non trovano un loro posto e restano tagliate fuori, da qualsiasi criterio di gestione, lasciando spazio a istinto e casualità.
Molti capi, probabilmente anche in maniera inconsapevole, usano come stimolo all’azione le emozioni negative di paura, rabbia e difesa per ottenere i risultati desiderati dai dipendenti.

La pressione esterna agisce da fattore inquinante e induce reazioni esagerate, talvolta sconsiderate e persino controproducenti rispetto allo scopo ultimo, ma è necessario anche interrogarsi sugli effetti a breve e medio termine provocati dalle emozioni negative.

Una continua esposizione a forti emozioni negative determina un abbassamento del potere cognitivo del 30-40% per una durata di circa 40-60 minuti dall’esposizione alla “minaccia” nel breve termine. E nel lungo termine è dimostrata una maggiore incidenza di problemi di salute.

Del termine intelligenza emotiva se ne parlò solo agli inizi degli anni ’90 con Daniel Goleman.
Si pensi che dopo aver scritto il testo “Intelligenza emotiva”, venne subissato dalle richieste di approfondire questo tema con particolare attenzione al campo lavorativo. Nacque così l’altro libro “Lavorare con intelligenza emotiva”.
Oltre alle abilità pratiche, infatti, specialmente in tempi di crisi, di concorrenza, in cui come Azienda si cerca di distinguersi dalle altre, il fattore umano è una risposta importante.
Cosa vuol dire possedere Intelligenza emotiva?

Significa avere:

-Autocontrollo
-Entusiasmo
-Perseveranza
-Capacità di automotivarsi

Non vi è intelligenza senza emozione. Ci può essere emozione senza molta intelligenza, ma è cosa che non ci riguarda. (Ezra Pound)

La gestione delle emozioni nell’ambiente professionale è ancora oggi un tema difficile, anche se non più tabù come prima della diffusione dell’intelligenza emotiva . L’energia emozionale in azienda si alimenta della cultura propria del settore. Il clima negli ambienti industriali è in genere più rigido di quello che possiamo trovare nelle aziende di servizio. In alcuni settori prevale un clima particolarmente competitivo, come in quello tecnologico, e la collaborazione diventa un punto dolente. Istituzioni e organizzazioni tendono a essere formali e con una struttura più burocratica, legata a programmi e a standard di processi e hanno una scarsa propensione a concedere autonomia, come nel caso di alcune ONG, le Università o le aziende partecipate.

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L’aspetto delle cose varia secondo le emozioni; e così noi vediamo magia e bellezza in loro, ma, in realtà, magia e bellezza sono in noi. (Kahlil Gibran)

Un ponte alle emozioni che risulta accettabile e comprensibile anche negli ambienti più conservatori e inflessibili viene dall’approccio a partire dai valori. Perché i nostri valori ispirano e giustificano la condotta. Sostanzialmente tutte le persone hanno dei valori che le guidano nelle loro azioni, coscientemente o no. E se parliamo di azioni, parliamo di emozioni, che possono avvicinarci o allontanarci dal risultato.

17 Apr 2019

COS’È IL COUNSELING PSICOLOGICO?

COS’È IL COUNSELING PSICOLOGICO?

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Nonstante in questi ultimi anni sia andato incontro ad una forte crescita, c’è ancora una certa confusione tra i non addetti ai lavori riguardo a cosa sia e a cosa non sia l’intervento psicologico clinico che va sotto il nome di counseling.

Quando non è presente un espresso ed evidente disturbo psicologico, ma piuttosto una specifica personale difficoltà come modulare una crisi, prendere una decisione, trovare una soluzione, migliorare una relazione affettiva, amicale o lavorativa, scegliere tra molte opzioni, sviluppare una risorsa, gestire pensieri, emozioni e conflitti, etc., può essere molto utile e risolutivo il così detto counseling psicologico che è una “relazione d’aiuto” ed è professione disciplinata dalla Legge n°4 del 14 gennaio 2013.

La British Association for Counselling (BACP) fornisce la seguente definizione: «Il counseling psicologico è un uso della relazione abile e strutturato che sviluppi l’autoconsapevolezza, l’accettazione delle emozioni, la crescita e le risorse personali.
L’obiettivo principale è vivere in modo pieno e soddisfacente. Il counseling può essere mirato alla definizione e soluzione di problemi specifici, alla presa di decisioni, ad affrontare i momenti di crisi, a confrontarsi con i propri sentimenti ed i propri conflitti interiori o a migliorare le proprie relazioni con gli altri.

LO PSICOLOGO COUNSELOR
Il ruolo dello psicologo counselor è quello di facilitare il lavoro dell’utente in modo da rispettarne i valori, le risorse personali e la capacità di autodeterminazione.
Evidentemente, si tratta di un intervento di supporto e di aiuto psicologico alla persona, realizzato sotto forma di colloquio ed avente come obiettivi il miglioramento della qualità di vita del cliente e, più in generale, la promozione del benessere.
Con il counseling psicologico si cerca dunque di consentire, innescare, incentivare e proseguire nella persona una visione realistica di se stessa e dell’ambiente circostante, e quindi dei vari contesti vitali come quello sociale, familiare, affettivo, lavorativo, riducendo in tal modo al minimo fattori conflittuali, soggettivi e/o di errata valutazione.
Tale intervento, limitato nel tempo e negli obiettivi, è riservato al “trattamento” di problemi aspecifici (il dover prendere una decisione importante o migliorare le relazioni interpersonali) ed aventi un ambito circoscritto (affettivo, familiare, sociale, scolastico, lavorativo).
Si tratta di un vero supporto specialistico che si avvale della relazione e della comunicazione che tuttavia non è destinato a persone che risultano affette da disturbi mentali, bensì è indirizzato a soggetti che si trovano a vivere un particolare problema – personale, familiare, evolutivo, professionale e così via – e che, a causa di tale problema, necessitano di intraprendere un percorso di supporto mirato.
Lo psicologo counselor offre al soggetto che lo ha richiesto uno spazio di ascolto e di riflessione all’interno del quale sia possibile considerare e condividere tematiche personali ed emotivamente rilevanti, accrescere la conoscenza di sé e la consapevolezza di situazioni, difficoltà e risorse ed analizzare la situazione critica portata.
Il suo intervento è orientato ad aiutare il cliente ad esaminare ventagli di possibili scelte, a guidarlo rendendolo consapevole dei suoi punti di forza, delle sue risorse e delle ragioni delle sue difficoltà, a svilupparne le potenzialità. Così facendo, vengono promossi atteggiamenti attivi e propositivi ed incentivate le capacità di autodeterminazione; il cliente non rinuncerà al libero arbitrio e alla propria responsabilità seguendo indicazioni che gli vengono date dall’esterno, bensì sceglierà autonomamente, utilizzerà le proprie risorse personali e troverà una soluzione al problema che lo affligge.

È da affermare che un corretto intervento di counseling psicologico comporta il non giudicare la persona che si ha davanti, l’essere disposti a conoscerla, il rispettare i suoi valori e le sue convinzioni. Inoltre, esso differisce notevolmente dal dispensare consigli destinati ad essere seguiti passivamente.
Lo scopo del counseling è quello di consentire all’individuo una visione realistica di sé e dell’ambiente sociale in cui si trova ad operare, in modo da poter meglio affrontare le scelte relative alla professione, al matrimonio, alla gestione dei rapporti interpersonali con la riduzione al minimo della conflittualità dovuta a fattori soggettivi.

La persona può presentare stress, dubbi, preoccupazione, blocchi, problemi affettivi, ansia, bisogno di confidarsi, necessità di confronto e di ascolto, ma non necessariamente un conclamato disturbo psicologico e quindi la necessità di un intervento psicologico. E’ proprio in tale situazione che può allora essere utile e risolutivo il counseling psicologico.

Quello che comunque ci preme sottolineare è che aiutare le persone, in qualunque modo venga fatto è un’attività difficile e delicata, in cui la buona volontà, l’altruismo e la pazienza non bastano. A volte con le migliori intenzioni si possono creare gli effetti peggiori e risulta indispensabile avere un rapporto di fiducia e di collaborazione con un professionista preparato e di esperienza.

10 Apr 2019

Intelligenza Artificiale: cos’è e a cosa serve

Intelligenza Artificiale: cos’è e a cosa serve

Quello che colpisce dell’Intelligenza Artificiale, al di là che l’espressione viene normalmente scritta con le due iniziali maiuscole a denotarne l’eccezionalità, è che solo due anni fa non se ne parlava quasi al di fuori di circoli molto specialistici. Non è solo perché la tecnologia digitale sta stravolgendo ogni ambito della vita e del lavoro. Ma perché in modi ancora un po’ confusi si tende a considerare l’IA come la punta più avanzata della rivoluzione digitale. Il che tutto sommato è anche abbastanza vero.

Ma cos’è realmente l’Intelligenza Artificiale e come si è sviluppata?

l’Intelligenza Artificiale è un ramo dell’informatica che permette la programmazione e progettazione di sistemi sia hardware che software che permettono di dotare le macchine di determinate caratteristiche che vengono considerate tipicamente umane quali, ad esempio, le percezioni visive, spazio-temporali e decisionali. Si tratta cioè, non solo di intelligenza intesa come capacità di calcolo o di conoscenza di dati astratti, ma anche e soprattutto di tutte quelle differenti forme di intelligenza che sono riconosciute dalla teoria di Gardner, e che vanno dall’intelligenza spaziale a quella sociale, da quella cinestetica a quella introspettiva.
Un sistema intelligente, infatti, viene realizzato cercando di ricreare una o più di queste differenti forme di intelligenza che, anche se spesso definite come semplicemente umane, in realtà possono essere ricondotte a particolari comportamenti riproducibili da alcune macchine.
Ovviamente, la cosa è molto più complicata e comprende molte tecnologie e funzioni diverse. Fondamentali, oltre all’apprendimento autonomo, sono il riconoscimento visuale e vocale, i sensori e l’Internet of Things, l’evoluzione della comprensione e dell’utilizzo del linguaggio naturale, le capacità di interazione uomo-macchina, solo per citarne alcune. E le funzioni sono ormai le più disparate, in produzione, marketing, vendite, risorse umane, finanza e amministrazione. Così come sale ogni giorno la penetrazione negli ambiti professionali come quello medico, quello giuridico, i diversi settori scientifici ma anche la musica e l’entertainment.

Coscienza, conoscenza e problem solving

Alla base delle problematiche legate allo sviluppo di sistemi e programmi di Intelligenza Artificiale vi sono tre parametri che rappresentano i cardini del comportamento umano, ossia una conoscenza non sterile, una coscienza che permetta di prendere decisioni non solo secondo la logica e l’abilità di risolvere problemi in maniera differente anche a seconda dei contesti nei quali ci si trova.
L’uso dei reti neurali e di algoritmi in grado di riprodurre ragionamenti tipici degli esseri umani nelle differenti situazioni, hanno permesso ai sistemi intelligenti di migliorare sempre di più le diverse capacità di comportamento. Per poter realizzare ciò, la ricerca si è concentrata non solo sullo sviluppo di algoritmi sempre nuovi, ma soprattutto su algoritmi sempre più numerosi, che potessero imitare i diversi comportamenti a seconda degli stimoli ambientali. Tali algoritmi complessi, inseriti all’interno di sistemi intelligenti, sono quindi in grado di ‘prendere decisioni’ ossia di effettuare scelte a seconda dei contesti in cui sono inseriti. Nel caso degli algoritmi connessi ai sistemi intelligenti dei veicoli, ad esempio, un’automobile senza conducente può decidere, in caso di pericolo, se sterzare o frenare a seconda della situazione, ossia a seconda che le informazioni inviate dai vari sensori permettano di calcolare una maggiore percentuale di sicurezza per il conducente e i passeggeri con una frenata o con una sterzata.

Machine Learning: l’apprendimento automatico

Uno dei principali passi avanti nella storia dell’Intelligenza Artificiale è stata fatta quando si sono potuti ricreare degli algoritmi specifici, in grado di far migliorare il comportamento della macchina (inteso come capacità di agire e prendere decisioni) che può così imparare tramite l’esperienza, proprio come gli esseri umani. Sviluppare algoritmi in grado di imparare dai propri errori è fondamentale per realizzare sistemi intelligenti che operano in contesti per i quali i programmatori non possono a priori prevedere tutte le possibilità di sviluppo e i contesti in cui il sistema si trova a operare. Tramite l’apprendimento automatico (machine learning), quindi, una macchina è in grado di imparare a svolgere una determinata azione anche se tale azione non è mai stata programmata tra le azioni possibili.
Dietro di questo particolare ramo dell’Intelligenza Artificiale vi è stata da sempre (e vi è ancora) una profonda ricerca, sia teorica che pratica, basata, tra le altre cose, sulla teoria computazionale dell’apprendimento e sul riconoscimento dei pattern. La complessità dell’apprendimento automatico ha portato a dover suddividere tre differenti possibilità, a seconda delle richieste di apprendimento che vengono fatte alla macchina. Si parla allora di apprendimento supervisionato, di apprendimento non supervisionato e di apprendimento per rinforzo. La differenza tra le tre modalità sta soprattutto nel differente contesto entro cui si deve muovere la macchina per apprendere le regole generali e particolari che lo portano alla conoscenza. Nell’apprendimento supervisionato, in particolare, alla macchina vengono forniti degli esempi di obiettivi da raggiungere, mostrando le relazioni tra input, output, e risultato. Dall’insieme dei dati mostrati, la macchina deve essere in grado di estrapolare una regola generale, che possa permettere, ogni volta che venga stimolata con un determinato input, di scegliere l’output corretto per il raggiungimento dell’obiettivo.
Nel caso di apprendimento non supervisionato, invece, la macchina dovrà essere in grado di effettuare scelte senza essere stato prima ‘educato’ alle differenti possibilità di output a seconda degli input selezionati. In questo caso, quindi, il computer non ha un maestro che gli permetta un apprendimento ma impara esclusivamente dai propri errori. Infine, le macchine che vengono istruite tramite un apprendimento per rinforzo si trovano ad avere un’interazione con un ambiente nel quale le caratteristiche sono variabili. Si tratta, quindi, di un ambiente dinamico, all’interno del quale la macchina dovrà muoversi per portare a termine un obiettivo non avendo nessun tipo di indicazione se non, alla conclusione della prova, la possibilità di sapere se è riuscita o meno a raggiungere lo scopo iniziale.
L’apprendimento automatico è stato reso possibile dallo sviluppo delle reti neurali artificiali, ossia un particolare modello matematico che, ispirandosi ai neuroni e alle reti neurali umane, punta alla soluzione dei diversi problemi a seconda delle possibilità di conoscere gli input e i risultati ottenuti a seconda delle scelte effettuate. Il nome di rete neurale deriva dal fatto che questo modello matematico è caratterizzato da una serie di interconnessioni tra tutte le diverse informazioni necessarie per i diversi calcoli. Inoltre, proprio come le reti neurali biologiche, anche una rete neurale artificiale ha la caratteristica di essere adattativa, ossia di saper variare la sua struttura adattandola alle specifiche necessità derivanti dalle diverse informazioni ottenute nelle diverse fasi di apprendimento. Dal punto di vista matematico, una rete neurale può essere definita come una funzione composta, ossia dipendente da altre funzioni a loro volta definibili in maniera differente a seconda di ulteriori funzioni dalle quali esse dipendono. Questo significa che nulla, all’interno di una rete neurale, può essere lasciato al caso: ogni azione del sistema intelligente sarà sempre il risultato dell’elaborazione di calcoli volti a verificare i parametri e a definire le incognite che definiscono le funzioni stesse.

Conclusioni

In sostanza è che è arrivata l’ora di introdurre queste tecnologie in azienda, anche se non ogni aspetto è stato ancora valutato ed è giunto a maturazione. Basta citare due degli aspetti più importanti: il primo riguarda la collaborazione uomo-macchina, di cui si stanno definendo le potenzialità ma anche i limiti. Superata una visione iniziale alquanto allarmistica su una possibile sostituzione di lavoro umano con l’IA, non possiamo comunque ignorare un potenziale di disoccupazione tecnologica che la collaborazione potrà attenuare ma non necessariamente eliminare. Il secondo aspetto è quello cognitivo, poiché siamo ormai oltre la soglia della possibile comprensione da parte degli umani dei processi algoritmici delle macchine, il che induce a pensare con una certa apprensione alle relative possibilità di controllo. Questo secondo aspetto ingloba anche tutte le importantissime questioni etiche che vanno ben al di là dei rischi legati ai droni, all’auto autonoma o alla genetica, ma si estendono a una relazione tra uomo e tecnologie che va ancora totalmente definita.
Siamo comunque in un’era trasformativa che occorre imparare a comprendere e a gestire, ed è giunto per ogni impresa, dalla grande piattaforma globale alla piccola azienda artigiana, il momento di fare i conti con l’IA.

03 Apr 2019

Mindfulness at workplace: come progettare interventi efficaci.

Mindfulness at workplace: come progettare interventi efficaci.

Data la crescente attenzione che la psicologia del lavoro sta riservando alla mindfulness, facendo riferimento ad alcune recenti evidenze prodotte in questo articolo proveremo ad approfondire come tale tecnica possa essere applicata nella progettazione d’interventi in ambienti manageriali.

Lo sviluppo della mindfulness coincide con il lavoro del medico Jon Kabat-Zinn, fautore della tecnica Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), e la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), terapia di stampo di cognitivo – comportamentale, in grado di apportare miglioramenti sia in popolazioni cliniche che non.
Inizialmente concepita per apporre beneficio congiuntamente su corpo e mente (soprattutto indirizzando verso uno stato di benessere), questa tecnica ha in seguito conosciuto un notevole sviluppo nel campo lavorativo, portando diverse aziende leader nei propri settori, tra le quali Google, Apple, Nike, Yahoo!, Deutsche Bank, ad altre ancora , ad investire risorse in questa pratica, nella speranza di coniugare riduzione dello stress nei propri addetti, e benefici operativi.
Diversi programmi, svilluppati anche nel panorama italiano, sembrano garantire sviluppi positivi ottenibili nel proprio posto di lavoro, e una rapida consultazione su internet va nella direzione di confermare questa impressione.
Ciò nonostante, se il nostro obiettivo è di apporre un cambiamento organizzativo, avvalendoci delle potenzialità della mindfulness, è bene comprendere sin da subito, che una singola iniziativa, o un singolo corso di formazione per il quadro dirigenziale, sono solo dei punti di partenza, poiché qualsiasi progetto che non condivida una visione d’insieme dei numerosi fattori in gioco, rischia fortemente di fallire, nonostante i buoni propositi iniziali.

I tre principi della Mindfulness Organizing
Ray e colleghi , definiscono la Mindfulness Organizing, come un attributo stabile e duraturo di un’organizzazione, raggiunto grazie pratiche ed interventi strutturali implementati dai top manager. Gli autori, affermano inoltre che un approccio di Mindfulness Organizing risulta evidente quando i leader riescono ad instaurare una cultura che incoraggi i propri collaboratori verso l’adozione di un pensiero ricco, garantendo capacità e margine di azione.
Weick e Sutcliffe , invece hanno in precedenza osservato tale caratteristica, come la capacità di un’organizzazione di catturare dettagli discriminatori sui processi a rischio, indirizzando l’attenzione verso i processi contestuali che concorrono alla presa di decisioni.

L’approccio è basato su tre pilastri:
-Trae avvio da processi top-down;
-Crea il contesto per gli operatori che lavorano a stretto contatto con il cliente (front line), di pensare ed agire;
-Si attesta come una proprietà duratura dell’organizzazione (come la cultura).

 

Mindful Organizing

L’attenzione conferita alle dinamiche personali in ambienti professionali, ha portato alcuni autori a convergere sul termine di Mindful Organizing (organizzazione consapevole), per indicare l’insieme dei processi relazionali collettivi, intervenienti in un ambiente professionale. I principi portanti di questa sfera, riprendono analogamente i tre punti appena elencati, articolandoli tuttavia così:

-Trae avvio da processi bottom-up;
-Sfrutta il contesto, creato per gli operatori al front line;
-Si attesta come una proprietà relativamente fragile dell’organizzazione, e pertanto richiede una ricostruzione continua.

Vogus e Sutcliffe sostengono fortemente che le varie azioni che possono essere intraprese in un approccio ispirato alla mindfulness, debbano sapientemente intrecciare tutti i livelli organizzativi, e le diverse mansioni del proprio team, riconciliando così i livelli di mindfulness organizzativa e mindfull organizing. E’ stato dimostrato come, chi pratica mindfulness in azienda tende ad essere più calmo e sereno, rispetto ai loro colleghi che non lo fanno, e ricordando quanto discusso prima, ovvero che la mindfulness non è necessariamente ottenibile tramite pratiche meditative, scopriamo in questa sezione alcune delle azioni percorribili e i principi sui quali esse si basano, scorgendone inoltre le criticità:
Coerenza tra gli interventi preposti: con un esempio, immaginiamoci un datore di lavoro, che voglia valorizzare la pausa lavorativa, adibendo a tal scopo, delle aree relax nella propria azienda. Poniamo che in seguito, questa stanza non venga mai utilizzata dagli stessi dirigenti. Con questa situazione, molto probabilmente creeremo dei presupposti tali per ricadere nella dissonanza cognitiva , fenomeno in grado di impattare negativamente nella vita lavorativa, creando in questo caso, (lecita) incertezza sui lavoratori. Per evitare questa serie di frangenti, e per diminuire la dissonanza, gli interventi proposti devono distinguersi da un buon grado di sincronicità tra di essi, e tra gli attori protagonisti, allineandosi alla stessa cultura aziendale, allineando così, azioni e pensieri;
Porsi sullo stesso piano del lavoratore: la professionalità che accompagna l’adempimento delle proprie funzioni, deve essere rispettosa delle gerarchie in campo, ma al contempo, non deve farsi influenzare da essa. Una scarsa consapevolezza del prorio modo di agire, può condurre, a comportamenti non funzionali, al contesto lavorativo, all’interazione coi propri colleghi e alla natura del compito richiesto in quel momento. Investendo sulla propria mindfulness, ci si può aspettare di rompere i vecchi automatismi, a favore di nuovi comportamenti, efficaci anche in momenti difficili, così considerato da Weick e Sutcliffe, che ritengono necessario far affidamento ad un approccio orientato alla mindfulness, quando vi è l’esigenza di prendere una decisione rapida ed importante, dando priorità alla prorpia competenza (o a quella dei propri collaboratori), piuttosto che far affidamento sulla propria autorità;
Buona leadership: non sempre si nasce buoni leader, sebbene ci si possa migliorare anche in tal campo. Vi sono tuttavia, diversi modelli di leadership che apportano differenti riflessi sulla struttura organizzativa. La ricerca, ha evidenziato come, tra i vari tipi di leadership, la leadership trasformazionale, può riuscire a mantenere alta creatività e performance del proprio gruppo, attraverso il consolidamento di alti standard di performance, mediante un equo incoraggiamento di tutti membri del proprio gruppo di lavoro . Le caratteristiche vincenti di un leader trasformazionale, sono state messe in relazione con i livelli di mindfulness e grazie a tale connubio, il leader può rafforzare le doti che portano il proprio team, a risolvere problemi e situazioni di stallo, in maniera creativa e vincente , poiché dinanzi ad una situazione problematica, una strategia prodotta da vecchie scelte, oltre che obsoleta, può rivelarsi sconveniente.
Decision Making: Hammond, noto esponente in quest’ambito, assieme ad altri colleghi , ha asserito che delle ottime pre-condizioni che garantiscono una presa di decisione efficace, sono un basso ricorso a processi euristici, unitamente ad un’alta attenzione data agli stimoli di natura interna ed esterna. La mindfulness, si caratterizza per essere un approccio adatto per unire a fattore comune entrambi i fattori, interrompendo i vecchi automatismi di pensiero , pertanto ricorrendo ad essa, è lecito aspettarsi un potenziamento delle dinamiche che conducono alla formazione della decisione, diminuendo i bias, e riducendo l’errore fondamentale di attribuzione, fattori che dispongono verso una decisione efficace.
Creatività: progettati per venire incontro ai bisogni cognitivi del proprio staff, ambienti più interessanti ed ergonomici (sale riunioni, postazione per la pausa lavoro, ufficio..) possono apporre beneficio sulla produzione di idee creative, un aspetto benaccetto, in un contesto culturale aperto alla ricerca di buone idee, consapevoli anche del fatto, che il tempo passato sul posto di lavoro, spesso e volentieri è più alto rispetto che a casa.
Agire sulla percezione e competenze: il fattore percettivo è un aspetto critico da considerare sia nel conferire un bene o servizio, che nelle pratiche interpersonali. La percezione è cruciale, per esempio, nei meccanismi che concorrono alla creazione di stereotipi. In quest’accezione, si vuole offrire uno spunto incentrato sugli addetti al front-line, che contribuendo a dare la prima immagine dell’azienda al cliente in entrata, implicano l’erogazione di competenza assieme ad una buona visibilità, coscienti del fatto che l’opinione finale del cliente, sarà influenzato da entrambi i fattori. Responsabili di tradurre l’atteggiamento organizzativo del nostro intero contesto professionale, questi operatori si caratterizzano in maggior misura per il fatto di mettere letteralmente la faccia, a differenza di altre mansioni che agiscono maggiormente dietro le quinte. Vogus e Sutcliffe, coerentemente a questa preoccupazione, segnalano che apporre restrizioni al mindfulness organizzativa, può impattare negativamente con l’expertise del nostro staff, mentre sul versante percettivo, risulta importante capire ed anticipare quelle che possono essere le emozioni a valenza negativa di una parte del nostro staff. Parliamo per esempio di medici ed insegnanti, categorie professionali spesso associate a fenomeni come il burnout. Una piena consapevolezza del modo di essere e di stare in un contesto lavorativo, va quindi di pari passo all’attenta analisi dei vissuti emotivi.

Conclusioni
Una questione che la ricerca sulla mindfulness sembra non ancora aver risolto, è interrogarsi su come un tale atteggiamento, possa essere mantenuto nel tempo, soprattutto a livello organizzativo, poiché maggiormente combinato alla numerosità delle persone e dei fattori in gioco. Prima di divenire una pratica consolidata nell’individuo, la mindfulness può essere una conquista non priva di costi psicologici, e un grosso scoglio dell’intero approccio sembra per l’appunto, quello di riuscire a mantenere viva la potenzialità di tale risorsa, lungo i non pochi momenti di stress acuto.
Una risposta che si vuole suggerire, e che sembra emergere dai dati in possesso è data dall’adozione di una cultura di mindfulness, che organizzi i processi ad un livello più alto.
Una possibile soluzione potrebbe riguardare l’attenta valutazione e il continuo monitoraggio dei processi e delle risorse dispiegate, assieme alla considerazione delle esigenze di ogni singolo dipendente/mansione.
L’insieme di queste iniziative, andranno pertanto a far parte di un vero e proprio welfare aziendale, e il monitoraggio costante di tali variabili, si presenta come un’occasione per lo psicologo del lavoro, e del suo bagaglio conoscitivo, che se correttamente impiegato, può garantire affidabilità nelle fasi di valutazione iniziale, nella ridisegnazione delle variabili lavorative e nel continuo monitoraggio.
Concludendo , sembra ancora presto per capire appieno la portata dei risultati raggiunti dalle aziende che si sono spese in queste termini, e dei diversi fattori contestuali in grado di impattare positivamente. Ciò nonostante, sembra abbastanza chiaro, che gli approcci vincenti in questo campo, hanno tenuto conto della moltitudine di aspetti sostenuti in questo articolo.