17 Giu 2020

Le funzioni cognitive della mente umana. Cosa può arrivare a fare?

Le funzioni cognitive della mente umana. Cosa può arrivare a fare?

Un bambino ha fame e si avvia in cucina per prendere da mangiare. Quali processi ha intercorso la sua mente per metterle in atto? Apparentemente, la situazione sarebbe di stimolo fisiologico (fame) e tentativo di rispondere allo stimolo insorto, in un semplice rapporto causa-effetto. In realtà, nel cervello sono successe molte più cose. Questo funzionamento cognitivo come altri è inteso come la “prestazione dei processi mentali di percezione, apprendimento, memoria, comprensione, consapevolezza, ragione, giudizio, intuizione e linguaggio”. Questa lista di facoltà psichiche altro non è che un sunto delle principali funzioni cognitive della mente umana, quell’insieme di capacità che, combinate tra loro, rendono possibile la vita come la conosciamo. La prima elencata è la percezione che non è altro che il processo di conoscenza di oggetti, eventi o relazioni, interne o esterne, attraverso l’interpretazione di stimoli. Include sia l’attività di attribuzione di significato ai segni che arrivano al cervello, sia la vera e propria lettura dell’ambiente tramite i sensi. Insieme ai cinque conosciuti, gioca un ruolo importantissimo la propriocezione, ossia la capacità del corpo di determinare la propria posizione ed estensione nello spazio, senza il supporto di altri canali sensoriali.

Altra componenti le elenchiamo tra un po’ però prima illustriamo un esempio. Prendiamo un bambino di pochi mesi adesso che proverà a raggiungere il dito con le sue manine, senza la minima idea di cosa significhi. L’atto di indicare è solo un esempio di tutti quei segni che diamo per scontati al punto da crederli innati, ma che non sono affatto naturali. Ed essendo convenzioni, dietro a ciascuno di essi c’è un processo di apprendimento che ci ha insegnato a collegare quel gesto a un dato concetto. Oltre naturalmente a uno specifico linguaggio inteso come sistema di codici e correlazioni.

Il riconoscimento di sé è un’altra abilità cognitiva non esclusiva dell’uomo, anzi, neppure in uso nelle fasi iniziali della crescita. Il celebre test dello specchio, in cui il soggetto esaminato viene posto di fronte a uno specchio ed è in grado (o no) di riconoscere un segno colorato applicato sul suo corpo, dà risultati negativi per bambini fino a un anno e mezzo/due anni di vita. Essere capaci di riconoscersi nell’immagine riflessa, e quindi provare a rimuovere il segno, è indicatore di una sviluppata consapevolezza di sé, del proprio aspetto e del senso di spazialità.

Un’ultima particolare funzione cognitiva è quella, studiata solo negli umani per ovvie questioni di comunicazione, di metacognizione, ovvero i pensieri sui propri pensieri. Il caso più evidente è il fenomeno della “punta della lingua”, ovvero quando ci rendiamo conto di sapere un certo nome, ma non riusciamo a ricordarlo distintamente. Eppure la consapevolezza di tale informazione esiste, e ne siamo perfettamente coscienti. O il déjà vu, l’impressione di aver già memoria di una situazione, rientra appieno nella categoria dei fenomeni mentali metacognitivi.

L’elenco delle funzioni andrebbe avanti all’infinito, nella molteplicità degli ambiti in cui le abilità del cervello possono spaziare. La mostruosa complessità di ciò che la mente è in grado di elaborare, insieme alla naturalezza con cui ci riesce, può rendere la più elementare delle azioni un’affascinante dimostrazione di cosa la natura è stata capace di creare.

10 Giu 2020

ENGAGEMENT SUL LAVORO

ENGAGEMENT SUL LAVORO

L’engagement sul lavoro corrisponde ad uno stato emotivo positivo caratterizzato dall’energia, dalla partecipazione e dall’efficacia nel contesto professionale. Engagement (dall’inglese ‘impegno’) è un termine molto utilizzato attualmente dai guru della gestione del personale nelle aziende. Ma oltre alla sua utilità come strategia per aumentare la competitività delle imprese, l’engagement sul lavoro fornisce numerosi i benefici.

Come riconoscere l’engagement sul lavoro

Le persone che manifestano engagement sul lavoro sono partecipi ed emotivamente molto coinvolte. Non significa che non abbiano una vita sociale al di fuori dell’ufficio, ma che sfruttano al massimo le ore durante le quali si trovano sul luogo di lavoro. In altre parole, sono interessate ad approfittare di tutte le opportunità che permettano loro di creare valore per la loro impresa. Questi lavoratori non si lamentano della loro azienda e non ne parlano male con nessuno. Al contrario, sono orgogliosi di avere un vincolo professionale con questa realtà ed è questo ciò che comunicano alla loro cerchia più stretta. Infatti, esprimono sentimenti positivi verso la loro azienda non in modo forzato in quanto si trovano davvero bene sul posto di lavoro e/o con i colleghi. Si mostrano anche interessati a conoscere e prendere parte alle iniziative e ai nuovi progetti proposti dall’azienda. Sono così coinvolti nelle loro attività che si impegnano al massimo ed inoltre per loro non è un problema fare straordinari non remunerati se questi servono a risolvere problemi relativi alla loro azienda.

Non è dipendenza dal lavoro

Per tutte le caratteristiche descritte precedentemente, si potrebbe dedurre (erroneamente) che si tratti di persone dipendenti dal lavoro. Ma non è assolutamente la stessa cosa: chi dipende dal lavoro si sente impacciato quando si trova al di fuori dell’ambito professionaleInoltre, prova nervosismo, ansia e agitazione costanti. Le persone con engagement sul lavoro sperimentano uno stato emotivo completamente diverso da quello dei dipendenti dal lavoro. Si mostrano positive, motivate, energiche, appagate e felici non solo sul piano professionale, ma anche su quello personale. Nella maggior parte dei casi, inoltre, godono di buona salute, bassi livelli di stress e un’autostima alta. Confidano nei loro sforzi, nelle loro risorse e nel loro spirito di sacrificio. Si mostrano responsabili e autonomi a livello di problem solving.

Cosa apportano all’impresa

Le persone con engagement sul lavoro eseguono in modo molto efficace i loro compiti. Sono molto diligenti e, talvolta, fanno persino più di quanto viene chiesto loro. Con ciò contribuiscono a ottimizzare il loro rendimento professionale e generano un salutare stato organizzativo. Talvolta contagiano il loro modo di sentirsi e di vivere l’esperienza professionale persino al resto della squadra riuscendo così a estendere il loro engagement individuale e a renderlo collettivo.

Come generare engagement sul lavoro?

In molte occasioni sono gli stessi lavoratori che favoriscono la diffusione dell’engagement all’interno dell’impresa. Così, generano negli altri questa voglia di impegnarsi nei loro compiti, di interiorizzare i valori dell’azienda e di sfruttare le opportunità che si presentano per sviluppare la loro vocazione professionale. Tuttavia, è nelle fasi di selezione dei candidati che bisogna gettare le basi per questa filosofia imprenditoriale. Infatti, In sede di colloquio i futuri impiegati devono mostrare una predisposizione a parlare del loro incipiente impegno. In altre parole, devono sentirsi in qualche modo identificati con quello che offre loro l’azienda e fornire i motivi di questa identificazione. Allo stesso modo, il reclutatore deve rendere noti i valori dell’azienda per facilitare una familiarizzazione con essi da parte dei potenziali lavoratori. Si tratta, dunque, di un lavoro bidirezionale. Il candidato deve essere motivato a diventare parte dell’impresa e il reclutatore deve mostrare il cammino. In linea generale, vi sono tre fattori che facilitano l’engagement sul lavoro: realizzazione personale, ambiente positivo fra i colleghi e un buon salario. L’impresa che riesce a mantenere alta la percezione di questi tre aspetti avrà maggiori possibilità di migliorare con efficacia il rendimento dei propri lavoratori. A tale scopo, è possibile realizzare programmi di formazione continua. Con questi, i dipendenti percepiscono di apprendere di continuo e che le possibilità di avanzamento sono reali. È altrettanto consigliabile che possano discutere, apertamente e con sicurezza, dei problemi o delle sfide che si presentano. In altre parole, un datore di lavoro che si preoccupa per i suoi dipendenti non apporterà benefici solo al suo dipartimento, ma a tutta l’azienda.

10 Giu 2020

Il desiderio di cambiare

Il desiderio di cambiare

Voglio cambiare la mia vita: come faccio?

Succede a tutti. Non vogliamo più stare in una situazione che prima abbiamo tanto desiderato e voluto e anche costruito sia in famiglia che a lavoro ma a maggior ragione anche in amore.  Avvertiamo quel malessere interiore che tende a confondersi come ansia, sofferenza e voglia di cambiare vita

All’inizio si cerca di resistere ma poi più si nega il tutto peggio diventa sopportare il tutto e non c’è più niente da fare. Vogliamo cambiare anzi forse lo stiamo già facendo. Abbiamo sviluppato nuove esigenze e un nuovo modo di essere. Ci sentiamo quasi avviliti, non siamo noi a volerlo, ma è proprio da noi che parte questa spinta. Ci sentiamo strattonati, perché una parte di noi è ancora molto legata a ciò che sta vivendo, mentre un’altra chiede, con altrettanta forza, una trasformazione, un’altra vita.

La voglia di cambiamento è presente a tutte le età.

Quando giri a vuoto i tuoi luoghi comuni,i pregiudizi, la tua visione della vita finiscono sullo sfondo e in quel momento ti senti perduto. Hai bisogno di girare a vuoto non perché ti senti fuori luogo o strano ma perché la tua mente è troppo ordinata :  e allora un entità presente dentro di te che è nascosta e sopita per tanto tempo ti vuole distrarre dalle illusioni in cui ti sei calato, vuole restituirti la tua essenzialità per riportarti a casa.

Niente sensi di colpa, perché il cambiamento è necessario

La prima cosa è riconoscere ciò che sta avvenendo in se stessi. Queste emozioni sono il prodotto della nostra mente profonda, dell’anima. Per legittimarle, però, bisogna fare i conti con il senso di colpa, sempre in agguato quando si tratta di fare scelte dettate da necessità interiori, invisibili a occhi esterni.

Cambiare equivale, a una sorta di tradimento: si tradiscono il passato, le aspettative e l’identità che abbiamo proposto fino a qui. Dobbiamo ricordarci che cambiare non è una colpa: anzi, la colpa è fingere di essere quel che non si è più. Perciò, invece che sulla nostra inesistente colpevolezza, orientiamo la mente su quel che ci chiede davvero questa spinta.

Serve il silenzio

È necessario in primo luogo un po’ di silenzio. Cerchiamo di capire se si tratta solo di una reazione momentanea e settoriale o di un effettivo bisogno di un’altra vita. Osserviamoci ogni tanto nella giornata, guardiamo il disorientamento nel momento in cui arriva senza commento, perché tutti i sintomi che arrivano sono energia che prende contatto con noi. C’è qualcosa di sconosciuto in noi che vuole vivere e che non può essere definito e compreso dentro il nostro piccolo io, anzi: occorre che l’io si faccia da parte perché la nostra natura si riveli.

No alle decisioni forzate

Ecco la parte più importante: calibrare il cambiamento, qualunque esso sia, sulle nostre vere esigenze. Che non sono – è fondamentale ricordarlo – solo quelle espresse dalla voglia di un’altra vita ma anche quelle relative al contesto affettivo e alle abitudini che fino ad oggi abbiamo tenuto, le quali parlano ancora di noi e che spesso vorremmo mantenere anche dopo il “passaggio epocale”. Qui è necessario restare lucidi e non farsi tenere sotto scacco sia dall’intransigenza della pulsione, che chiede “uno strappo” con tutto il passato, sia dai sentimentalismi che danno troppo valore ad alcune parti della nostra vita che non l’hanno più. Serve “saggezza”. Dove trovarla? Non arriva aggiungendo pensieri, ma togliendoli. Le scelte migliori della nostra vita, le più sagge, sono sempre quelle che, a un certo punto, sono sbocciate da sole, senza che noi ci imponessimo di fare una cosa piuttosto che l’altra.

Quando è il momento, la cosa giusta da fare è facile da riconoscere e da mettere in pratica. Mettiti in attesa, lascia venire le emozioni, tienile con te giorno dopo giorno, osservale senza prendere decisioni. Al momento giusto decideranno loro.

Quando ci sentiamo insoddisfatti è poi importante non perdere tempo a fantasticare un domani migliore. La nostra interiorità invece ha bisogno di cose concrete e facilmente realizzabili.

03 Giu 2020

IL FENOMENO DEL MOBBING

IL FENOMENO DEL MOBBING

Con la parola Mobbing si intende una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di colleghi o superiori. La vittima di queste vere e proprie persecuzioni si vede emarginata, calunniata, criticata: gli vengono affidati compiti dequalificanti, o viene spostata da un ufficio all’altro, o viene sistematicamente messa in ridicolo di fronte a clienti o superiori. Nei casi più gravi si arriva anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni illegali. Lo scopo di tali comportamenti può essere vario, ma sempre distruttivo: eliminare una persona divenuta in qualche modo “scomoda”, inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone un motivato licenziamento.

I danni per la vittima

Il Mobbing ha effetti devastanti sulla persona colpita: essa viene danneggiata psicologicamente e fisicamente, menomata della sua capacità lavorativa e della fiducia in se stessa. I soggetti mobbizzati mostrano alterazioni dell’equilibrio socio-emotivo (ansia, depressione, ossessioni, attacchi di panico, anestesia emozionale), alterazioni dell’equilibrio psicofisiologico (cefalea, vertigini, disturbi gastrointestinali, disturbi del sonno e della sessualità) e disturbi a livello comportamentale (modificazioni del comportamento alimentare, reazioni autoaggressive ed eteroaggressive, passività). C’è un altro campo in cui il Mobbing ha ripercussioni gravissime: la vita privata e famigliare della vittima di Mobbing. Si tratta di quel fenomeno  denominato DoppioMobbing, una situazione che si riscontra frequentemente in Italia, ma di cui non si trova traccia nella ricerca europea sul Mobbing: è infatti legato al ruolo particolare che la famiglia ricopre nella società italiana. In Italia, il legame tra individuo e famiglia è molto forte; la famiglia partecipa attivamente alla definizione sociale e personale dei suoi membri, si interessa del loro lavoro, della loro vita privata, della loro realizzazione e dei loro problemi: virtualmente non scompare mai dall’esistenza dei suoi componenti: si fa da parte, forse, ma è sempre presente a fornire consigli, aiuti, protezione. Conseguentemente, è possibile ipotizzare che, in linea generale, la vittima di una situazione di Mobbing tenda a cercare aiuto e consiglio a casa. Qui sfogherà la rabbia, l’insoddisfazione o la depressione che ha accumulato durante una giornata lavorativa passata sotto i colpi del mobber. Di conseguenza, la famiglia assorbirà tutta questa negatività, cercando di dispensare al suo componente in crisi quanto più ha bisogno in termini di aiuto, protezione, comprensione, rifugio ai propri problemi. La crisi porterà necessariamente ad uno squilibrio dei rapporti, ma la famiglia ha molte più risorse e capacità di ripresa di un singolo, e riuscirà a tamponare la falla.

Le conseguenze per l’azienda e per la società

Il Mobbing provoca un sensibile calo di produttività all’interno dell’azienda in cui si verifica. Innanzitutto la vittima non lavora più con gli stessi ritmi e la stessa efficienza: la sua produttività si riduce notevolmente, tanto che si possono raggiungere cali di prestazione dell’80%. L’azienda subisce poi direttamente i costi di questo fenomeno: essa infatti continua a sostenere economicamente il 100% della paga del mobbizzato e del mobber. Vanno poi considerate le lunghe e continuate assenze per malattia del mobbizzato, nonché la sua sostituzione che l’azienda deve sobbarcarsi per portare a termine comunque il suo lavoro. C’è poi un altro tipo di conseguenza indiretta del Mobbing che un’azienda subisce: il mobber stesso provoca gravi danni, compiendo spesso sabotaggi, che danneggiano l’azienda prima ancora della vittima, o inducendo la vittima a compiere degli errori, anche questi costosi per la ditta; infine dedicando tra il 5% ed il 10% del suo tempo lavorativo alla progettazione ed esecuzione delle azioni mobbizzanti. Infine, se il Mobbing è lasciato agire indisturbato, esso può giungere alla sua ultima fase, che vede la vittima costretta ad uscire dal mondo del lavoro, causando ancora gravi costi alla ditta, che deve trovare nuovo personale e predisporre nuova formazione. Nel caso in cui il lavoratore mobbizzato abbia subito un danno quantificato da apposite perizie, egli può citare in giudizio l’azienda stessa, che in caso di perdita della causa può essere costretta a risarcirlo con somme di denaro anche ingenti. I costi del Mobbing si ripercuotono poi sull’intera società: una vittima di Mobbing è di solito pre-pensionata o invalidata dal lavoro, e secondo stime statistiche, un lavoratore costretto alla pensione a soli 40 anni costa già 620.000 Euro in più rispetto ad uno pensionato all’età prevista.

Le soluzioni al Mobbing: percorsi formativi

Formazione a tutti i livelli è la parola chiave per risolvere o limitare i problema del Mobbing: essa vuol dire innanzitutto corretta informazione, quindi prevenzione e strategie risolutive. Si può operare a vari livelli: a livello aziendale, con specifiche modalità formative di gestione del conflitto e del Mobbing; a livello professionale, rivolgendosi a quei professionisti (medici, psicologi, avvocati, etc) e a quegli operatori del sociale che sono i primi punti di riferimento a cui si rivolge una persona con problemi sul lavoro e che quindi devono essere in possesso delle conoscenze e delle capacità per ascoltare, consigliare, indirizzare; infine c’è la formazione individuale, ossia rivolta alle singole persone, mobbizzate o meno, e mirata a rinsaldare i principi dell’autostima e ad impartire le tecniche dell’Autodifesa Verbale, dell’Egoismo sano e della Pigrizia positiva.

Il corso di Autodifesa Verbale ha lo scopo di insegnare praticamente e con simulazioni apposite le regole e le strategie fondamentali per difendersi dagli attacchi verbali (insulti, offese, risposte brusche, battute e scherzi di dubbio gusto, rimproveri e critiche infondate) che possono (o no) fare parte del Mobbing, in modo da controbattere in maniera adeguata senza scatenare un fatale inasprimento del conflitto. L’Egoismo Sano invece propone una nuova filosofia di vita, che si basa sul concetto secondo cui essere egoisti non vuol dire necessariamente recar danno agli altri, mentre non essere egoisti il più delle volte significa fare davvero del male a noi stessi e che incoraggia quindi a riconquistare se stessi e la padronanza dei propri pensieri e atteggiamenti, svincolandosi dalle limitazioni e dalle influenze dell´ambiente circostante. Infine, Il corso di Pigrizia Positiva, insegna, in modo costruttivamente provocatorio, a diventare “pigroni ad hoc”, ad essere cioè deliberatamente e metodicamente pigri per difenderci dallo stress e goderci la vita: risparmiare la nostra energia vitale nelle piccole e grandi cose di ogni giorno e riconoscere gli sprechi e le trappole della vita moderna sono ottime strategie per prolungare non solo la nostra vita ma anche la nostra salute.

03 Giu 2020

Autostima : come si struttura nel corso del tempo

Autostima : come si struttura nel corso del tempo

L’autostima è uno dei pilastri fondamentali su cui costruire il proprio benessere emotivo: una percezione positiva di sé aiuta a porsi in atteggiamento costruttivo nei vari ambiti di vita (sfera lavorativa, relazioni sociali e affettività). E’ utile innanzi tutto rendersi conto di quale sia il proprio dialogo interno nei momenti di stress e frustrazione.

Qualcuno si troverà ad attribuire il proprio insuccesso a se stesso mentre altre persone tenderanno ad accusare la vita, gli altri o il destino per quanto accaduto. Ci troveremo a fare i conti con un diverso grado di senso di colpa o impotenza, mortificazione, tristezza e rabbia. Tale modalità dipende in parte dal temperamento di ognuno e in parte dall’ambiente familiare e dai condizionamenti subiti negli anni dello sviluppo della personalità.

Qualunque sia la genesi della mancanza di autostima, è importante consapevolizzare i propri meccanismi interiori per poterli poi padroneggiare e coltivare la fiducia in sé seguendo una serie di utili strategie, per poter progressivamente divenire amici di se stessi ed abbandonare il severo sguardo autocritico.

E’ importante porsi degli obiettivi raggiungibili: sia sul lavoro che nelle relazioni molto spesso la stima di sé viene danneggiata dall’aver scelto un obiettivo “ideale” e poco realistico e di avere la percezione di partire già sconfitti. Prima di cominciare a “scalare una montagna troppo alta” è importante preparare tutti gli strumenti che ci serviranno per la scalata e soprattutto dividere il percorso in varie tappe.

E’ funzionale immaginare dei sotto-obiettivi, raggiungibili in breve tempo e verificabili, che diano il polso della situazione e fungano da continua verifica della direzione in cui si sta procedendo. Spesso accade infatti che, per l’ansia di raggiungere un risultato in tempi brevi, si rischi di sentire un sovraccarico tale che ci impedisce persino di partire.

Un’altra utile riflessione riguarda la necessità di rendersi autonomi dalle aspettative degli altri: sforzarsi di raggiungere un risultato per ottenere il riconoscimento altrui è un’arma a doppio taglio.

Se da un lato inizialmente ci si può sentire sostenuti e motivati dallo sguardo degli altri, in un secondo momento ci si può rendere conto di come la motivazione esterna sia molto più fragile di quella interna, che nasce dal profondo e ci aiuta a non demordere anche quando le circostanze sono sfavorevoli. Prima di intraprendere un cammino domandiamoci dunque se siamo davvero noi stessi a desiderarlo o se siamo condizionati dall’esterno, e in che misura. In questo modo saremo maggiormente in grado di essere davvero felici per i nostri successi, indipendentemente dal rimando esterno che ci verrà dato. Un altro possibile accorgimento per incrementare la visione positiva di sé è quella di coltivare relazioni costruttive: chi non ha stima di sé spesso tende a ricercare la vicinanza di persone che gli rimandino quell’immagine negativa di cui sono vittime, perché è l’unica che riconoscono. Ciò accade per un meccanismo inconscio molto potente chiamato “coazione a ripetere”, in cui la persona si pone attivamente in una situazione per lei penosa ripetendo vecchie esperienze senza riuscire a risalire al prototipo. Nel momento in cui ci rendiamo conto di reiterare modalità disfunzionali possiamo apprendere nuove strategie per modificare il comportamento e dunque il corrispondente vissuto emotivo. Avvicinandoci a persone rispettose ed amorevoli sentiamo crescere la stima in noi stessi e cominciamo ad accorgerci di essere degni di fiducia e rispetto, aspetti che prima non conoscevamo. In tale contesto favorevole si può cominciare anche ad accettare i complimenti e riconoscere le buone qualità che gli altri ci rimandano, a cui spesso stentiamo a credere e viviamo con imbarazzo, perché non siamo abituati a questa immagine buona che ci viene rimandata. Cominciando a sperimentarsi in contesti favorevoli, ci si accorgerà di qualità e caratteristiche personali che precedentemente risultava difficile vedere.

Possiamo inoltre modificare gradualmente il dialogo interno immaginando propositi o frasi di segno positivo che ci caratterizzano e che non siano troppo generici, provando a ripeterle mentalmente per poterle sostituire ai pensieri svalutanti che ci affollano la mente nei momenti di tensione, stress o frustrazione. In questo modo si può divenire maggiormente consapevoli dei propri approcci disfunzionali ai problemi.

E’ utile anche creare delle risorse interne che fungano da barriera protettiva da possibili fallimenti o commenti altrui (come ad esempio il senso dell’umorismo, la capacità di relativizzare, il saper dire di no, l’esplicitare la propria idea anche se in dissenso etc…).

 

27 Mag 2020

OLTRE OGNI LIMITE: IL SENSATION SEEKER

OLTRE OGNI LIMITE: IL SENSATION SEEKER

Ci sono molte persone che si divertono praticando attività rischiose come compiere scalate, lanciarsi da un aereo, fare bungee jumping, guidare in modo spericolato, fare uso di droghe… Costoro sono costantemente alla ricerca di sensazioni nuove, di eccitamento, di emozioni forti che facciano sentire vivi e vengono definiti sensation seeker. Essi hanno bisogno di pura adrenalina, provocata dalla novità e da stimoli intensi. L’incessante ricerca di emozioni la si ritrova anche nelle relazioni amicali, nella vita professionale e nei rapporti di coppia: ad esempio, il sensation seeker è alla continua ricerca di stimoli per l’innamoramento, passando da un partner all’altro e ricercando comportamenti trasgressivi per evitare la monotonia. E può fare il carico di adrenalina anche nei momenti di “pausa”, con musiche d’impatto e film d’azione, feste movimentate e viaggi avventurosi. L’importante è non annoiarsi, vincere la staticità, sentirsi sempre attivo.

L’incolumità? Poco importa: c’è sempre la sicurezza di farcela. Le persone in cerca di stimolazione possono percepire meno i rischi e le conseguenze derivanti da attività pericolose, possono essere maggiormente disposte ad accettare il rischio, al fine di provare l’emozione associata a comportamenti rischiosi oppure sono consapevoli dei pericoli che corrono nell’adottare specifici comportamenti pericolosi, ma solitamente tendono a sottostimare la probabilità delle conseguenze negative, in quanto non ritengono che tali eventi possano capitare a loro.

Il sensation seeker è caratterizzato da una certa vulnerabilità emozionale che si associa ad un’incapacità di gestire le emozioni o farlo in modo inadeguato. Risultano carenti nelle capacità di inibire comportamenti inappropriati legati a forti impulsi ma sono anche incapaci di contenere le risposte fisiologiche legate alle emozioni perché l’obiettivo primario è quello della gratificazione immediata. La loro incapacità di posporre tale soddisfazione è legata all’incapacità di tollerare la noia e la monotonia che li portano a mettere in atto comportamenti volti ad ottenere a livello emotivo “tutto e subito”.

La “sensation seeking” nell’accezione di Zuckerman (1994) è “un tratto definito dalla ricerca di comportamenti a rischio, sensazioni ed esperienze varie e intense, e dalla disponibilità a correre rischi fisici, sociali, legali e finanziari, per il piacere di tali situazioni”.

La ricerca di sensazioni si struttura in quattro diverse componenti:

  • La ricerca di brivido e di avventura, che si esprime nel bisogno di praticare attività rischiose che facciano provare sensazioni nuove e forti.
  • La ricerca di esperienze, ovvero il bisogno di provare esperienze sensoriali, mentali o anche sociali nuove, diverse dal solito, anche anticonformiste.
  • La disinibizione, vale a dire la tendenza a liberarsi dalle inibizioni preferendo attività “senza controllo”, come feste selvagge, bere estremo, promiscuità sessuale, ecc.
  • La suscettibilità alla noia, ossia la tendenza ad evitare attività e compiti ripetitivi e noiosi.

Questa tendenza risulta essere più spiccata nel sesso maschile e, in entrambi i generi, raggiunge la sua massima espressione nel periodo giovanile (soprattutto nel passaggio dal primo al secondo superiore) per poi diminuire progressivamente all’aumentare dell’età. Tali comportamenti crescono nell’adolescenza, probabilmente anche perché ritenuti un marker dell’indipendenza tanto cercata in questa fase di transizione. L’adolescenza rappresenta infatti la fase del ciclo di vita in cui il bisogno di rischiare, inteso come assunzione di rischi in termini comportamentali, si esprime con particolare intensità. Si tratta di condotte che consentono all’adolescente di mettere alla prova le proprie abilità e competenze, di concretizzare i livelli di autonomia e di controllo raggiunti e di sperimentare nuovi e diversificati stili di comportamento.

La sensation seeking non è definita un disturbo psichiatrico ma un tratto di personalità, una caratteristica stabile e (di base) sana del modo di essere di molte persone. Cercare delle sensazioni forti può addirittura essere totalmente adattivo con certi stili di vita. Pensa per esempio a chi, per lavoro, si trova spesso in condizioni estreme o a fare vere e proprie avventure.

Quello che si è visto, semmai, è che alcune persone a cui è stato diagnosticato un certo disturbo di personalità spesso possono essere dei sensation seekers. Questo per esempio vale per il Disturbo di Personalità Antisociale o per il Disturbo di Personalità Borderline, benché non è una regola.

In definitiva possiamo dire che la ricerca di emozioni forti, una pratica molto diffusa tra gli adolescenti nel tentativo di autoaffermazione della propria identità oggi si trova sempre più anche età adulta e che essa può essere influenzata da diverse variabili, quali caratteristiche di personalità, autostima, abilità relazionali, contesto sociale e culturale di appartenenza del soggetto.

Un bene o un male?

Un sensation seeker può vivere tranquillamente la sua vita. Anzi, spesso sono quelle persone che aprono la strada, che creano nuovi percorsi lì dove sembra troppo pericoloso attraversare, permettendo a tutti di progredire e andare avanti. Tutto, naturalmente, dipende dalla capacità di gestione e controllo della propria vita e delle proprie azioni… che a volte può essere molto ridotta.

27 Mag 2020

COME CREARE UN TEAM COESO

COME CREARE UN TEAM COESO

Il dizionario Merriam-Webster definisce il gruppo di lavoro (team work) come “il lavoro svolto da vari soci, ognuno dei quali si occupa di un aspetto, subordinando la propria preminenza all’efficienza del complesso”. La chiave del team work è la costruzione di un team efficace (team building). Il team building è la chiave di un’organizzazione di successo, in cui è dato spazio al benessere organizzativo. Letteralmente team building significa “costruzione della squadra”, infatti si intende proprio il processo di trasformazione di un gruppo di singoli individui in un team coeso, organizzato per lavorare insieme in maniera interdipendente e cooperativa. Le attività possono essere formative ed educative, ma possono anche essere esperienziali oppure prettamente ludiche. Attraverso attività diverse , i partecipanti possono imparare a guardare i propri colleghi in un’ottica differente, e a connettersi con gli stessi in diversi contesti.

Può essere utilizzato in qualunque ambito:

  • In un contesto aziendale per motivare e incentivare un team di lavoro, migliorare comunicazione e collaborazione;

  • Durante un viaggio per divertire e premiare i partecipanti;

  • A scuola per migliorare l’intesa all’interno della classe, tra più classi o tra classe e insegnante;

  • In un gruppo di amici per creare spirito di gruppo.

    Le strade con cui raggiungere gli scopi prefissati sono molteplici, e dipendono non solo dagli aspetti che l’azienda vuole migliorare ma anche dalle peculiarità del team (sia in termini di numero che di caratteristiche delle persone che compongono il gruppo). In generale, comunque, potremmo dividere la attività in:

  • team building indoor (al chiuso);
  • team building outdoor (all’aperto).

Le attività di team building indoor sono quelle che si svolgono al chiuso, all’interno degli spazi dell’azienda o anche in luoghi ad hoc.

È chiaro che, la formazione non si riduce alla sola parte ludica o di svago: per ogni tipologia di attività è importante che venga individuato un obiettivo in partenza e, al termine, venga comunque effettuata un’analisi su quanto svolto.

Tra i vantaggi del team building outdoor vi è, senza dubbio, il fatto di poter uscire dal contesto lavorativo e immergersi in un ambiente all’aria aperta, spesso a contatto con la natura.

L’importante è sempre proporre qualcosa (sia in termini di attività che di luogo) che possa mettere i soggetti nelle condizioni di esprimersi al meglio

5 PASSI PRIMA DI INIZIARE L’ATTIVITA’ DI TEAM BUILDING

1. Obiettivi: qual è la situazione dell’azienda? Quali sfide stanno vivendo i collaboratori? Cosa si desidera che apprendano o migliorino con il team building? Perché è importante raggiungere tali risultati e come verranno misurati? 

2. Dialogo aperto tra persone e responsabili per chiarire gli obiettivi e la serietà dell’attività

3. Condivisione del metodo tra formatore aziendale e manager (o team HR)

4. Pianificazione equilibrata di momenti attivi e riflessivi

5.Programmazione di sessioni di peer to peer coaching tra colleghi e incontri one-to-one tra collaboratore e responsabile per monitorare i risultati.

CONSIGLI SU COME FARE TEAM BUILDING AZIENDALE

Al di là delle diverse metodologie con cui si può fare team building in azienda, ci sono alcune regole da seguire

1.Coinvolgere tutti:

2.Scambiarsi le informazioni utili superando le gerarchie aziendali

3.Avere obiettivi comuni: condividere con il team gli stessi obiettivi e i risultati raggiunti è di fondamentale importanza per poter fare team building aziendale.

4.Un destino e un compito ben chiari: una cosa fondamentale per fare team building aziendale nel modo giusto è suddividere compiti e responsabilità e fare in modo che siano chiari a tutti i membri del gruppo.

5.Prendersi le proprie responsabilità: all’interno di un team è importante che ognuno si prenda le proprie responsabilità senza scaricarle sugli altri.

6.Saper aiutare gli altri, senza uscire dal proprio ruolo: per far funzionare nel modo giusto un gruppo di lavoro è importante che tutti abbiano ruoli e responsabilità ben definite. Ma questo non significa che non si possa uscire dai rigidi schemi imposti dalla gerarchia aziendale per aiutare i membri del proprio team quando serve.

20 Mag 2020

LE NORME ED I VALORI DELLA CULTURA ORGANIZZATIVA

LE NORME ED I VALORI DELLA CULTURA ORGANIZZATIVA

La cultura e i valori aziendali hanno un impatto determinante sul livello di motivazione individuale e molti studi lo dimostrano. In particolare, la motivazione delle persone aumenta quando è chiaro il significato ultimo delle azioni, quando lo sforzo individuale contribuisce a creare un valore più grande. La cultura organizzativa influenza l’efficienza dell’organizzazione e il benessere delle persone. Quello di cultura organizzativa è un costrutto multidisciplinare in cui si integrano approcci psicologici, sociologici, antropologici e etnografici. Secondo la proposta di Edgar Schein, ci sono tre livelli di progressiva profondità ai quali si manifestano i modelli di comportamento preferiti e proposti dall’organizzazione. La sua posizione sensibilizza le persone a osservare i contesti organizzativi considerando tre livelli ai quali si manifestano gli schemi prevalenti di uno specifico contesto organizzativo. Questi tre livelli corrispondono agli artefatti, ai valori e agli assunti di base. I primi segnano la superficie dell’organizzazione e sono elementi che possono essere ascoltati, visti e sentiti. La tecnologia, la lingua, i prodotti, le dichiarazioni dei gruppi, gli slogan delle organizzazioni, i codici di abbigliamento e il modo in cui le persone interagiscono tra loro. Questi non sono solo visibili ai dipendenti ma anche visibili e riconoscibili per le parti esterne. Il livello successivo, quello dei valori, riguarda ciò che è importante in una specifica organizzazione e che costituisce una guida per adottare i comportamenti più in linea con quanto considerato rilevante anche da tutti gli altri membri e più appropriati in determinate situazioni. Essi, infatti, diventano oggetto di cultura organizzativa se sono condivisi dalla maggior parte dei membri dell’azienda.  In particolare, dichiarare specifici valori consente all’organizzazione di mandare segnali su veri e propri codici morali che dovrebbero aiutare i membri a valutare ciò che è giusto o sbagliato. Gli assunti di base costituiscono il livello della cultura più profondo in quanto sono profondamente radicati nella cultura organizzativa. Si sono sviluppati inconsciamente nel tempo e sono dati per scontati da tutti i membri dell’organizzazione. Questi presupposti vengono automaticamente obbediti senza essere messi in discussione e senza sapere nemmeno che esistono. Inoltre, non sono visibili e hanno una grande influenza sul comportamento dei membri dell’azienda.

Tipologie culturali delle organizzazioni

Eugène Enriquez è autore di una celebre classificazione dei tipi di cultura organizzativa. Un modo per analizzare le culture organizzative consiste nel trovare una corrispondenza tra gli indizi culturali presenti in una determinata organizzazione e alcune categorie predefinite, cosicché la cultura esaminata può essere ricondotta a una specifica tipologia culturale. Per collocare l’organizzazione in una tipologia piuttosto che in un’altra, Enriquez segnala quattro parametri che assumono caratteristiche differenti in ognuna della cinque tipologie: il valore prevalente, i criteri di carriera, le modalità di comunicazione e di relazione interpersonale, e i bisogni individuali che vengono soddisfatti nel contratto psicologico con l’organizzazione. La classificazione proposta da Enriquez implica cinque tipi di cultura: la cultura autoritaria, la cultura burocratica, la cultura paternalistico-clientelare, la cultura tecnocratica e la cultura cooperativa. Nella cultura autoritaria il valore fondamentale è il rispetto dell’autorità e la subordinazione nei suoi confronti rappresenta il criterio su cui si fonda la valutazione dell’operato delle persone e la progressione di carriera. Questa tipologia si contraddistingue per la presenza di un capo carismatico, per il rispetto di quella che risulta essere l’autorità formale dell’organizzazione e per comunicazioni di tipo up-down. Il dialogo è ridotto alla consegna di direttive da seguire e il feedback non esiste o è un intervento correttivo che sottolinea solo gli errori da evitare. La cultura burocratica è caratterizzata dall’osservanza delle norme. Infatti alle persone è richiesto il rispetto dei confini di ruolo e l’esecuzione standardizzata dei compiti previsti, senza particolare iniziative o progettualità future. La cultura paternalistico-clientelare si basa sull’appartenenza ad un gruppo e sullo scambio di benefici tra il capo e i membri del gruppo stesso. La componente paternalistica si esprime con la superiorità e il controllo del capo che dispensa privilegi ai membri di un gruppo, i quali a loro volta reciprocano il capo con un sostegno leale alla sua persona. Gli elementi caratteristici della cultura tecnocratica sono la competenza professionale, l’efficacia aziendale, l’efficienza, il rendimento, la competizione e l’orientamento all’obiettivo da raggiungere. Rendimento ed efficienza connotano uno sviluppo professionale continuo, con una particolare fiducia nella razionalità e nell’orientamento all’obiettivo da raggiungere piuttosto che al compito rigidamente predeterminato e senza apporti originali individuali. La cultura cooperativa si basa sulla partecipazione di tutti i membri alle decisioni o alle iniziative organizzative, sul lavoro di gruppo, sulle comunicazioni di tipo informale e su livelli gerarchici ridotti. Il presupposto dell’autonomia d’azione è la responsabilizzazione del singolo e il fatto che ognuno risponde dei propri risultati, senza disimpegni o ritiri degli apporti individuali.

4 consigli per rafforzare la cultura organizzativa

Ci sono tante leve che può adoperare l’azienda nel rafforzare la cultura organizzativa e quindi promuovere il benessere aziendale. Ecco di seguito quattro modi per rafforzare la cultura organizzativa:

  1. Comunicare i valori aziendali. Sarebbe fondamentale condividere i valori aziendali già in fase di selezione del personale, in modo che l’eventuale nuovo assunto già li conosca. Gli eventi aziendali rappresentano un ottimo strumento non solo per riunire e far conoscere persone, ma anche per creare un senso di comunità e appartenenza. Le feste aziendali non sono solo un modo efficace per gratificare e rallegrare i dipendenti, ma rappresentano uno strumento molto utile per rafforzare la cultura aziendale.
  2. Rispondere alle necessità dei collaboratori. Per rafforzare la cultura aziendale è fondamentale analizzare le esigenze personali dei collaboratori e favorire tutte le iniziative che rispondono ai loro bisogni.
  3. Premiare obiettivi e risultati. Il riconoscimento per un obiettivo raggiunto, oltre a valorizzare il lavoro svolto, è una leva per migliorare la motivazione e puntare a  rafforzare la cultura.
  4. Promuovere la capacità di leadership.“La cosa davvero importante che fanno i leader è quella di creare e gestire la cultura. Se non gestisci la cultura, è lei che gestisce te e non ti accorgerai nemmeno di quanto lo stia facendo.” (Edgar Schein). E’ fondamentale che le figure che ricoprono un ruolo manageriale contribuiscano a supportare il benessere in azienda diffondendo un clima di lavoro sano e collaborativo.

Tutti partecipano alle dinamiche culturali, ma generalmente la cultura passa inosservata. Solo quando l’azienda prova ad intraprendere nuove strategie, oppure obiettivi incompatibili con le norme e i valori della cultura aziendale, allora ci si trova davanti al potere esercitato dalla cultura. Quindi la cultura organizzativa dovrebbe rappresentare la colonna portante dell’organizzazione in quanto è in essa che si gettano le basi che consentono al sistema organizzativo di essere produttivo ed equilibrato.

20 Mag 2020

LA FLESSIBILITÀ COME STRUMENTO PER UNA VITA PIENA E FELICE

LA FLESSIBILITÀ COME STRUMENTO PER UNA VITA PIENA E FELICE

Chi è flessibile a livello mentale ha maggiori possibilità di essere felice, in quanto la sua mente riesce ad adattarsi con maggior facilità alle nuove sfide e alle difficoltà.

Adattarsi all’ambiente circostante è una delle migliori caratteristiche che possiamo avere per poter vivere meglio. Più siamo rigidi nelle nostre idee, più sarà facile farci trascinare dai pensieri negativi, ossessivi e che ci allontanano dalla felicità.

La rigidità mentale ci rende prigionieri, ci porta inesorabilmente a commettere sempre gli stessi errori, riduce la nostra capacità di adattamento, la creatività, la spontaneità e la positività. Ci mantiene legati a vecchi schemi che ci impediscono di crescere intellettualmente ed emotivamente.

Infatti, le persone mentalmente rigide sono quelle che:

– Pensano che esista solo un modo di fare le cose.

– Assumono che il loro punto di vista è l’unico corretto e che gli altri sbagliano.

– Non sono aperti al cambiamento perché li spaventa.

– Restano legate al passato e si rifiutano di avanzare.

La caratteristica più invalidante dell’inflessibilità psicologica consiste nell’incapacità di modificare la propria routine e le proprie abitudini mentali, il che molto spesso conduce alla depressione.

Lo schema di pensiero di una persona depressa è costellato da idee negative ripetute all’infinito e ciò inasprisce inevitabilmente la sensazione di malessere.

La visione che abbiamo del mondo e del nostro ambiente circostante condiziona il nostro benessere e pertanto anche l’impegno, la partecipazione e l’atteggiamento che mostriamo verso noi stessi e gli altri. Essere una persona dalla mente flessibile comporta numerosi vantaggi. Le persone flessibili non smettono mai di imparare, di crescere, di socializzare, inoltre tendono a tollerare meglio la frustrazione, non hanno paura dei cambiamenti, si evolvono e presentano livelli di stress minori.

La ricerca scientifica dimostra che maggiore è il nostro livello di flessibilità psicologica migliore è la nostra qualità della vita e il livello di benessere in ambito lavorativo.

Man mano che aumentiamo la nostra flessibilità psicologica, saremo maggiormente in grado di gestire efficacemente i sentimenti difficili, arrestare quei processi di pensiero che non ci sono d’aiuto, modificare i comportamenti inefficaci o controproducenti in modo tale da costruire relazioni migliori.

La flessibilità psicologica è una competenza che ci permette di adattarci e rispondere in maniera efficace alle situazioni che incontriamo. Per essere flessibili è necessario essere consapevoli di ciò che sta accadendo e individuare una risposta efficace.

La flessibilità mentale è un’abilità che può essere sviluppata. In che modo?

  1. Concentrati sulle tue emozioni. Quando sei tentato di respingere completamente un’idea, concentrati nelle tue sensazioni. Se ti senti a disagio con quello che stai dicendo, è probabile che questa rigidezza di pensiero nasconda una resistenza inconscia. Chiediti di cosa hai paura. Se rispondi onestamente inizierai a renderti conto di diverse cose. Infatti, quanto maggiore sarà la paura che provi tanto più forte sarà la resistenza.
  2. Alimenta la tua voglia di crescere. La curiosità rimane uno degli strumenti più potenti che abbiamo a disposizione per crescere. Invece di accettare semplicemente le idee chiediti piuttosto il “perché” delle cose. Quando inizi a mettere in discussione tutto quello che hai sempre dato per scontato, non incontrerai solo nuove risposte, ma scoprirai anche un mondo nuovo, molto più grande di quello che conoscevi.
  3. Sviluppa empatia. In alcuni casi, è probabile che non sarai d’accordo con idee, modi di pensare e atteggiamenti di altri. Ma invece di rifiutarli completamente, cerca di metterti al posto di queste persone per capire come sono nate queste idee. Se si rifiuta ciò che non si conosce o non piace, si resterà sempre la persona di prima, ma se si cerca di capire l’altro, si farà un ulteriore passo in avanti, si crescerà un poco di più.
  4. Accetta gli errori. Avere una buona flessibilità mentale significa non avere paura di sbagliare, significa essere disposti a cogliere le nuove opportunità, anche se questo significa commettere errori. Si tratta di comprendere la vita come un continuo apprendimento nel quale ogni errore non è un passo indietro, ma un passo in avanti verso la nostra evoluzione, perché permette di sbarazzarsi di vecchi schemi e modi di fare arcaici. Relativizza la portata di qualche insuccesso cercando di coglierne l’insegnamento.
  5. Non cercare la verità assoluta. La premessa più importante per sbarazzarsi della rigidità mentale consiste nel non cercare una verità assoluta, semplicemente perché non esiste. Pertanto, è importante non afferrarsi a un solo modo di vedere le cose e mantenere una mente sempre aperta.
  6. Non lasciarti abbattere dal giudizio altrui. Concentrarsi sui giudizi degli altri, non fanno altro che portarvi a pensare continuamente alla parte negativa delle situazioni. Concentratevi su ciò che vi rende felici e lasciate passare tutte quelle parole che non vi aiutano a crescere in maniera costruttiva e vi allontanano dalla felicità.

«Non creare idee assolute, rimani flessibile. E ricorda: una cosa può essere buona per te oggi e non esserlo più domani, perché la vita continua a cambiare e non puoi bagnarti due volte nello stesso fiume», Osho.

13 Mag 2020

I Meccanismi di difesa nel colloquio di selezione

I Meccanismi di difesa nel colloquio di selezione

Qualsiasi tipo di colloquio-intervista implica un processo dinamico, di incontro tra due persone, all’interno del quale avviene uno scambio di informazioni e di conoscenze, che porta i soggetti ad avere una maggior conoscenza l’uno dell’altro. Nel caso del colloquio di selezione, è soprattutto il selezionatore ad essere interessato a raccogliere il maggior numero di informazioni sul suo interlocutore; il suo compito, infatti, è quello di valutare se questi sia idoneo o meno alla posizione per la quale si candida. Perché questa valutazione sia adeguata, è indispensabile che, oltre a reperire un numero sufficiente di dati (sia diretti che indiretti, sia verbali che comportamentali), il selezionatore sia in grado di tenere controllati quei meccanismi che possono alterare il corso del colloquio.

Alla scoperta dei meccanismi di difesa.

Già dall’inizio dell’interazione, in effetti, risultano inevitabilmente attive, sia per il candidato, che per il selezionatore, alcune modalità di funzionamento mentale, finalizzate al contenimento dell’ansia che la situazione del colloquio genera. Si tratta di quelle operazioni mentali che la psicologia dinamica definisce “meccanismi di difesa” e che vengono messe in atto in modo automatico, in misura individualmente diversa.
In termini molto generali possiamo indicare come “meccanismi di difesa” i vari modi adottati dall’Ego – a livello inconscio – per proteggersi dai movimenti affettivi dolorosi legati a qualche situazione spiacevole, di conflitto con se stessi e con gli altri. Attraverso tali processi mentali l’individuo realizza la strutturazione dinamica del proprio mondo interno e, di conseguenza, la propria forma di equilibrio anche con il mondo esterno.
I meccanismi di difesa che ciascun individuo può mettere in atto sono diversi e può esistere una rigidità più o meno accentuata nella scelta degli stessi meccanismi in situazioni diverse. Di seguito ne sono elencati alcuni come:

– Negazione: rifiuto di accettare e di ammettere l’esistenza di certe situazioni, desideri, pensieri che le risultano dolorosi o comunque spiacevoli, fino alla negazione di una realtà obiettiva;

– Proiezione: attribuzione a qualcun altro di una propria caratteristica, o di un proprio stato d’animo, che vengono successivamente percepiti come appartenenti a quella persona invece che a se stessi;

– Identificazione: assimilazione dell’immagine di una persona che porta a pensare, sentire, agire, nel modo in cui si reputa che quella persona pensi, senta e agisca;

– Razionalizzazione: costruzione di ragioni plausibili, che consentano di accettare su di un piano razionale, comportamenti e opinioni che non risultano accettabili sul piano affettivo o valoriale;

– Perfezionismo: richiesta a se stessi e agli altri, in ogni situazione, della più elevata qualità di performance. Per esempio, nella situazione del colloquio, il soggetto si dilunga inutilmente nei particolari, utilizzando un linguaggio eccessivamente forbito e preciso, con estrema pedanteria;

– Intellettualizzazione: conferimento di una strutturazione concettuale ai propri conflitti e alle proprie dinamiche emotive. Per esempio, ogni volta che tocca un argomento importante, il soggetto trasforma le ansietà in considerazioni intellettuali; spiega, interpreta, giustifica intellettualmente tutto;

– Formazione reattiva: sviluppo di atteggiamenti e comportamenti accettabili dal punto di vista sociale, che però esprimono esattamente il contrario degli impulsi rimossi;

– Ritiro emotivo: eccessivo distacco, dovuto al timore di farsi coinvolgere, in seguito ad una precedente esperienza penosa. Si manifesta con una molto ridotta responsività agli stimoli emozionali;

Meccanismi di difesa adattivi e non

Le personalità “disturbate” o “deboli” sono caratterizzate dalla messa in atto di meccanismi di difesa rigidi, poco tollerabili da parte degli altri individui, gestiti con difficoltà nella relazione sociale, mentre negli individui con “ego forte” si trovano più correttamente quelli che taluni autori indicano come “meccanismi di adattamento”. Con questo termine si intendono quei meccanismi di difesa che permettono di mantenere un rapporto con la realtà buono e flessibile.
Ciò che determina la differenza rispetto ai meccanismi non adattivi, non è tanto la scelta di quale difesa, quanto piuttosto il come e il quanto (e soprattutto con che rigidità) un meccanismo viene adottato.
Inoltre, anche se i meccanismi di adattamento sono inconsci come ogni meccanismo di difesa, è di solito relativamente facile fare prendere coscienza al soggetto del fatto che li sta adoperando, mentre, negli altri casi “meno adattivi”, il soggetto offre forti resistenze nel riconoscere che sta utilizzando tali operazioni mentali.
Secondo Giancarlo Trentini – uno dei maggiori studiosi italiani del colloquio come metodologia d’indagine – i meccanismi di difesa dovrebbero essere approfonditamente conosciuti da ogni buon intervistatore, perché questi sia in grado di individuare quelli messi in atto dall’intervistato e, contemporaneamente, di riconoscere e gestire le proprie contromisure collusive o difensive.
Risulta particolarmente utile, durante la conduzione del colloquio, riuscire anche ad individuare un utilizzo anomalo di queste difese, che potrebbe testimoniare un’incompatibilità del candidato rispetto al profilo ricercato.
Senza una specifica preparazione nella gestione dei processi mentali messi in atto durante le interazioni, è possibile raccogliere informazioni solo su contenuti manifesti.