08 Gen 2020

CHE COS’ È IL BODY-SHAMING?

CHE COS’ È IL BODY-SHAMING?

Non sempre il web viene usato per scopi nobili o costruttivi. Questo avviene ad esempio quando si pone in essere una forma di bullismo virtuale detta body shaming. Parliamo di una pratica scorretta di derisione e presa in giro per l’aspetto fisico delle persone. Si tratta letteralmente di giudicare le forme del corpo delle persone, in particolare attraverso il web e i social network.

Il termine deriva dall’inglese shame e come sostantivo vuol dire vergogna, mentre come verbo significa generare vergogna. In italiano possiamo parlare del fenomeno attraverso cui far vergognare qualcuno per il suo corpo.

Ad essere colpite sono le persone con fisici non perfetti, che si sentono additati per non essere su misura per la società in cui vivono. Il body shaming è la pratica denigratoria verso corpi tatuati, verso corpi troppo magri, verso chi ha malattie della pelle, o chi soffre di cellulite. Senza contare l’orientamento sessuale. Insomma la pratica dell’umiliazione non risparmia nessuno.

Le donne in particolare sono colpite da questo fenomeno inaccettabile ed in netta minoranza anche gli uomini.

  • Si vede la cellulite

  • Ma come si veste?

  • È troppo magra

  • È un po’ bruttina 

Questi sono solo una minima parte dei commenti che ogni giorno molte ragazze ricevono e sono costrette a leggere sotto alcune foto. Molti pensano che non arrechino alcun danno, invece anch’essi contribuiscono ad enfatizzare sempre di più il fenomeno del Body Shaming.

EFFETTI SULLE VITTIME DEL BODY SHAMING

I principali effetti del Body Shaming sulle vittime sono: il condizionamento dell’autostima, che provoca una perdita di certezze, sicurezze personali; un aumento degli stati d’ ansia e in casi estremi il rischio che diventi un’ ossessione. Un altro effetto è lo scoraggiamento, la perdita di volontà nel raggiungere un obiettivo, che può essere il mantenimento di una dieta equilibrata per tornare in forma. Le più sensibili a questo argomento sono le adolescenti dai 18 ai 21. Le ragazze più giovani soffrono particolarmente i difetti del proprio corpo, soprattutto se evidenziati dai propri coetanei.

COMBATTERE IL BODY SHAMING

Uno dei problemi più comuni della società di oggi è il continuo paragone con altre persone. Ci confrontiamo in continuazione con persone che si vedono solo ed esclusivamente sui social, senza conoscerle, diventando ancora più cattivi, dando giudizi solo per come si appare in foto. Sorge spontaneo domandarsi: si può sradicare questa brutta abitudine? Si può dire basta al body shaming? Parliamo di un modo di essere così ben saldo nella cultura occidentale che appare quasi un habitué comportamentale normale, quando normale non è. Trattandosi di una pratica virtuale, è proprio dai social che partono numerose campagne delle star in difesa delle vittime di bullismo. Ecco 5 consigli per contrastare il fenomeno ”Body Shaming”:

  1. Ridimensionare il valore del social. La vita reale e’ fatta di relazioni vere e tangibili e tu sei molto piu’ di cio’ che dice la tua bilancia.

  2. Svolgere attività per far pace con il tuo corpo. Nuota, cammina, scegli attivita’ che aumentino la consapevolezza del tuo corpo e della sua utilità.

  3. Considerare l’effetto dell’umore sulla percezione del tuo corpo.

  1. La forma fisica indica la salute non il valore personale. Un corpo sano è un corpo che si alimenta in maniera corretta, che fa attività fisica in quantità adeguate e che si prende cura di sé. Un eccesso o una deprivazione di cibo, inadatta al proprio stile di vita, alla propria età e alla propria altezza rappresenta una minaccia per il tuo benessere e non ha nulla a che fare con il tuo valore personale.

  2. Riconoscere le difficoltà è il primo passo per affrontarle. Se ti senti a disagio con il tuo corpo e questo occupa molto spazio nei tuoi pensieri, limitando la tua libertà, ricordati che ci sono dei professionisti del settore che possono aiutarti a ritrovare un rapporto sano col tuo corpo.

La perfezione a livello fisico non esiste, la vera bellezza sta nell’accettarsi, nel fare delle proprie debolezze un vero e proprio punto di forza.

18 Dic 2019

LA SINDROME DEL NIDO VUOTO

LA SINDROME DEL NIDO VUOTO

Secondo le regole del ciclo della vita, è normale andare via di casa una volta raggiunta una certa età. I figli crescono e, prima o poi, prendono la decisione di intraprendere una nuova strada, in totale autonomia. Nonostante sia un processo che fa parte della vita, il fatto di abbandonare il tetto paterno e materno talvolta può causare nei genitori quella che è conosciuta come “sindrome del nido vuoto”. La sindrome del nido vuoto è un’espressione coniata da psicologi e sociologi americani negli anni ’70 che indica quello stato di tristezza e abbandono che molti genitori, soprattutto la madre, soffrono nel momento in cui i figli vanno via di casa imponendo una decisiva modificazione del nucleo familiare e dell’assetto generazionale. La gioia dell’essere testimoni della realizzazione dell’indipendenza dei propri figli non esclude, infatti, vissuti di perdita e di abbandono venendo a modificarsi quell’assetto che fino ad allora consentiva quel ruolo di accudimento genitoriale su cui tanta parte dell’identità dei genitori si fonda. Questo momento, come molti altri che si producono nel ciclo della vita familiare, potrebbe produrre una crisi nell’equilibrio familiare, visto che le attività quotidiane non verranno più condivise nello stesso modo. Per questo motivo, la famiglia dovrà riorganizzarsi e trovare una nuova stabilità dopo il cambiamento. Non dimenticate che per riuscire a mantenere una relazione bisogna continuare ad alimentarla.

QUANDO LA SINDROME DEL NIDO VUOTO IDENTIFICA STATI DEPRESSIVI CHE VANNO OLTRE LA BENEVOLA NOSTALGIA?

La sindrome del nido vuoto si può dunque definire come linsieme di pensieri e sentimenti negativi e nostalgici provati dai genitori quando i figli se ne vanno da casa; sentimenti che possono comprendere tristezza, la sensazione di incertezza o la perdita del senso della vita. I genitori si ritrovano d’un tratto soli, dopo essersi presi cura dei propri figli per un lungo periodo di tempo. Tuttavia, è normale che questi sentimenti si presentino per un periodo di tempo passeggero. Il problema insorge quando queste sensazioni si protraggono e si solidificano nel tempo, insieme all’incapacità di adattarsi alla nuova situazione familiare. Non è un passaggio semplice perché non si tratta semplicisticamente di “cambiare abitudini”, ma è necessario modificare un assetto identitario – quello di genitore – che non può più fondarsi sull’accudimento e la cura. Per prevenire o smorzare i possibili sintomi, è bene cercare di prepararsi gradualmente, dando sempre più autonomia ai figli, evitando il controllo eccessivo. Bisogna essere presenti, ma senza che si noti, lasciando che affrontino la vita da soli. Inoltre, è importante accettare la situazione, e costruire un nuovo concetto di vita, considerando quest’ultima qualcosa di dinamico che attraversa diverse fasi, così come periodi di crisi. Il fatto che i figli se ne vadano è un processo naturale. La loro partenza per costruirsi una nuova vita rappresenta quindi un nuovo episodio della nostra vita, che all’inizio ci porterà a sentire vuoti e soli, ma che ci farà crescere e andare avanti, e che costituirà un buon momento per riempire la vita di nuove aspettative per il futuro.

Oggi, che i figli vanno via di casa spesso ben oltre la soglia dei trent’anni, questo permette ai genitori di convivere con un figlio ormai pienamente adulto e questo può facilitare la presa di coscienza che “i tempi sono cambiati” e rendere stretta e scomoda la convivenza fra genitori e figli non solo a questi ultimi, ma anche per i genitori che sono costretti a venire a patti con le esigenze di un figlio adulto. D’altro canto la sindrome del nido vuoto può accentuarsi se i figli vanno via di casa con ritardo qualora questo coincida per i genitori con l’inizio della terza età, l’accudimento dei propri genitori molto anziani e tutta una serie di ulteriori passaggi legati al momento del ciclo vitale che possono rendere più faticoso l’adattamento alla nuova situazione.

18 Dic 2019

La retribuzione emotiva in azienda

La retribuzione emotiva in azienda

L’attuale contesto lavorativo risulta essere molto flessibile ed è per questo che il lavoratore, oggi, ha come obiettivo quello di ricercare e mantenere il proprio impiego. È in questo clima particolare, che il lavoratore diventa l’unico responsabile della propria carriera, investendo, quindi, sui vari cambiamenti (transizioni geografiche e di mansioni), che lo porterebbero ad abbandonare il contesto organizzativo per cui lavora.
Uno dei principali obiettivi delle aziende, dunque, è quello di non perdere i suoi “talenti”. Nei contesti aziendali, infatti, sta emergendo una nuova concezione di talenti, che mira a porre l’attenzione sul lavoratore in quanto persona e non più come risorsa produttiva, generando ciò che è stata definita retribuzione emotiva. Lo stipendio emotivo offre diversi benefici. Il principale è quello di motivare i dipendenti, ma permette anche, di “trattenere” i lavoratori talentuosi in azienda.  Il professore di Neuroscienza e Leadership strategica Steven Poelmans afferma che “lo stipendio emotivo è l’insieme di retribuzione non monetaria che il lavoratore riceve dall’impresa per cui lavora e che integra il normale stipendio con formule creative, che si adattano alle necessità dei lavoratori di oggi”.

Con la retribuzione emotiva si va oltre quella che è una mera ricompensa economica, garantendo al lavoratore:

  1. Un ambiente di lavoro accogliente e stimolante;
  2. Un contesto in cui si investa in formazione e acquisizione delle competenze tecniche e trasversali;
  3. Un luogo dove poter coltivare relazioni tra pari e tra colleghi di status differente;
  4. Orari compatibili con la vita privata;
  5. Sviluppare il proprio talento.

Tipologie di stipendio emotivo all’interno di un’azienda

 Le tipologie di stipendio emotivo che vengono considerate basilari per il benessere dei dipendenti e per il buon funzionamento dell’organizzazione sono:

  • Un buon ambiente di lavoro: è fondamentale affinché i lavoratori si sentano a proprio agio e affinché il lavoro di squadra funzioni. Avere in azienda la presenza di psicologi aziendali potrebbe aiutare a risolvere e a gestire i vari problemi.
  • Sviluppo personale e professionale: offrire formazione ai dipendenti in modo che possano continuare ad acquisire conoscenze e garantire competenze è fondamentale.
  • Compatibilità con la vita privata: offrire giorni liberi per fare visite mediche o per presiedere a eventi personali, così come orari di lavoro flessibili, la possibilità di lavorare da casa una volta a settimana o di avere giorni liberi per sbrigare le proprie faccende sono alcune idee che funzionano bene.
  • Avere voce in capitolo nelle decisioni aziendali: poter contare sull’opinione dei dipendenti per prendere decisioni è importante. Sono una parte fondamentale dell’impresa. Senza di loro, nulla funziona. Per questo motivo, dare loro voce in capitolo, ascoltarli e dimostrare loro che sono importanti rappresenta un tipo di stipendio emotivo molto importante.

Ogni lavoratore ha bisogno di un certo stipendio emotivo, non solo per sentirsi apprezzato, ma anche per continuare a crescere, a svilupparsi e a dare il meglio di sé all’azienda. Questo automaticamente, si tradurrà in una serie di successi.

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“Il lavoro più produttivo è quello prodotto da un uomo felice.”  (Victor Pauchet)

11 Dic 2019

IL BENESSERE ORGANIZZATIVO COME ELEMENTO MULTIDIMENSIONALE

IL BENESSERE ORGANIZZATIVO COME ELEMENTO MULTIDIMENSIONALE

Con l’espressione benessere organizzativo (wellness) si intende la capacità di un’organizzazione di promuovere e mantenere il più alto grado di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori in ogni tipo di occupazione. Il benessere organizzativo è il primo elemento che influenza efficacia, efficienza, produttività e sviluppo di una organizzazione. Il concetto di benessere organizzativo si riferisce, quindi, al modo in cui le persone vivono la relazione con l’organizzazione in cui lavorano: tanto più una persona sente di appartenere all’organizzazione – perché ne condivide i valori, le pratiche, i linguaggi – tanto più trova motivazione e significato nel suo lavoro. Fondamentale è l’impegno da parte non solo dei singoli lavoratori, ma soprattutto dell’organizzazione aziendale di prevenire tali disagi e contrasti. Dare una definizione precisa di benessere lavorativo non è così semplice, esso risulta essere combinazione di più elementi al fine di conseguire un comune obiettivo di crescita e produttività.

I fattori che contribuiscono a minare la condizione di benessere negli ambienti e luoghi di lavoro sono principalmente la mancanza di organizzazione e programmazione del lavoro, la fatica, ritmi veloci, l’incertezza relativa al ruolo da svolgere, la mancanza di controllo del proprio lavoro, le richieste superiori alle proprie capacità, la cattiva strutturazione e vivibilità dei luoghi di lavoro; relazioni e comunicazione interpersonale, fattori di igiene del lavoro. Per affrontare tali aspetti negativi ed ottenere performace migliori è fondamentale avere personale di qualità e operare scelte oculate nel mercato del lavoro. Un altro passo importante consiste nel far acquisire al proprio personale un maggior senso di appartenenza alla struttura aziendale, e saper trasmettere le motivazioni giuste. Per comprendere come promuovere il benessere all’interno di un’organizzazione, è fondamentale chiarire anche il significato di empowerment: si tratta di un processo attraverso il quale è possibile liberare il potenziale degli individui, sia personale che professionale. Affinché le aziende siano sempre più competitive e siano capaci di adattare la propria struttura alle situazioni di cambiamento, il contributo dei collaboratori è centrale, ma perché questi si sentano realizzati e generino allo stesso tempo valore per l’impresa, devono poter esprimere in piena libertà il proprio potenziale professionale e personale, assumendosi anche maggiore responsabilità.

Le aziende che desiderano accedere all’immenso potenziale dei propri collaboratori e far sì che lo liberino con fiducia devono garantire un apprendimento continuo costituito da conoscenze non solo legate all’ambito lavorativo nel quale si è posti, ma anche da conoscenze in altri campi, in modo che sia favorita una professionalità trasversale utilissima in caso di un cambiamento radicale all’interno della propria organizzazione.

La mancata realizzazione di una buona cooperazione tra singolo e organizzazione lavorativa può comportare numerosi problemi per entrambe le parti, di carattere economico e di carattere psicosomatico.

11 Dic 2019

DSA: DISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO

DSA: DISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) sono un ampio gruppo di disordini che si manifestano con notevoli difficoltà nell’apprendere ed utilizzare il linguaggio orale, le espressioni linguistiche, la lettura, la scrittura o la matematica. Gli alunni con diagnosi di DSA sono quindi bambini intelligenti ma che, con l’inizio della scolarizzazione, incontrano una difficoltà specifica nel leggere, nella matematica, nello scrivere in modo fluido o corretto. Può essere presente una sola di queste difficoltà specifiche oppure più di una, in questi casi si parla di comorbilità, termine che indica la coesistenza di più disturbi nella stessa persona. I disturbi specifici dell’apprendimento sono:

  • Dislessia: disturbo legato alla capacità di leggere. Il bambino, rispetto ai suoi compagni, presenta delle difficoltà nella lettura fluente di un testo.

  • Disortografia: disturbo relativo alla capacità di scrivere. Il bambino manifesta delle difficoltà quando deve scrivere, facendo molti errori ortografici. Dimentica di scrivere alcune lettere dell’alfabeto o alcune vocali e ha delle difficoltà a copiare dalla lavagna o da un testo.

  • Disgrafia. È un’altra problematica che compromette la capacità di scrivere. Il bambino ha una scrittura poco leggibile perché non riesce a rispettare il rigo, dimentica di scrivere delle lettere e ha difficoltà ad impugnare la penna.

  • Discalculia: disturbo legato alla capacità di calcolare. Il bambino non riesce a fare calcoli corretti, presenta delle difficoltà a contare, soprattutto al contrario, e manifesta dei problemi a capire i concetti di quantità e riporto.

DSA, COME RICONOSCERE I SEGNALI

Riconoscere i DSA nel bambino in età evolutiva non è un’operazione semplice ed immediata. L’errata identificazione del problema non permette di applicare i giusti trattamenti per facilitare l’apprendimento del bambino. Purtroppo non è sempre facile capire se un bambino presenta uno o più disturbi specifici dell’apprendimento. Nella maggior parte dei casi si tende a catalogare il bambino come svogliato e poco attento. Le conseguenze dirette di questa sbagliata interpretazione del problema, portano a peggiorare la situazione. In base all’età è possibile intuire grazie ad alcuni segnali l’esistenza del problema.

Nei bambini dai 3 ai 5 anni si riscontrano delle difficoltà a ricordare le filastrocche in rima, riconoscere il significato di alcune parole e a dividere le parole in sillabe.

Nei bambini dai 5 ai 7 anni si riscontrano delle difficoltà a utilizzare le sillabe e riconoscere il significato delle parole, ma anche contare e memorizzare a mente le operazioni. Nei bambini con DSA, l’apprendimento è lento e il rendimento scolastico basso: non riescono ad esprimere bene i propri pensieri, hanno scarsa capacità di calcolo e scrittura poco chiara.

Nei bambini dai 7 ai 12 anni, si riscontrano difficoltà nella comprensione dei testi, nell’apprendimento delle tabelline e nella scrittura. Sono bambini che fanno confusione con i numeri, i concetti e i simboli e non riescono a distinguere la destra dalla sinistra.

Nei bambini dai 12 anni in poi si riscontrano delle difficoltà nella lettura, che si rivela poco fluente, nella pronuncia delle parole e nel vocabolario molto scarno. La scrittura è ancora poco leggibile e ricca di errori di punteggiatura e di sintassi e la capacità di memorizzare i concetti non è ancora ben sviluppata.

CHI E COME VIENE FATTA LA DIAGNOSI?

Il criterio principale su cui si basa la diagnosi dei DSA è quello chiamato della discrepanza. Essa si definisce come la differenza tra i risultati che un individuo ottiene rispetto a quelli che ottengono altre persone con caratteristiche simili. La certificazione diagnostica dei Disturbi Specifici di Apprendimento può essere rilasciata sia da strutture pubbliche del Servizio Sanitario Nazionale sia da strutture sanitarie private accreditate. L’Equipe multi professionale di valutazione deve essere costituita da: Neuropsichiatra Infantile, Psicologo e Logopedista.

QUALI SONO I DIRITTI DEI BAMBINI CON DSA?

La legge 170/10 riconosce i DSA come disturbi legati all’apprendimento che necessitano di trattamenti specifici. Stabilisce che il bambino possa godere di particolari aiuti scolastici, dietro opportuna certificazione della diagnosi. Nella legge si parla di misure di:

  • Misure dispensative. Date le reali difficoltà scolastiche di questi bambini, è necessario procedere a valutazioni orali e non scritte. La valutazione deve essere effettuata sulla base dei contenuti, senza basarsi sull’ortografia e sulla forma, compromesse dai DSA.

  • Strumenti compensativi. Ogni bambino con un DSA deve avere a disposizione dei mezzi che lo aiutano nel processo di apprendimento. Possibilità di registrare le lezioni, utilizzare testi in formato digitale, programmi di sintesi vocale, video-scrittura, correttore di ortografia, calcolatrice e qualsiasi altro strumento tecnologico che gli permetta di studiare più facilmente e fare esami.

Una diagnosi accurata e queste particolari disposizioni, aiutano il bambino a migliorare le sue capacità di apprendimento.

04 Dic 2019

L’ OBSOLESCENZA DELLE COMPETENZE

L’ OBSOLESCENZA DELLE COMPETENZE

L’obsolescenza professionale è uno dei grossi pericoli che un lavoratore può incorrere. Si tratta, della carenza, nei professionisti, di conoscenze o competenze aggiornate necessarie per fornire prestazioni efficaci nell’ambito delle funzioni lavorative attuali o future. I lavoratori maggiormente a rischio di obsolescenza sono i lavoratori anziani e gli occupati privi di opportunità per sviluppare le proprie competenze nel corso della carriera. L’erosione delle competenze è frutto di una serie di fattori interconnessi: le continue innovazione tecnologiche che rendono le competenze acquisite in precedenza superate ed inefficaci; l’incapacità del soggetto di essere sottoposto a un apprendimento continuo; la negazione o la mancanza di consapevolezza di possedere competenze obsolete e una resistenza al cambiamento da parte del soggetto.

L’obsolescenza delle competenze pone questioni rilevanti con riferimento alla predisposizione di sistemi di formazione professionale lungo tutto il corso della vita lavorativa.

LA FORMAZIONE CONTINUA: RIMEDIO CONTRO L’OBSOLESCENZA

La formazione continua ha il fine di permettere a ogni soggetto che la pratica di rispondere in modo efficace ed effettivo ai nuovi bisogni, cambiamenti e sfide che gli si presenteranno durante la vita professionale. La formazione continua è un processo individuale di acquisizione di competenze che permette di aggiornare ed adeguare la propria formazione rispetto ai bisogni sociali, lavorativi e professionali. Essa non va confuso con l’inevitabile accumularsi, nel corso degli anni, di capacità e abilità. Il principio alla base della formazione continua si riferisce a un processo intenzionale, che ha come motore principale l’individuo stesso che cerca le opportunità formative più adatte ai suoi bisogni. La motivazione che spinge l’individuo all’aggiornamento è influenzata da fattori organizzativi quali: il coinvolgimento o l’esclusione nei processi decisionali, il sostegno da parte dei supervisori, i riconoscimenti e premi predisposti per i soggetti con maggiori competenze o l’assenza di un sistema premiante. Nella lotta all’obsolescenza è necessaria sia la responsabilità dell’individuo, che ha il compito di aggiornarsi, sia dell’organizzazione che interviene sul clima organizzativo in modo che sia favorevole allo sviluppo professionale premiando coloro che si impegnano in attività di aggiornamento; creando un approccio strategico che porti una valutazione continua delle competenze necessarie all’azienda per mantenere il vantaggio competitivo; incoraggiando l’apprendimento collaborativo  e predisponendo attività di coaching, mentoring e comunità pratica.

Laddove le competenze apprese sono necessarie per soddisfare le esigenze del ruolo lavorativo ricoperto, sono quindi messe in pratica nell’immediato, la motivazione e i risultati del processo di aggiornamento sono positivi. Le attività per contrastare l’obsolescenza devono quindi essere pratiche, pertinenti e progettate per soddisfare obiettivi a breve termine specifici per il lavoro.

L’impatto dell’obsolescenza sul posto di lavoro può essere molto significativo. Gli individui possono mostrare una riluttanza a impegnarsi nella risoluzione dei problemi tecnici e la capacità di assumere nuovi modi di lavorare diventa limitata. Possono diventare incapaci di cambiare o resistere attivamente al cambiamento, ed avere una competenza tecnica non più sufficiente. Tutto questo, genera una perdita di autostima nell’individuo che ha il potenziale di diminuire non solo la produttività del team di lavoro, ma anche dell’organizzazione.

LA FORMAZIONE CONTINUA: UN PUNTO DI INCONTRO TRA IMPRESA E LAVORATORE

Il concetto di Learning Organization è riferito a una struttura organizzativa volta a sviluppare conoscenze, al fine di assicurare all’organizzazione stessa una migliore capacità di adattamento e di risposta alle perturbazioni dell’ambiente esterno. Non tutte le organizzazioni che investono risorse e tempo nella formazione sono considerate Learning Organization, ma per essere considerate tali devono possedere una caratteristica essenziale: la formazione continua. La formazione continua è intesa come una formazione rivolta a occupati che chiedono di aggiornare e migliorare le loro crescita professionale. Essa è un punto di incontro tra impresa e lavoratore. Dal punto di vista dell’impresa, la formazione, è vista un modo per mantenere il vantaggio competitivo, è un metodo per coordinare capacità e competenza in vista degli obiettivi aziendali. Dal punto di vista del lavoratore, la formazione, rappresenta l’opportunità per sviluppare competenze a medio e lungo termine aumentando la loro employability (impiegabilità) nel mercato interno ed esterno all’impresa.

04 Dic 2019

LA RABBIA: EMOZIONE PRIMORDIALE ADATTIVA O DISADATTIVA?

LA RABBIA: EMOZIONE PRIMORDIALE ADATTIVA O DISADATTIVA?

Si riporta frequentemente la dicitura di “emozioni negative” ed “emozioni positive”, dando conferma a una diffusa e comune convinzione che ci siano delle emozioni giuste e delle emozioni sbagliate e che pertanto le emozioni “negative” devono essere immediatamente represse. In realtà, le emozioni possono essere piacevoli o spiacevoli, coerenti con la situazione o incoerenti, ma non giuste o sbagliate. Tra le emozioni verso cui si nutrono i maggiori pregiudizi rientra senz’altro la rabbia che viene confusa con l’aggressività, ma mentre prima è un’emozione, la seconda è una delle risposte comportamentali. La rabbia ha la funzione di segnalarci che, in una certa situazione, non ci sentiamo rispettati o capiti, l’aggressività, invece, è una risposta disfunzionale a questa percezione.

Cos’è questa rabbia? È un emozione che si manifesta in tutti, grandi e piccoli, e in alcuni casi porta l’attuazione di comportamenti agiti, mentre in altri, viene soffocata. Capita spesso di vedere un bebè urlare o lanciare oggetti manifestando un proprio stato di rabbia, ciò dimostra che si tratta di un emozione innata che si manifesta fin da subito. La rabbia è un emozione primordiale che ha una funzione adattiva necessaria per difendersi e sopravvivere all’ambiente esterno. Quindi, inizialmente la rabbia ha un funzione adattiva che stimola la tutela della propria dignità e a spinge a chiarire con noi stessi e con gli altri ciò che ci sta bene e ciò che invece non possiamo tollerare o accettare. L’uso adattivo della rabbia implica pertanto le capacità di esprimere pensieri, bisogni ed emozioni riguardanti il vissuto di ingiustizia in modo chiaro ed efficace, senza per questo danneggiare o ferire i sentimenti altrui.

La rabbia può portare anche conseguenze negative per l’individuo. Livelli di rabbia elevati comportano un rischio per la salute; diversi studi hanno messo in evidenza la relazione tra rabbia, aggressività e malattie coronariche. Nel caso in cui la rabbia sia espressa prevalentemente aggredendo, l’individuo determina le condizioni per una rottura dei legami sociali e possibili ritorsioni. Tuttavia, è altrettanto problematica l’inibizione cronica dell’espressione di questa emozione, infatti individui che considerano l’espressione della rabbia come inaccettabile, tenderanno a reagire passivamente alle situazioni che la attivano. Queste reazioni disfunzionali e la disregolazione emotiva possono indicare la presenza di alcuni ostacoli all’interno delle diverse fasi del processo che genera la rabbia.

Per questo motivo, è importante sin da piccoli imparare a riconoscere tale emozione, acquisendo delle modalità per verbalizzare le emozioni e i pensieri connessi al vissuto di ingiustizia.

 

LA RABBIA: DAI FATTORI SCATENANTI ALL’IMPULSO AD AGIRE

La rabbia è una risposta emotiva intensa ma transitoria, che si protrae per brevi momenti. Il processo emozionale si sviluppa a partire da alcuni fattori scatenanti che vengono valutati come ingiusti o dannosi (attribuzione di significato). Tale valutazione innesca la reazione di rabbia e il conseguente impulso ad agire.

  • Eventi che innescano la rabbia: essere insultati, minacciati, non raggiungere i propri obiettivi ecc.
  • Pensieri e attribuzioni di significato che suscitano rabbia: gli stimoli o gli eventi scatenanti vengono valutati dal singolo individuo, come ingiusti o dannosi alla propria persona.
  • Esperienza di rabbia: gli eventi e gli episodi giudicati dal soggetto come esperienze di ingiustizia e danno producono reazioni di rabbia. La rabbia è contraddistinta da alcune componenti riconoscibili in tutti gli individui: modificazioni somatiche (aumento della tensione muscolare e della temperatura corporea); sensazioni (percezione soggettiva delle modificazioni che avvengono nel corpo, come la sensazione di esplodere, di essere fuori controllo); espressioni mimiche e posturali (volto arrossato e teso, aggrottamento della fronte e delle sopracciglia).
  • Impulso ad agire: sotto la spinta della rabbia e dei cambiamenti fisiologici associati ad essa, il soggetto percepisce l’impulso ad attaccare e l’organismo si prepara all’azione.

INTERVENTI PER GESTIRE LA RABBIA

Gestire la rabbia, non significa controllarla o inibirla, ma modularne la risposta emotiva in modo da organizzare l’esperienza e le risposte comportamentali adeguate allo specifico contesto. Esistono diversi tipi di interventi psicologici che possono essere utilizzarti per favorire il processo di gestione della rabbia:

  1. La psicoterapia cognitiva-comportamentale, fonda la sua teoria sull’idea che lo stato emotivo degli esseri umani è determinato dal significato personale che questi attribuiscono agli eventi della realtà. Di fatti la terapia cognitiva si avvale dell’analisi della relazione fra pensieri, emozioni e comportamenti per spiegare i disturbi emotivi.
  2. I gruppi psico-educativi per la regolazione emotiva sono degli interventi ben definiti e strutturati finalizzati ad apprendere, potenziare e generalizzare le abilità della regolazione emotiva. Gli interventi psico-educativi cognitivi-comportamentali prendono in considerazione più emozioni diverse, e la loro relazione con i pensieri e i comportamenti, in virtù del fatto che la rabbia “patologica” potrebbe essere determinata da più fattori.
  3. Il training di gruppo sull’assertività è un intervento efficace per promuovere negli individui, le capacità di esprimere, pensieri ed emozioni in modo chiaro ed efficace. E’ un trattamento particolarmente indicato per coloro i quali, nelle relazioni interpersonali, stentano a comunicare i propri bisogni, oppure li esprimono con aggressività e/o solo dopo aver percepito un danno. Il training assertivo ha lo scopo di far apprendere ai pazienti le competenze necessarie per migliorare la gestione delle relazioni sociale ed esplicitare il proprio punto di vista senza però negare o attaccare i sentimenti altrui.

 

27 Nov 2019

CHE COS’È IL COMPORTAMENTO PROSOCIALE?

CHE COS’È IL COMPORTAMENTO PROSOCIALE?

La prosocialità è la competenza a favorire, senza la ricerca di ricompense esterne, estrinseche o materiali, altre persone, gruppi o fini sociali oggettivamente positivi, secondo i loro criteri. La maggior parte degli psicologi intende la prosocialità come qualsiasi comportamento diretto a beneficiare le altre persone. Perché un’azione si possa considerare prosociale, il ricevente della stessa deve inoltre accettarla, approvarla ed esserne soddisfatto. Questo tipo di comportamento aumenta le probabilità di generare una reciprocità positiva e solidale nelle relazioni interpersonali o sociali successive, migliorando l’identità, la creatività, l’iniziativa positiva e l’unità delle persone o dei gruppi implicati (Roche, 1997). Gli psicologi sono stati spesso curiosi di trovare le risposte al perché le persone si impegnano in comportamenti prosociali. Una teoria, che risponde a tale quesito, è la selezione parentale: c’è una tendenza più alta a aiutare coloro che sono legati a noi più di altri. Un’altra teoria chiamata norma di reciprocità parla della necessità di aiutare qualcuno in modo che anche lui possa aiutarci in cambio. L’empatia e i tratti altruistici della personalità sono due altre ragioni che portano le persone a impegnarsi in comportamenti prosociali.

TRA COMPORTAMENTO PROSOCIALE E ALTRUISMO

Nel comportamento prosociale c’è una tendenza a prevedere premi psicologici o sociali che aiutano il comportamento, mentre l’altruismo è quando una persona aiuta un’ altra senza alcun interesse a ottenere benefici. Una persona altruista non si aspetta niente in cambio per il suo aiuto. Questo è il motivo per cui alcuni considerano l’altruismo come la forma più pura del comportamento prosociale. Prestare aiuto o dimostrare altruismo verso chi è in difficoltà può sembrare un gesto naturale ma, diversi avvenimenti di cronaca sembrano smentirlo. Sono noti, infatti, numerosi episodi di mancato soccorso come quello di Kitty Genovese, una giovane donna assassinata in piena notte in un sobborgo newyorchese nel 1964, il cui evidente bisogno di aiuto non sollecitò alcun intervento da parte delle persone presenti. Numerosi studi sperimentali dimostrano che essere testimoni di situazioni di pericolo insieme ad altri può  ridurre la prontezza a prestare aiuto anziché sollecitare altruismo verso le vittime.

Non esistono individui dotati di altruismo “in assoluto”; la psicologia sociale sottolinea come i comportamenti d’aiuto dettati dall’altruismo siano piuttosto il risultato dell’interazione tra le caratteristiche personali di ogni individuo e le specifiche situazioni di vita che egli si trova ad affrontare. Ciò vuol dire che le persone possono essere guidate dall’altruismo e fornire aiuto in un determinato contesto ma non in un altro.

I comportamenti prosociali, si muovono da motivazioni come lo stesso altruismo, l’empatia, la reciprocità, l’innalzamento dell’autostima e la gratitudine, ma comportano anche un costo in termini di stress, tempo, pericolo per sé stessi: si fornisce aiuto solo se la percezione dei benefici provocati dal proprio altruismo supera i costi ad esso associati. Come osserva Serge Moscovici (1994), esibire oggi comportamenti prosociali dettati da altruismo sembra quasi “controtendenza” in una società fondata sul primato dell’interesse e del successo individuale, in cui è l’egoismo la norma culturale dominante. In questo senso, molti sono gli studi avviati negli ultimi anni su programmi per educare alla prosocialità.

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EDUCARE ALLA PROSOCIALITÀ

Il comportamento prosociale si sviluppa nei bambini a partire dai primi due anni di vita, grazie a tre fattori principali:

  • L’osservazione ripetuta e costante del comportamento delle figure genitoriali, o di chi ne fa le veci: osservando come le figure di riferimento si relazionano con essi e con gli altri, i bambini imparano a comprendere le emozioni e i bisogni propri e altrui ed interiorizzano il senso dell’empatia.

  • Lo sviluppo della facoltà di percezione-azione nel sistema nervoso, che stimola le capacità empatiche.

  • Le caratteristiche dell’ambiente familiare e culturale in cui si cresce: un ambiente in cui si sottolinea l’importanza della relazione con l’altro, del suo rispetto, dell’ascolto delle esigenze e dei suoi sentimenti, dell’interdipendenza reciproca, della prossimità, della fiducia e dell’aiuto reciproco, sviluppa nei bambini un forte senso di responsabilità sociale e di prosocialità

Per queste ragioni, è rilevante educare i bambini alla prosocialità, all’altruismo e alla solidarietà, al fine di prevenire e ridurre spiacevoli episodi di violenza e aggressività . Ci sono 3 importanti atteggiamenti prosociali che un bambino dovrebbe imparare e un genitore dovrebbe insegnare:

  • Comportamento prosociale dell’aiutare.  Insegnare a un bimbo a rimuovere la sofferenza di un’altra persona, permette di aumentare il suo senso di realizzazione e la consapevolezza di essere una brava persona.
  • Comportamento prosociale del cooperare: I bambini che non sono in grado di cooperare fanno molta più fatica nel riuscire a lavorare efficacemente con gli altri, durante i loro anni formativi. Inoltre, dalla cooperazione i bambini imparano a delegare le responsabilità.
  • Comportamento prosociale della condivisione. Un bambino che è in grado di condividere i suoi giocattoli con gli altri è destinato a diventare un adulto generoso.

Non si dovrebbe mai smettere d’incoraggiare il proprio bimbo ad aiutare, condividere e cooperare. Questi tre comportamenti prosociali non dovrebbero mancare mai nell’educazione di un bambino.

27 Nov 2019

Lo Psicologo del Lavoro

Lo Psicologo del Lavoro

Dagli anni ’70-’80 ad oggi siamo passati dalla dimensione operativa e produttiva del lavoro alla necessità di migliorare la qualità della vita lavorativa. Allo stesso modo è nata l’esigenza di integrare le skills personali con l’obiettivo aziendale e favorire la crescita collettiva.

Il benessere psicologico nelle organizzazioni e la qualità degli ambienti di lavoro sono argomenti sempre più centrali nell’economia moderna e lo psicologo del lavoro svolge numerosi compiti proprio legati al raggiungimento del benessere psicologico nelle aziende utile sia ad aumentare il rendimento lavorativo sia a garantire che non subentrino problemi di derivazione psicosociale all’interno delle aziende.

Dato che la qualità dell’equilibrio psicofisico si ripercuote sull’ambiente di lavoro, fondamentale è l’intervento dello psicologo in azienda. La soddisfazione lavorativa del singolo è una buona base di partenza per comprenderne i comportamenti e in che modo sono correlati alla performance ma soprattutto al benessere dell’individuo.
La Psicologia del lavoro, delle organizzazioni e delle risorse umane fa riferimento alle relazioni tra persona, lavoro e contesti organizzativi con riguardo ai fattori personali, interpersonali, psicosociali e situazionali che intervengono nella costruzione delle condotte individuali e collettive.

I diversi compiti dello psicologo del lavoro e delle organizzazioni sono:

  • Formare e selezionare il personale, facendo coincidere necessità e qualità delle aziende e dei candidati nel miglior modo possibile;
  • Formare il personale ed analizzarne e svilupparne il potenziale;
  • Individuare i bisogni formativi del personale ed analizzare i contesti organizzativi e formativi;
  • Promuovere il benessere psicologico aziendale;
  • Progettare e mettere in atto interventi volti al miglioramento dell’organizzazione del personale;
  • Favorire dinamiche gruppali positive nel contesto aziendale.

Le competenze utili per diventare psicologo del lavoro sono:

  • Ascoltare attivamente e comprendere gli altri;
  • Possedere una buona capacità di espressione orale e scritta;
  • Saper gestire il tempo avendo un buon senso critico e capacità di problem solving;
  • Essere in grado di negoziare, istruire e favorire strategie di apprendimento efficaci;
  • Monitorare e valutare le prestazioni del personale o dell’organizzazione in generale;
  • Gestire le risorse umane, motivandole alla crescita.

La Psicologia del lavoro si connette sia con discipline psicologiche (ad esempio, Psicologia cognitiva, Psicologia sociale e dei gruppi, Psicometria, Ergonomia cognitiva, Psicologia della formazione, Psicologia dell’orientamento, Psicologia dinamica, ecc.) sia con altre discipline come le Scienze dell’organizzazione, le Scienze economiche e del management, la Medicina del lavoro, il Diritto del lavoro, ecc.. Nel loro lavoro, gli psicologi cooperano con altre figure professionali come manager, medici del lavoro, ingegneri, addetti alla gestione delle risorse umane, formatori, ecc..

Possiamo concludere che la presenza di una figura professionale come lo Psicologo che da supporto nell’ affrontare le difficoltà e funge da filtro con i vertici aziendali, è importante all’interno del proprio contesto di lavoro dato che è l’ambiente in cui passiamo più tempo durante l’arco della giornata. Dunque, il vantaggio di avere uno psicologo in azienda non è soltanto del singolo individuo e del suo equilibrio psicofisico ma di tutto il benessere aziendale.

 A tal proposito si è sentito parlare di una figura che in America si è già affermata e in Italia sta prendendo piede pian piano: il manager della felicità. Il suo scopo è quello di saper ascoltare, capire i bisogni dei dipendenti, fornire intervalli momentanei alla routine lavorativa.

Se la felicità inizia ad essere un trend possiamo sperare che il lavoro diventi per molti un posto felice.

 

20 Nov 2019

L’Outplacement

L’Outplacement

Oggi i lavoratori frequentemente si trovano a modificare le condizioni della loro occupazione. Talvolta la situazione induce a licenziare personale.

L’outplacement è l’attività di consulenza nell’ambito delle risorse umane  che si occupa di accompagnare le persone in uscita da un’azienda nella ricerca di nuove opportunità professionali. Il servizio di outplacement in Italia è regolato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali quale attività di supporto alla ricollocazione professionale. L’attività è effettuata dall’organizzazione committente (l’azienda presso cui la persona è assunta e dalla quale sta per essere licenziata o posta in cassa integrazione o in mobilità) ed è finalizzata alla ricollocazione di lavoratori nel mercato del lavoro. L’outplacement è un termine di derivazione inglese, importato dagli Stati Uniti dove è stato coniato intorno gli anni ’60. In Italia le principali società di outplacement sono rappresentate dall’AISO (Associazione Italiana Società di Outplacement).
Le attività di Outplacement, dunque, sono attività finalizzate a facilitare la rioccupazione nel mercato del lavoro di singoli o collettivi, attraverso la preparazione, l’accompagnamento e l’affiancamento durante il periodo di transizione. Le attività di supporto alla ricollocazione professionale si distinguono in due fasi:

  1. Autovalutazione: un’analisi delle caratteristiche personali, professionali e psicologiche del lavoratore, somministrando test, eseguendo un bilancio delle competenze, e motivando il soggetto a prendere coscienza della situazione che sta affrontando.
  2. Ricerca del lavoro perduto: si realizza attraverso canali diversificati come lo sviluppo di un network personale, la consultazione di siti, riviste, la pubblicazione di profili dei candidati sui siti dell’organizzazione che promuove la ricollocazione.

L’aspetto principale dei percorsi di ricollocamento è l’adesione attiva dell’interessato. Il ruolo delle agenzie di outplacement è di supporto alla flessibilità del mercato, e consiste nella valorizzazione dei candidati, focalizzandone le qualità e sottolineandone i punti di forza che rendono ogni lavoratore speciale e sul quale un’azienda può investire. Il rischio è che si possa spersonalizzare l’individuo, arrivando a trattarlo come un prodotto da vendere. Non è facile suscitare sentimenti positivi in una persona che ha appena subito una perdita ma deve passare un adeguato tempo, durante il quale chi ha subito un evento traumatico possa comprendere ciò che gli è accaduto, acquisire consapevolezza degli eventi e assimilare sentimenti ed emozioni.
L’outplacement offre l’opportunità di migliorarsi professionalmente, di sperimentare competenze nuove, di potenziare abilità latenti e rappresenta un’occasione di cambiamento della propria collocazione lavorativa. Il vissuto della persona può portare a sentimenti depressivi dovuto alla perdita di uno status sperimentato e rassicurante. Ci si sente falliti, con ansia per il futuro ed è per questo che sono necessarie forme di supporto e di accompagnamento che semplifichino il passaggio da un’azienda all’altra e da un contesto lavorativo a un altro nel modo meno traumatico possibile.

Un servizio di outplacement si esplicita in 4 fasi successive:

  1. Assessment (autodiagnosi/bilancio delle competenze)
  2. Preparazione degli strumenti di marketing (curriculum vitae, colloquio, lettera di marketing, ecc.)
  3. Ricerca attiva sul mercato
  4. Reinserimentooutplacement

Tipologie di Outplacement

  • Individuale: Si realizza attraverso 4 fasi precedute da un colloquio individuale dove il candidato si organizza con l’azienda e aderisce al programma di ricollocazione:
  1. Bilancio delle competenze: Prevede una stesura delle competenze del candidato. Quest’ultimo deve esprimere le competenze maturate nel corso del suo periodo lavorativo, i punti di forza e le aree di miglioramento. Da qui comincia anche, dal punto di vista psicologico, un percorso di ricostruzione dell’autostima. Il candidato viene invitato ad esplicitare tutte le esperienze passate e maturate. Questo lavoro tecnico viene affiancato da un lavoro emotivo sulla persona, per aiutarla nel momento del licenziamento, a non perdere la fiducia in se stessa e nelle proprie capacità e competenze.
  2. Profilo professionale e progetto professionale: Si mettono a punto le competenze maturate nel tempo dalla persona e le sue aspirazioni tenendo conto delle esigenze di mercato. Questi tre elementi servono per programmare un intervento formativo che colmi il gap tra le competenze della persona e quelle richieste per re-inserirsi nel mercato del lavoro.
  3. Coaching: È una strategia promozionale della persona, a partire dai propri curriculum vitae e lettera di presentazione. Con l’aiuto di un consulente si analizza il percorso professionale della persona e si definiscono i target di ricollocamento. Per la buona riuscita di questa fase il livello motivazionale e la percezione di benessere della persona devono essere elevati. Una volta completato il piano di marketing il consulente interviene sui difetti della persona che ne ostacolano il futuro. Il candidato può inoltre partecipare ad alcune simulazioni che lo mettono alla prova nel presentare correttamente il proprio percorso lavorativo, i successi raggiunti e ad affrontare nel miglior modo le criticità che possono essere sollevate dal selezionatore. La persona è ora pronta a “vendere se stessa”. Il coaching fa parte del percorso di outplacement soprattutto per quanto riguarda la fase iniziale in cui il candidato incontra ed instaura un rapporto con il proprio coach, questo rapporto dovrà facilitare le varie fasi per il candidato. Il coach andrà ad agire sul lato motivazionale del candidato, agendo sulle potenzialità. Si deve ben capire che il ruolo del coach non è quello di trovare un lavoro nuovo al candidato, ma di accompagnarlo all’interno di un percorso che lo metta nella condizione di capire le proprie esigenze e potenzialità da adattare al nuovo mercato del lavoro; dovrà quindi essere in grado di trasmettere al candidato la possibilità di capire i propri mezzi autonomamente oltre a come siano spendibili concretamente.
  4. Incontro con il mercato: La persona dopo aver fatto un lavoro su sé stessa cerca di re-inserirsi nel mercato attraverso alcuni strumenti che le vengono forniti e indicati dal consulente. Fra questi ricordiamo il network della società di outplacement che è una fonte importante di notizie che danno accesso ad opportunità di lavoro che alle fonti tradizionali sono sconosciute.

Un altro servizio importante erogato dall’outplacement è il counselling che è un supporto psicologico alla persona durante tutto il percorso di ricollocamento. Il consulente cerca di far emergere i sentimenti della persona licenziata, la rassicura sulla legittimità del senso di rabbia, lo invita a riflettere, lo sprona ad aver fiducia nel futuro e lo aiuta a rimanere sempre aggiornato.

L’Outplacement è un percorso che richiede un rapporto di estrema fiducia e collaborazione. Il consulente utilizza le proprie conoscenze e la propria professionalità per aiutare il disoccupato nel ricollocamento senza limiti di tempo e di mezzi. Il candidato, da parte sua, deve aderire al metodo proposto lavorando seriamente per trovare un’altra occupazione.

  • Collettivo: Si realizza attraverso 2 fasi:
  1. Fase di esaminazione: Viene esaminata la situazione aziendale da cui scaturisce la proposta di un progetto ad hoc inserito nell’accordo sindacale. La procedura necessita di un coinvolgimento attivo e immediato dell’azienda che ha richiesto l’intervento. Questa deve offrire un supporto alla decisione, un’analisi e comprensione della situazione vigente e all’individuazione di opzioni e messaggi da dare in accordo con il manager aziendale. Successivamente si presenta il progetto al management e alle organizzazioni sindacali e si procede poi con la presentazione del progetto ai candidati che verranno sottoposti a colloqui individuali.
  2. Fase di intervento: Consiste nella messa in atto del progetto, gli interventi sono sempre preceduti da azioni di tipo propedeutico: presentazione collettiva ai lavoratori dell’azienda con riorganizzazione e ridimensionamento degli obiettivi del progetto, raccolta delle adesioni, colloqui individuali con i lavoratori interessati a presenziare e frequentare il percorso per un approfondimento al fine di delineare motivazioni e aspettative, formazione dei gruppi.