20 Nov 2019

Il gruppo dei pari e gli adolescenti

Il gruppo dei pari e gli adolescenti

L’adolescenza rappresenta un periodo cruciale della vita in cui cambia in maniera radicale e tumultuosa il modo di sentire e di vedere il mondo, un periodo di transito dove il bambino inizia a divenire uomo ma ancora non si può dire tale. Questo momento di crescita è caratterizzato dalla rottura con il passato: il ragazzo deve dire addio al bambino e guardare avanti per capire che adulto potrebbe essere.

L’allontanamento dai genitori è fondamentale per cominciare a sperimentarsi con il mondo, ma non da soli, sono ancora troppo deboli. Il gruppo dei pari nell’adolescenza diventa più importante perché supporta, guida e protegge nel bene e nel male. L’instabilità degli adolescenti si esprime nell’oscillare e nel sovrapporsi di due bisogni opposti: quello di cercare una propria indipendenza e una propria progettualità e quello, ugualmente pressante, di sentirsi confermati e condivisi in questo cammino da parte degli altri. Il compito fondamentale dell’adolescenza è la definizione della propria identità, questo processo di crescita prevede una presa di distanza e differenziazione dalla famiglia che perde di centralità per cercare una propria dimensione più autonoma. In questa fase vi è un aumento dell’importanza attribuita ai rapporti sentimentali e amicali verso i pari; nei rapporti affettivi con i coetanei, l’adolescente cerca conferma al proprio senso d’identità personale che prima trovava nel rapporto con i genitori. Il ragazzo oscilla continuamente tra la condizione di bambino attaccato ai genitori e quella di adulto indipendente e il gruppo funge da stabilizzante in questo periodo di transito. L’altro diventa uno specchio in cui rivedere le proprie perplessità, i dubbi e le paure. Al gioco si sostituiscono nuove esperienze e nuove forme di apprendimento. In realtà anche questi sono nuovi giochi, ma gli adolescenti non mettono alla prova il loro corpo, la percezione e la loro forza come da piccoli, bensì si sperimentano in abilità e relazioni.

PARTECIPARE AL GRUPPO PER SODDISFARE I PROPRI BISOGNI

Ogni adolescente partecipa al gruppo con aspettative e desideri personali. Alcune attese sono legate a particolari bisogni, che possono trovare soddisfazione nella partecipazione a un gruppo. Nello specifico, i bisogni psicologici che il gruppo assolve durante l’adolescenza sono:

  • bisogno di influenzare gli altri per affermare la propria individualità. I ragazzi sentono il bisogno di esercitare un certo potere o autorità;

  • bisogno di inclusione in un nuovo gruppo che lo riconosca. I ragazzi hanno bisogno di essere riconosciuti e presi in considerazione, soprattutto dai coetanei. Essere parte di un gruppo è uno dei modi più efficaci per ottenere questo riconoscimento;

  • bisogno di affetto: l’amicizia e l’affetto tra i coetanei, il sostegno reciproco, la possibilità di relazioni vissute come positive rappresentano degli antidoti contro l’insicurezza che ogni ragazzo può affrontare nella sua fase di crescita.

IL GRUPPO DEI PARI E IL CONFORMISMO

Il conformismo è una caratteristica principale del gruppo dei pari: si tratta della tendenza ad assumere comportamenti simili a quelli riscontrati negli altri; in genere ci si sente spinti a farlo. La pressione può essere interna od esterna, reale o immaginaria. Il conformismo non è necessariamente un male e agisce in entrambe le direzioni: i pari possono spingere a comportamenti pro-sociali, così come facilitare azioni disadattive. Non tutti gli adolescenti ne risentono allo stesso modo; esistono in letteratura delle variabili che sembrano incidere sulla influenzabilità, anche se non devono essere considerate come dei meccanismi certi: genitori troppo permissivi o assenti, comportamenti anti- sociali nella famiglia, bassa autostima e famiglia monoparentale con un solo genitore nella vita dell’adolescente. Il tipico conformismo adolescenziale consente al ragazzo di “uscire fuori”, scoprendo in maniera graduale la propria identità, attraverso il rapporto e il confronto con i suoi coetanei.

Nel momento in cui inizia a definire un proprio essere, l’adolescente incomincia a prendere le distanze dalla famiglia e a mettere in discussione i valori imposti, tutto viene rianalizzato in base alla nuova personalità che si viene pian piano strutturando nella ricerca di un proprio io e una propria individualità autonoma e distinta. In questo senso il gruppo è un ambiente aperto, in cui è più facile esprimersi e trovare le forme per sperimentare la propria personalità anche contestando il mondo degli adulti.

Dal momento che il gruppo rappresenta un elemento così importante nella vita di un giovane, davanti ad un rifiuto subito, a volte il ragazzo non si sente ben inserito o accettato all’interno del gruppo di pari e in questi casi possono svilupparsi disagi e disturbi più o meno seri che potrebbero portare a stati d’ ansia specifici come l’ansia sociale o stati depressivi.

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RAPPORTO TRA GENITORI E ADOLESCENTI

L’ adolescenza è caratterizzata da continua ricerca, formazione e sperimentazione dei propri valori. Il tutto è affiancato da un progressiva emancipazione dal controllo dei genitori che dovranno assumere una funzione vigilante ma non oppressiva, tutelando comunque il rispetto delle regole familiari seppur adattate al momento di transizione dei propri figli. Una famiglia che ha puntato sulla concessione progressiva di un certo grado di autonomia avrà probabilmente formato un ragazzo che ha fiducia in sé e che non si bloccherà nelle scelte. L’autoritarismo porta più facilmente a un’adolescenza improntata sulla ribellione aperta (poiché il controllo non si ammorbidisce nel tempo), più frequente nei ragazzi che nelle ragazze. Specialmente in quest’ultimo caso tanto per i genitori, quanto per i figli, non è semplice riuscire a comunicare e, molto frequentemente, il clima familiare è saturo di tensione e conflittualità da cui sembra difficile uscire. Soprattutto se sono presenti dei comportamenti che destano preoccupazione, richiedere una consulenza o supporto psicologico, potrebbe risultare molto vantaggioso per arrivare a soluzioni che ripristinino l’equilibrio familiare.

13 Nov 2019

La Mindfulness a Lavoro

La Mindfulness a Lavoro

Sappiamo benissimo come lo stress può influire sul rendimento nel lavoro, sui rapporti tra colleghi, sulla soddisfazione personale con conseguenze e costi sia l’azienda sia per il lavoratore. Per questo motivo molte sono le forme di prevenzione adottate dalle aziende per impedire allo stress di intaccare in modo significativo la salute della persona. Gli interventi di prevenzione vengono chiamati interventi di stress management, e mirano ad accrescere la consapevolezza riguardo le cause e le conseguenze dello stress e a insegnare un normale livello di attivazione psicofisiologica. Sono centrati sulla persona piuttosto che sull’ambiente (organizzazione) e possono essere intrapresi dal singolo lavoratore per prepararsi ad affrontare situazioni stressanti future. Alcune aziende introducono sempre più benefit collegati al benessere, altre cominciano a progettare e implementare vere e proprie politiche di cura della persona; il benessere nel contesto professionale sta diventando un fattore essenziale in relazione alla motivazione e alla produttività del personale, a qualsiasi livello.

Cosa è la mindfulness?

La meditazione di mindfulness è una pratica antichissima consistente in un ascolto attivo e profondo di sé finalizzato a prendere consapevolezza momento per momento dei propri stati interni (pensieri, sensazioni ed emozioni). È un metodo di apprendimento trasformativo, ovvero un processo attraverso cui possiamo trasformare la nostra esperienza abituale per accedere a nuove possibilità. La meditazione, attraverso un atteggiamento di osservazione accettante, non-giudicante e non reattiva verso l’esperienza interna ed esterna permette di attuare le scelte più vantaggiose nel proprio operare nei vari ambiti dell’agire quotidiano. Tale atteggiamento permette di diventare più consapevoli di come le nostre convinzioni, credenze e schemi mentali influenzano i nostri stati d’animo e conseguentemente i comportamenti, anche nell’ambito aziendale o lavorativo. È un modo di essere che aiuta a star bene con sé stessi, e a sviluppare un rapporto più efficace e costruttivo con gli altri.

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La mindfulness in azienda: perché usarla?

I motivi per cui si cerca di promuovere e coltivare il benessere in azienda attraverso le pratiche di mindfulness sono molteplici: migliorare le performance interne di dipendenti e collaboratori, migliorare le dinamiche interpersonali, ottimizzare e potenziare le risorse personali individuali. Le aziende possono utilizzare la meditazione per promuovere nell’individuo un cambiamento profondo nel modo di rapportarsi alla dimensione lavorativa: nel modo in cui le persone percepiscono il loro ruolo, la relazione con gli altri, il significato stesso di lavoro. La forza infatti dell’esperienza meditativa si manifesta quando riusciamo a spostarci progressivamente dall’attenzione centrata su di sé all’empatia verso l’altro. Lo “stato meditativo” non è mai una condizione passiva, in realtà in tale pratica l’individuo impara in modo attivo e intenzionale a fermarsi e ad aprire spazi nuovi nella propria vita, per verificare la validità di ciò che sta facendo e capire qual è la direzione più vantaggiosa.

Tra le aziende più importanti che hanno deciso di implementare percorsi e programmi basati sulla mindfulness per i manager e i collaboratori troviamo Apple (fornisce spazi dedicati ai dipendenti consentendo loro di avere 30 minuti al giorno per meditare in ufficio, fornendo corsi sulla mindfulness e yoga, in una sala allestita allo scopo), Nike (i dipendenti hanno accesso a sale relax, e possono prendere parte a corsi di meditazione e yoga, senza dover mai lasciare l’azienda), AOL Time Warner (la società ha aggiunto corsi di meditazione nella giornata di lavoro), Google (ha sviluppato un programma di corsi di mindfulness volto ad aiutare i dipendenti a imparare a respirare consapevolmente, ascoltare i colleghi e a migliorare la propria intelligenza emotiva), Yahoo! (i dipendenti possono usufruire di sale per praticare varie tecniche meditative per ridurre lo stress durante il lavoro o per interagire con altre persone che condividono i loro interessi), Procter & Gamble (l’azienda offre un’ampia gamma di programmi di salute e fitness che comprendono corsi di meditazione e spazi per il rilassamento all’interno degli spazi aziendali), Deutsche Bank (all’interno di questa multinazionale sono stati offerti corsi di meditazione e di rilassamento, in specifici spazi dedicati, allo scopo di ridurre lo stress dei dipendenti e di creare benefici mentali e operativi sul posto di lavoro).

L’utilizzo della Meditazione di Mindfulness in un contesto aziendale è volto a creare principalmente i seguenti effetti e benefici:

  • Aiuta a portare la nostra mente nel qui ed ora (Hic et nunc) ovvero a vivere il più possibile il momento presente, liberando la mente dalla continua tendenza a vagare nel passato o nel futuro.
  • Sviluppo di competenze quali intuizione, creatività, consapevolezza emotiva.
  • Forte riduzione e migliore capacità di gestione dello stress.
  • Maggiore propensione e potenziamento del lavoro in team.
  • Mente più libera e attiva per prendere decisioni e gestire i problemi.
  • Favorisce l’apertura al cambiamento e la flessibilità.
  • Miglioramento delle dinamiche relazionali all’interno dell’azienda e nelle interazioni con l’esterno favorendo l’attivazione del fattore cooperativo e la collaborazione nei rapporti interpersonali e di gruppo.
  • Affrontare gli impegni professionali con incremento di energia, determinazione e maggiore lucidità.
  • Miglioramento generale nelle prestazioni professionali.
  • Imparare a dedicare alla nostra mente le stesse cure che normalmente dedichiamo al nostro corpo.
  • Migliora la comunicazione interpersonale.
  • Sviluppare maggiore consapevolezza e quindi maggior sicurezza in sé stessi e fiducia verso le proprie potenzialità.
  • Migliora il clima umano all’interno delle organizzazioni.

La mindfulness a lavoro: come usarla?

Esistono corsi di vari livelli e durata, per soddisfare esigenze e raggiungere obiettivi di diverso tipo all’interno delle aziende. Vi sono ad esempio programmi formativi sulla mindfulness implementati nel contesto lavorativo con frequenza quotidiana o settimanale e corsi o ritiri formativi intensivi in formato residenziale della durata di solito di 3, 5 o 7 giorni, volti a rafforzare non solo l’efficienza e le capacità attentive, ma anche l’empatia, la comprensione e lo spirito cooperativo tra i colleghi. Altri interventi sono volti a creare degli appositi spazi di meditazione all’interno dell’azienda (le cosiddette “Quiet Room”, dove i dipendenti possono prendersi delle pause meditative e di relax in particolare nei momenti di maggiore stress).

Qualsiasi momento può essere buono per praticare la mindfulness, basta seguire questi step:

  • Portare attenzione sul proprio respiro, rimanendo consapevoli di ogni inspirazione ed espirazione;
  • Procedere lentamente e consapevolmente con il compito o attività che si sta svolgendo;
  • Coinvolgere pienamente i propri sensi nell’attività, assaporando tutte le sensazioni emergenti.

La mindfulness ha effetti positivi non solo sullo stress, ma anche sulla tensione, sul trattamento di malattia cardiaca, sui problemi del sonno e sull’alleviamento del dolore cronico.

06 Nov 2019

La Psicologia dell’Emergenza

La Psicologia dell’Emergenza

Con il termine emergenza, si indicano tutte quelle situazioni impreviste ed improvvise che possono minacciare l’integrità fisica e psichica dell’individuo.

La Psicologia dell’Emergenza è un settore della Psicologia nato in Italia nell’ottobre del 1997, quando il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi attiva, nello stesso anno, l’intera comunità degli Psicologi italiani a seguito del terremoto Umbria-Marche. Nata dalla Psichiatria d’Urgenza, la Psicologia dell’Emergenza si è progressivamente sviluppata fino a diventare una vera e propria disciplina con caratteristiche proprie.

La Psicologia dell’emergenza, si connota quindi come quell’ambito della Psicologia volta alla ricerca, alla pratica e all’applicazione delle conoscenze psicologiche nei contesti di emergenza, ossia tutte quelle situazioni fortemente stressanti, che mettono a repentaglio il benessere del singolo individuo o dell’intera comunità.

Gli eventi critici sono innumerevoli e possono coinvolgere un individuo, una collettività o un intero Stato. Essi possono essere rappresentati da calamità naturali (come terremoti), disastri tecnologici (come incidenti nucleari), sanitari (come epidemie), sociali (come attacchi terroristici) o gravi incidenti stradali o sul lavoro, o atti di violenza (stupri o abusi sui minori). Questi accadimenti dolorosi, possono minare l’integrità psico-fisica di ogni individuo che ne sia vittima e di chiunque gli stia accanto. La Psicologia dell’emergenza quindi, oltre ad occuparsi della persona o delle persone direttamente coinvolte negli eventi critici, si occupa anche dei loro familiari e/o amici, dei soccorritori e della comunità.

Chi è lo Psicologo dell’emergenza?

Lo Psicologo dell’emergenza è uno Psicologo, che ha conseguito regolarmente la Laurea in Psicologia magistrale, si è abilitato dall’Esame di stato all’esercizio della professione e si è iscritto all’Albo degli psicologi nella sezione A. Per avvalersi delle necessarie conoscenze e competenze indispensabili per agire efficacemente negli ambiti di emergenza, egli dovrà seguire un Corso di formazione specifico.

Cosa fa lo Psicologo dell’emergenza?

Nella Psicologia dell’Emergenza esistono tre tempi: prima, durante e dopo l’emergenza. In ogni tempo ci sono compiti specifici e differenti che lo Psicologo dell’Emergenza deve svolgere:

  1. PRIMA: Attività di prevenzione
    •  Previsione su aspettative, possibilità e rischi
    • Informazione e comunicazione dei rischi
    • Formazione e simulazione
  2. DURANTE:
    • Soccorso
    • Tutela fasce deboli
    • Ricongiungimenti familiari
    • Mediazione culturale
    • Gestione dinamiche campo e gruppi
    • Basic Therapeutic Actions
    • Tutela salute mentale e prevenzione traumatizzazioni
    • Promozione processi di resilienza
    • Supporto ai familiari in lutto traumatico o in attesa di persone scomparse,
    • Sostenere le reti familiari, i legami interpersonali, le risorse comunitarie
  3. DOPO:
    • Decompressione emotiva
    • Rielaborazione esperienze
    • Gestione del lutto traumatico
    • Riflessione e confronto tecnico e culturale

Lo Psicologo dell’Emergenza, utilizza strumenti specifici della Psicologia, quali osservazione, colloqui, strumenti psicodiagnostici (test, questionari, interviste).

Cosa non fa lo Psicologo dell’emergenza?

La psicotraumatologia è spesso erroneamente confusa con la Psicologia dell’Emergenza, in realtà essa potrebbe esserne considerato solo un aspetto. Lo Psicologo dell’Emergenza può essere anche, ma non necessariamente uno Psicoterapeuta.

Lo Psicologo dell’Emergenza è chiamato a svolgere il suo lavoro in ogni situazione di emergenza. Inoltre può operare in diversi contesti, sia pubblici che privati, quali: Associazioni del settore terziario, Protezione Civile, Dipartimenti di emergenze delle ASL, 118, Pronto Soccorso Ospedaliero, Forze dell’Ordine, come ricercatore in centri studi pubblici e privati o presso l’Università o come Docente formatore per attività di formazione psicosociale sui temi delle emergenze; come libero professionista, dipendente o volontario.

Prima di intervenire attivamente sul luogo in cui è avvenuto un evento tragico è bene che gli operatori (volontari del soccorso, Protezione Civile, Forze dell’Ordine, …) siano preparati alla situazione che dovranno affrontare. Fondamentale è la formazione per ricoprire questi ruoli che molto spesso lasciano la sensazione di sentirsi impreparati e preoccupati per quello che si dovrà affrontare.

06 Nov 2019

L’ Assessment

L’ Assessment

Per assessment si intende la valutazione globale della persona, il suo potenziale, le attitudini, le competenze, la coerenza e adeguatezza ad un profilo lavorativo, considerando anche le sue risorse e i suoi limiti. La parola assessment deriva dal latino “assidere”, tradotta dall’inglese significa appunto “valutare, stimare, giudicare”. L’ obiettivo di un assessment può essere quello di valutare il potenziale, le attitudini, le competenze, la coerenza e adeguatezza ad un profilo lavorativo.

In psicologia esistono diversi campi applicativi dove il termine assessment assume connotazioni che spaziano dal rapporto individuale (aspetti clinici, patologie) al sociale (aspetti occupazionali, selezione del personale).

Assessment in psicologia clinica

In psicologia clinica l’accento dato all’assessment è più spostato sul rapporto individuale clinico-paziente e costituisce un processo di valutazione, documentazione delle competenze e del potenziale, retto dalle particolari capacità dello psicologo di comprendere lo stato emotivo, il vissuto interiore della persona e di delineare così un profilo che comprenda aspetti profondi, caratteriali (di personalità), relazionali e sociali.

La prassi dell’assessment in psicologia clinica comporta due fasi:

  1. Misurazione: si effettuano una serie di test psicodiagnostici standardizzati per raccogliere informazioni necessarie alla seconda fase e per avere un riferimento di partenza con cui confrontare i dati successivamente ottenuti somministrando gli stessi test durante ed alla fine del percorso di cura (studi longitudinali).
  2. Ipotesi: i dati raccolti nella prima fase, assieme ad una impressione globale che lo psicoterapeuta si fa del paziente, consentono di formulare ipotesi riguardo: la presenza di evidenti relazioni tra i disturbi; l’eziopatogenesi; le probabilità di successo delle diverse strategie terapeutiche che si hanno a disposizione; le tecniche e gli strumenti più adeguati a sostenere il trattamento.

Assessment in psicologia del lavoro

L’assessment in campo sociale e delle risorse umane è tutt’oggi molto utilizzato da reclutatori e selezionatori del personale per valutare candidati o i dipendenti all’interno di un’azienda e creare piani di sviluppo e formazione.

In psicologia del lavoro spesso si utilizza la denominazione di assessment center (un termine che venne utilizzato per la selezione degli agenti segreti, nella Seconda Guerra Mondiale) per identificare una metodologia di valutazione del potenziale, all’interno di una prospettiva volta al reclutamento, all’orientamento e alla valutazione delle competenze.

In Psicologia del lavoro l’assessement può essere utilizzato come:

  1. verifica del grado di adeguatezza del ruolo nell’organigramma aziendale
  2. rilevazione e valutazione delle attitudini
  3. valutazione del potenziale
  4. analisi delle risorse disponibili per la verifica del possesso di determinate capacità
  5. individuazione dei bisogni formativi in modo mirato
  6. verifica del possesso delle capacità necessarie per ricoprire posizioni diverse
  7. processi di selezione interni/esterni
  8. processo di verifica dell’architettura organizzativa dell’impresa
  9. audit a seguito d’esigenze derivanti da ristrutturazioni, fusioni, acquisizioni, collocazione di personale ed esuberi

La somministrazione di adeguati test ed i relativi risultati crea le condizioni per costruire un vero progetto di crescita di tutta l’organizzazione. L’intervento è sviluppato nella logica dei gruppi di lavoro, facendo percorrere ai dipendenti un viaggio ideale partendo dalla definizione stessa dei valori ed identificando quelli che, secondo il gruppo, si esprimono in azienda. Viene somministrato alle figure individuate un test per rilevare correttamente le competenze personali, le attitudini e la relativa coerenza con i ruoli assegnati. Inoltre viene fatta un’analisi di clima aziendale per definire il contesto globale di relazione, la motivazione delle risorse, le aree di rischio potenziale, ed impostare la risoluzione dei conflitti interpersonali tra i vari reparti dell’azienda.

30 Ott 2019

L’empatia nei luoghi di lavoro

L’empatia nei luoghi di lavoro

Ti è mai capitato di arrivare in un luogo di lavoro e di cercare un sorriso, uno sguardo di complicità o qualcuno che ti aiutasse ad ambientarti in fretta? Spesso questa ricerca si trasforma solo in illusione. Ciò non significa che chi ci circonda sia antipatico o maleducato ma semplicemente siamo poco abituati ad ascoltare i bisogni dell’altro e a dedicarci alle relazioni interpersonali. In ogni contesto di lavoro, è fondamentale sviluppare un ascolto empatico, ovvero un ascolto consapevole e basato sul desiderio di creare un team solido, affinché si possa creare un’unione tra benessere personale e produttività. Quando viene a mancare l’empatia, è difficile lavorare bene. Chi non riesce a creare rapporti solidi con i colleghi non si sente parte integrante di una squadra. È un atteggiamento che non fa bene al dipendente che si sente sempre più demotivato, ma anche all’azienda che dovrebbe incrementare il benessere e la gratificazione del personale.

Ma cosa è l’empatia?

L’empatia è la capacità di “mettersi nei panni dell’altro” percependo, in questo modo, emozioni e pensieri. È un termine che deriva dal greco, en-pathos “sentire dentro”, e consiste nel riconoscere le emozioni degli altri come se fossero proprie, calandosi nella realtà altrui per comprenderne punti di vista, pensieri, sentimenti, emozioni e “pathos”. L’empatia è un’abilità sociale di fondamentale importanza e rappresenta uno degli strumenti di base di una comunicazione interpersonale efficace e gratificante.

Oltre a portare vantaggi al singolo, l’empatia porta interessanti profitti anche all’azienda, in quanto secondo fonti americane:

  • il 42% dei consumatori evita di acquistare prodotti o servizi da un’azienda che percepisce come poco empatica;
  • il 56% dei lavoratori rimarrebbe volentieri in un’azienda che dimostra attenzione ed empatia per i dipendenti:
  • il 40% dei lavoratori resterebbe volentieri qualche ora in più in ufficio, se a chiederglielo fosse un capo empatico e disponibile.

Consigli per migliorare l’empatia nei luoghi di lavoro

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  1. Impara cose nuove. Acquisendo nuove conoscenze (e competenze), ti metterai in gioco ed uscirai dalla tua comfort zone.
  2. Va’ oltre i convenevoli.Sforzati di intavolare conversazioni che vadano oltre il semplice “Ciao, come stai?” o  “Hai visto che bella giornata!”. Discutere e confrontarsi su temi robusti e profondi aiuta a cementare rapporti proficui al lavoro.
  3. Chiedi riscontro a chi ti conosce bene. Affidati ai suggerimenti di amici e parenti che ti conoscono bene e che possono aiutarti a diventare più empatico.
  4. Fai autocritica. Individua i tuoi punti deboli e cerca di combatterli perché possono compromettere seriamente il rapporto coi colleghi.
  5. Ascolta senza interrompere.E’ una manifestazione di rispetto e di considerazione che va a braccetto con l’empatia.
  6. Sorridi di più.Cerca di lasciare i pensieri negativi fuori dall’ufficio e sforzati di mostrare il tuo lato migliore alle persone che collaborano con te.
  7. Concedi i giusti riconoscimenti a chi se li merita. Manifestare ammirazione per il lavoro altrui è un gesto nobile che, prima o poi, verrà ricompensato.
  8. Chiama i tuoi colleghi per nome. Dà un senso di confidenza che dovrebbe contribuire a rendere più informali e distesi i rapporti.
  9. Chiedi sempre il parere degli altri. Confrontati e mantieni un atteggiamento di apertura nei confronti di chi ti sta accanto.
  10. Usa il linguaggio del corpo in maniera consapevole. Evita di eccedere con la gestualità e la mimica e rapportati sempre in maniera educata e controllata.
  11. Non ti distrarre durante le conversazioni. L’empatia passa anche (e soprattutto) dall’attenzione che destini a chi sta interagendo con te.
  12. Chiedi ai tuoi colleghi di spiegare bene quello che pensano. Dai a tutti l’opportunità di esprimersi liberamente, soprattutto se ricopri un ruolo di responsabilità al lavoro.
  13. Rispetta il punto di vista degli altri. Non si tratta di mettere in discussione tutto quello in cui credi, ma di mostrarti rispettoso delle visioni degli altri. Anche e soprattutto quando non collimano con le tue.
  14. Incoraggia i colleghi e sii di supporto. Se ti mostrerai empatico e comprensivo di fronte ad un errore di un tuo collega, anche tu riceverai sostegno nei momenti di difficoltà.
  15. Mostrati paziente e calmo. Solo chi dimostra di essere solidale, disponibile, calmo e paziente riuscirà a conquistarsi la fiducia dei colleghi.
  16. Apriti agli altri e non avere paura di mostrare la tua vulnerabilità. Più ti mostrerai autentico e trasparente e meglio sarà.
  17. Sii flessibile e aperto ai cambiamenti. Inutile arrabbiarsi perché un progetto è sfumato o ha preso un’altra direzione. Le cose possono cambiare e sfuggirti di mano in ogni momento.
  18. Fai più domande. Empatia vuol dire mettersi in connessione con gli altri. Coltiva la tua curiosità ed esplora sempre terreni nuovi: crescerai al lavoro e nella vita privata.

E’ scientificamente provato che l’atteggiamento empatico attiva aree celebrali legate alle emozioni positive, tralasciando quelle negative. Tutto questo influenza l’esecuzione del lavoro, soprattutto nei periodi di forte stress. Inoltre, un ambiente lavorativo fatto di fiducia, serenità e connessione emotiva, assicura un buono stato di salute per i dipendenti.

Provare per credere.

 

 

30 Ott 2019

L’importanza di esprimere le proprie emozioni: la narrazione

L’importanza di esprimere le proprie emozioni: la narrazione

Chiunque abbia mai affidato un preoccupante segreto a un diario, o abbia pianto con un amico, conosce la sensazione di sollievo che l’espressione di emozioni dolorose può portare. Gli individui cercano sempre di comprendere i grandi sconvolgimenti nelle loro vite. Molte sono le ricerche che affermano che scrivere sulla propria vita, sui pensieri e sulle emozioni provate aiuta a dare un senso maggiore alle proprie esperienze. La narrazione aiuta a comprendere e spiegare l’esperienza umana. Raccontare le proprie storie ha una funzione di empowerment, poiché raccontare porta a scoprire significati profondi della nostra vita, a riappropriarsi dell’esperienza vissuta, a ricostruire la propria esperienza, resa quasi irriconoscibile dal rincorrersi delle azioni e situazioni.

Il valore delle narrazioni autobiografiche è riconosciuto dagli psicologi in quanto il “raccontarsi” diventa un vero e proprio processo terapeutico: con la narrazione il paziente può uscire dal ruolo di protagonista assumendo la posizione di spettatore dei fatti, in questo modo avviene un distacco emotivo che facilita una visione più oggettiva degli eventi.

La narrazione è diventata, ormai, uno strumento straordinario per il benessere:

  • Perché consente di affrontare e rielaborare esperienze e vissuti importanti e vitali della vita del soggetto;
  • Perché favorisce la creazione di mondi possibili (e se…) e quindi individuare e immaginare soluzioni creative e differenti da quelle esperimentate nella realtà;
  • Perché una narrazione è di per sé fonte di esperienze emotivamente positive, piacevoli e motivanti;
  • Perché è una esperienza che coinvolge mente e corpo

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La narrazione può essere utilizzata anche da coloro che hanno vissuto esperienze traumatiche. Sappiamo come il trauma generi una frattura nell’esperienza vissuta provocando spesso dei fenomeni di rimozione o di sospensione del pensiero conseguenti all’innalzamento delle difese della psiche. Chi ha vissuto un’esperienza traumatica, oltre a sperimentare una profonda sofferenza emotiva, può avere conseguenze sulla propria identità, coscienza e memoria, influendo in modo profondo sul significato e sul valore della vita e delle relazioni con gli altri. Se una persona si impegna a inglobare il trauma nella sua vita, ne derivano una serie di cambiamenti che includono la rivalutazione positiva dell’esperienza traumatica, la ricerca di benefici, la crescita post-traumatica (crescita personale), che comporta un aumento del significato percepito, della forza personale e un miglioramento delle relazioni.

Questo strumento viene utilizzato anche nei contesti di cura, perché la sofferenza richiede di essere inserita in racconti reali per acquisire un senso preciso, diventare condivisibile e trasformarsi in risorsa. Molte ricerche dimostrano che la narrazione in contesti di cura aiuta a raggiungere alti livelli di benessere sia per il paziente che per coloro che con esso si relazionano. In questo modo, la narrazione diventa una potente forma di espressione della sofferenza e delle esperienze legate ad essa. Quando agli individui viene chiesto di scrivere o parlare di esperienze che li turbano personalmente, si riscontrano miglioramenti significativi nella salute fisica. Al contrario, il non confidare le proprie esperienze significative è associato ad un aumento di tassi di malattia, ruminazioni e altre difficoltà.

Comunicare idee e pensieri ad altri include due funzioni: la prima è aiutare la persona a raggiungere una certa comprensione cognitiva dell’evento; la seconda assume più un carattere sociale, in quanto quando parliamo agli altri delle nostre esperienze, richiamiamo la loro attenzione sul nostro stato psicologico e quindi ci permette di restare più legati a loro. Al contrario, il non parlarne porta ad una condizione di distanza e isolamento. Parlare di un’esperienza emozionale può aiutarci a integrarci maggiormente nella nostra rete sociale.

Possiamo concludere quindi che creare una storia è essenziale per l’adattamento, l’integrazione del trauma e lo sviluppo del benessere.

23 Ott 2019

Perdita del lavoro: il modello dell’elaborazione del lutto

Perdita del lavoro: il modello dell’elaborazione del lutto

Il lavoro è un’attività complessa: esso costituisce lo strumento principale per ottenere le risorse per vivere ed è un valore molto importante nella nostra cultura. Il significato che un individuo attribuisce al lavoro può dipendere da diversi fattori che interagiscono tra loro. Ma per la maggior parte dei casi solo una minoranza lo percepisce unicamente come forma di sostentamento. Il lavoro è dovere, diritto e anche bisogno, un bisogno di vivere un senso di interezza e sicurezza, di capire e comunicare chi siamo. Il suo significato è sociale, economico e psicologico.

Per tutti questi motivi, la perdita del lavoro è percepita dall’individuo come una ferita, un fallimento. Di fronte al trauma della perdita del lavoro l’individuo oltre a sperimentare sentimenti di frustrazione, può mettere in atto risposte di tipo cognitivo, comportamentale, emotivo e reazioni inconsce. La perdita di lavoro, improvvisa o no, genera in ogni persona un insieme di sentimenti di smarrimento misti a rabbia e sconforto, che sono difficili da affrontare nell’immediato e che se non ben gestiti, sul lungo termine, possono portare a blocchi e problematiche psicologiche anche gravi.

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La perdita di lavoro è stata associata al concetto di elaborazione del lutto. È necessario attraversare delle fasi di elaborazione per comprendere e agire nel migliore dei modi in situazioni di questa tipologia. Uno dei più importanti modelli che descrive le fasi del processo di elaborazione del lutto è stato realizzato dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kübler-Ross nel 1969. Gli americani Finley e Lee hanno condotto una serie di ricerche sulla forma di lutto rappresentata dalla perdita del lavoro e, nel 1981, sono giunti ad ampliare il modello precedente aggiungendo due fasi: “shock” e “sollievo”. Pertanto, le fasi che compongono il processo di elaborazione della perdita professionale sono complessivamente 7:

  1. Shock: il soggetto sperimenta un trauma fisico e mentale e immobilizzazione. Il panico produce confusione e incapacità di pensare;
  2. Negazione o incredulità: è l’impossibilità di pensare che ciò che è successo sia vero, aggrappandosi alla speranza che sia un errore. La negazione tampona notizie scioccanti e inaspettate, permettendo alla persona di mobilizzare altre difese, meno radicali;
  3. Sollievo: soprattutto per i dirigenti, l’informazione viene fornita con anticipo rispetto all’effettivo licenziamento, in altri casi la notizia non viene diffusa ma iniziano a circolare delle voci in azienda. Ciò porta il soggetto a vivere nella condizione di sentirsi prossimo al licenziamento e quando questo si verifica la persona prova una sorta di sollievo;
  4. Rabbia: che è diretta sia all’esterno che all’interno. Il soggetto è arrabbiato perché si sente rifiutato, abusato e trattato ingiustamente. Questa rabbia è alimentata da sentimenti di frustrazione e colpa per non aver agito prima che la situazione sfuggisse di mano;
  5. Contrattazione: è il tentativo di rovesciare il processo di conclusione. La contrattazione è motivata da sentimenti di incredulità, vergogna per i propri sentimenti di sollievo e paura per l’incapacità di evitare la lettera di licenziamento. Questa fase è breve poiché spesso l’azienda ha già esposto la possibilità di supportare la persona con un intervento di outplacement;
  6. Depressione: una volta compreso che i tentativi di rinegoziazione sono inutili, la persona si deprime e tende ad allontanarsi dagli altri. Questa fase è caratterizzata da un’esperienza non familiare di non sentirsi in grado di prendere decisioni. Il sonno diventa interrotto e irregolare, e la stanchezza fisica durante il giorno è aggravata da sentimenti ansiogeni;
  7. Accettazione: con il tempo i soggetti raggiungono uno stato di pace: non sono depresse, né arrabbiate.

È importante arrivare alla fase di accettazione affinché le persone possano impegnarsi in modo giusto alla ricerca di un lavoro. Il compito dei consulenti è individuare la fase in cui si trovano i soggetti, e aiutarli a raggiungere un atteggiamento diverso verso la propria condizione rendendola più accettabile.

Sin da subito bisogna rispondere in prima persona alla costruzione del nuovo progetto professionale e non farsi trascinare dagli eventi o dalle emozioni negative. È importante ricordarsi che siamo esseri abitudinari e il tempo è una risorsa preziosa per cui, se si vuole rientrare velocemente nel mercato del lavoro, è meglio darsi da fare subito e abituarsi a non disperdere il tempo disponibile e ad impiegare almeno metà della giornata a cercare lavoro o a costruire il proprio progetto professionale.

Ricorda sempre: il lavoro è un diritto dell’uomo per cui tutti possono farcela perché ognuno ha le risorse per soddisfare questo bisogno.

17 Set 2019

Creatività e pensiero divergente

Creatività e pensiero divergente

Il pensiero divergente è alla base del pensiero creativo, inteso come capacità di trovare soluzioni alternative a un problema.

È difficile definire esattamente cosa sia la creatività e come nasce l’ispirazione. Ilpensiero divergente cerca di spiegare come applichiamo la creatività e come possiamo imparare attraverso di esso.

Che cos’è il pensiero divergente

SI definisce pensiero divergente quel pensiero che permette di creare alternative possibili a una questione, che non preveda una sola sola soluzione possibile.

Ossia va al di là di quella che è la situazione di partenza: è un pensiero che esplora nuove direzioni e possibilità, portando così alla produzione di nuove idee. In questo momento il pensiero divergente si avvicina alla creatività, stimolando  l’ispirazione e nuove possibilità.

Diverse forme di pensiero e ragionamento

Esistono diverse forme di ragionamento che ci permettono di arrivare a una soluzione di un quesito o un problema: per esempio c’è la connessione per analogie che cerca di utilizzare elementi appresi nel passato e applicare a una situazione non nota, ma analoga, appunto, nel presente.

Oppure vi è il pensiero induttivo, che cerca di analizzare le esperienze passate per trovare una regola generale che possa valere anche nel caso presente. La strategia opposta invece viene chiamata pensiero deduttivo, dove da una regola generale che fa da riferimento, cerchiamo di estrapolare indicazioni particolari che soddisfino le nostre esigenze nel presente.

A questi tipi di ragionamento si affiancano il pensiero convergente e il pensiero divergente. Mentre il pensiero divergente si caratterizza per apportare una soluzione nuova e creativa a un problema, il pensiero convergente si caratterizza per essere applicato a situazioni che permettono un’unica risposta plausibile e corretta, che rimane dentro i limiti imposti dalla situazione rispettando regole già definite e codificate.

Secondo la definizione del pensiero divergente e convergente, postulata da Guilford, nel 1967, questi tipi di pensiero potrebbero essere collegati all’apprendimento e in particolare il pensiero divergente sarebbe espressione di un pensiero artistico e creativo, mentre il pensiero convergente sarebbeespressione delle materie scientifiche.

Processi psicologici ed esempi

Il pensiero divergente è un pensiero al quale non siamo stati educati, e che in qualche modo va sviluppato e riscoperto, anche se è comunque una forma di ragionamento di cui tutti siamo capaci.

Come abbiamo visto, il metodo educativo utilizzato finora a livello scolastico e di apprendimento si è basato sul pensiero convergente, il ché è ottimo, ma il pensiero divergente è un pensiero complementare che va introdotto nell’insegnamento, perché ci permette di creare punti di vista e idee nuove, sviluppando così anche il nostro spirito critico.

Alcuni esempi di domande che incentivano il pensiero divergente, potrebbero essere:

  • – Se disponessi di un mattone e una penna, cose ne faresti? O con una spazzolino da denti e un bastone cosa inventeresti?

IL concetto è uscire dagli schemi del ragionamento logico, che ci dicono per esempio che la penna e il mattone servono solo a determinate funzioni, e andare al di là di queste definizioni, per scoprire nuove potenzialità.

Ci sono persone che riescono a rispondere con un’infinita di possibilità a queste domande, con idee ingegnose e originali, e che dispongono di un alto potenziale di “pensiero laterale”, secondo la definizione che ne dava Edward Bono (ossia la risoluzione di problemi attraverso l’osservazione da diverse angolazioni). Per attivare questo tipo di pensiero, possiamo fare riferimento ad alcuni processi psicologi. Vediamoli più da vicino!

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Creatività, intelligenza emotiva e benessere

Secondo alcuni studi posteriori agli anni ’90 si sottolinearono due relazioni importanti tra il pensiero divergente e l’intelligenze emotiva da un lato e il benessere dall’altro.

In particolare gli studi di Goleman sull’intelligenza emotiva e il pensiero divergente, in primis, e altri approfondimenti in seguito, hanno messo in risalto l’imporatnza di sviluppare questo tipo di intelligenza unita a un pensiero più critico, per creare dosi maggiori di autoconsapevolezza e empatia, attività sociali e motivazioni, perché secondo Goleman, le emozioni sono alla base del comportamento umano.

Per quantro riguarda invece il benessere e il pensiero divergente, uno studio sempre degli ultimi anni, sottolinea come tale pensiero nasca più facilmente in condizioni di benessere fisico e mentale, per esempio quando siamo riposati o non soffriamo pressioni, ansia e stress.

Al giorno d’oggi, con lo stress e i doveri quotidiani ci chiamano all’ordine, potrebbe essere difficile essere aperti a nuove esperienze e punti di vista. Ma è qualcosa che ci dovremmo ricordare: vivere bene è importante per pensare meglio!

Albert Heinstein asseriva che “la creatività è l’intelligenza che si diverte”, ed è una frase che rappresenta tutto quello che abbiamo visto finora.

Nella nostra vita ci troviamo di fronte a tante situazioni e possibilità ed è importante che impariamo a risolvere e ad affrontarle attarverso tipi di ragionamento e pensiero complementari. A volte l’esperienza può darci risposte a domande, che sennò non sapremmo assolutamente come risolvere, e grazie al pensiero convergente potremmo davvero arrivare a scoprire nuovi mondi, con un metodo logico e consequenziale. Ma altre volte è necessariocambiare il punto di vista per risolvere una situazione o per risolvere un problema sconosciuto: in questo senso il pensiero divergente ci può venire in soccorso per tirarci fuori da un empasse logico.

I sistemi di apprendimento dovrebbero riconsiderare il loro approccio psicologico allo studio e all’educazione, per dare maggiore spazio a questo pensiero critico e creativo. Forse era proprio questo uno dei significati del famoso lemma di Steve Jobs “Stay Hungry, Stay Foolish”, ossia “siate affamati, siate folli”.

Imparare a ragionare fuori dagli schemi e dalla logica sequenziale, cambiare il punto di vista e trovare idee nuove, può riuscire molto spesso a sbloccarvi da situazioni e problemi in cui vi sentivate stagnanti.

17 Set 2019

LA DIFFERENZA TRA PSICOLOGO E PSICOTERAPEUTA

LA DIFFERENZA TRA PSICOLOGO E PSICOTERAPEUTA

Sia lo psicologo sia lo psicoterapeuta sono figure professionali orientate a diminuire il disagio psichico e promuovere il benessere dell’individuo.

Le differenze più esplicite riguardano la loro formazione, più nello specifico il loro percorso di studi.

Lo psicologo è il laureato in psicologia dopo aver svolto un anno di tirocinio post laurea e aver sostenuto e passato l’esame di stato. Per potersi definire psicologo bisogna essere iscritti all’albo degli psicologi, senza questa iscrizione si è soltanto “dottore in psicologia”.

Lo psicoterapeuta ha affrontato un percorso di studi più lungo per conseguire il suo titolo. Per prima cosa va chiarito che lo psicoterapeuta può essere laureato in psicologia o in medicina. Una volta sostenuto l’esame di stato e iscritto all’albo degli psicologi o dei medici è possibile iscriversi a una scuola di psicoterapia. Queste scuole durano almeno 4 anni e devono essere riconosciute dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (MIUR). Durante questo percorso è obbligatorio svolgere 400 ore di tirocinio presso strutture convenzionate con la scuola di psicoterapia frequentata.

COSA PUÒ FARE UNO PSICOLOGO?

Lo psicologo è abilitato a svolgere attività di prevenzionediagnosicura e riabilitazione oltre che attività di ricerca e didattica nel suo ambito. Le sue attività sono rivolte alla prevenzione, al trattamento del disagio e alla promozione del benessere. Con l’allungamento della vita media, il ruolo dello psicologo è sempre più rivolto a promuovere il bene personale, piuttosto che mirato ad affrontare i problemi.

Nella sua pratica clinica può utilizzare test, essendo abilitato all’utilizzo degli strumenti propri della professione di psicologo. I laureati non iscritti all’albo degli psicologi, non possono somministrare test senza essere supervisionati da uno psicologo.

COSA PUÒ FARE UNO PSICOTERAPEUTA?

Lo psicoterapeuta può fare psicoterapia. La psicoterapia va più in profondità rispetto alla consulenza psicologia effettuata dallo psicologo. L’azione più intensa della psicoterapia presuppone una maggiore possibilità di intervento e di influenzare il paziente, per questo motivo la psicoterapia nelle mani di uno psicologo può essere molto rischiosa.

Per molti la questione non è la profondità dell’intervento a definire la differenza tra psicologo e psicoterapeuta, bensì l’esperienza dello psicoterapeuta nei confronti della psicopatologia.

In generale la promozione del benessere può essere agilmente svolta da uno psicologo, il trattamento di una psicopatologia è meglio venga affidato ad uno psicoterapeuta.

Lo psicologo psicoterapeuta non può prescrivere farmaci (per quello serve essere medico o psichiatra), per questo motivo le terapie per quelle patologie dove è indicato l’uso di farmaci è consigliabile l’intervento integrato di psichiatra (medico che può prescrivere farmaci) e psicoterapeuta.

 

 

17 Set 2019

L’importanza delle relazioni amicali nella crescita

L’importanza delle relazioni amicali nella crescita

Le relazioni amicali hanno un’importanza fondamentale nella crescita di bambini ed adolescenti e finanche di adulti. Esse al pari della famiglia contribuiscono enormemente all’adattamento psicosociale dei bambini poiché, grazie alla mediazione, favoriscono una relazione positiva dei bambini con l’ambiente permettendo loro di sviluppare competenze e strategie.

Il senso di sicurezza, l’autostima, il potenziamento delle strategie sono solo alcune delle funzioni fondamentali di un individuo che vengono favorite da una soddisfacente capacità di costruire e mantenere rapporti amicali nella vita. Anche affrontare i cambiamenti ed i passaggi attraverso le varie età è un processo fortemente mediato (spesso, ma non sempre) positivamente dai rapporti amicali. Ecco perché non è pensabile uno sviluppo socio-relazionale come componente a sé ma legata ad altri aspetti come la dimensione corporea, anch’essa fortemente mediata dai rapporti amicali, soprattutto nella fase adolescenziale.

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La dimensione socio-relazionale che si verifica e si rileva nei rapporti amicali influenza fortemente l’adattamento psicosociale come già detto ma anche il rendimento scolastico di bambini ed adolescenti. Nelle relazioni amicali esistono ovviamente delle differenze legate soprattutto al sesso: nei maschi alla propria individualità ed una visione non sempre equilibrata del valore attribuito a se stessi ed all’altro. Ciò avviene soprattutto nei bambini delle scuole elementari dove manca ancora uno sviluppo del sé ben definito che al di là del distanziamento dall’altro non permette ancora di attribuire ed auto attribuirsi valori sociali E di autostima reali. Essi a differenza della controparte femminile sono portati maggiormente a differenziarsi, si impegnano a costruire il loro status, sempre portati alla selettività individuale ed alla competizione.

Per le bambine esiste una predilezione per la ricerca dell’intimità e della vicinanza con l’altro. Si nota anche una differenza rispetto al clima emotivo che bambini e bambine mettono in atto nell’amicizia; le bambine sono più portate a favorire il benessere di entrambi o di tutti i componenti del legame amicale mentre tra i maschi c’è una maggiore neutralità a livello emotivo. Forse perché le bambine sono più orientate verso gli aspetti psicologici della relazione; a differenza dei bambini che preferiscono una compagnia basata sulla condivisione di attività e quindi poco interessati al versante emozionale del rapporto.
Inoltre man mano che l’amicizia si intensifica e il tempo passato insieme aumenta si passa da una differenziazione molto forte e marcata tra sé e l’altro ad una sempre maggiore uguaglianza con il proprio amico. Pertanto una condivisione continuativa di attività e momenti potrebbe portare ad ulteriori somiglianze tra i fanciulli.