18 Mar 2020

CORONAVIRUS: COME PROTEGGERCI A LAVORO. ALCUNE INDICAZIONE DELL’OMS.

CORONAVIRUS: COME PROTEGGERCI A LAVORO. ALCUNE INDICAZIONE DELL’OMS.

La nuova malattia infettiva Coronavirus (“COVID-19”) è attualmente in una fase di espansione sul nostro territorio nazionale e sta sollevando molteplici interrogativi connessi al tema della gestione del personale, oltre che della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Per chi non può fare Smart working, l’Oms ha diffuso alcuni semplici consigli e raccomandazioni da seguire sul posto di lavoro, per evitare l’ulteriore diffusione del Coronavirus. “Tutte le diverse sezioni della nostra società, comprese le aziende e i datori di lavoro, devono avere un ruolo se vogliamo fermare la diffusione di questa malattia”, si legge nel documento dell’Oms, che sottolinea come seguire semplici misure potranno fare la differenza e aiutare a prevenire e contenere la diffusione della virus, anche sul posto di lavoro. Il datore di lavoro, infatti, ai sensi dell’art. 2087 c.c., ha il dovere di apprestare tutte le misure di sicurezza al fine di garantire l’integrità fisica e la personalità morale dei dipendenti; e ai sensi del d.lgs. n. 81/2008, ha la responsabilità di tutelare i lavoratori dall’esposizione a “rischio biologico”, con la collaborazione del medico competente, ove presente.

Ecco alcune linee guida dell’OMS su come prevenire il Coronavirus nei luoghi lavoro

– Bisogna assicurarsi che i luoghi di lavoro siano puliti e che le superfici di scrivanie e oggetti, come telefoni e tastiere, siano puliti e disinfettati regolarmente. La contaminazione delle superfici è uno dei modi principali con cui il coronavirus si diffonde”, precisa l’Oms. Inoltre, è necessaria promuovere il lavaggio regolare e accurato delle mani, attraverso distributori di disinfettanti, che devono essere regolarmente ricaricati e assicurarsi che il personale abbia sempre la possibilità di lavarsi le mani con acqua e sapone o con soluzioni alcoliche. Sarà cura del responsabile della sicurezza assicurarsi che tali detergenti e disinfettanti non manchino nei bagni e nei lavandini dell’azienda.

– Nella mensa aziendale si evitino carne cruda o poco cotta, frutta o verdura non lavate e le bevande non imbottigliate.

Evitare le strette di mano o e mantenere dai colleghi la distanza di almeno 1 metro. Ovviamente anche in ufficio vale la regola di non toccarsi naso, bocca ed occhi.

I lavoratori siano formati e informati sul comportamento da tenere, in particolare evitino il contatto ravvicinato, ove possibile, con chiunque mostri sintomi di malattie respiratorie come tosse e starnuti, nonché starnutiscano o tossiscano in un fazzoletto o con il gomito flesso, utilizzino una mascherina e gettare i fazzoletti usati in un cestino chiuso immediatamente dopo l’uso e si lavino le mani. Se il coronavirus comincia a diffondersi anche nelle aree in cui si lavora, chiunque abbia tosse o febbre bassa (poco superiore ai 37 gradi) deve rimanere a casa. Dovrebbero lavorare da casa anche chi ha assunto farmaci come il paracetamolo, ibuprofene o aspirina, che possono nascondere i sintomi dell’infezione.

I datori di lavoro dovrebbero cominciare a fare tutte queste cose ora, anche se la Covid-19 non è ancora arrivata nelle comunità in cui si lavora”.

11 Mar 2020

L’IMPORTANZA DELLA COMUNICAZIONE SOCIAL OGGI

L’IMPORTANZA DELLA COMUNICAZIONE SOCIAL OGGI

Da un punto di vista psicosociale nell’ambito delle relazioni sociali, si sviluppano sempre e comunque fenomeni di influenza. Ogni interazione o comunicazione tra gli individui riflette sempre un’influenza, nonostante la maggior parte delle volte questo non sia un processo volontario. Il primo paradigma della pragmatica della comunicazione umana asserisce che è impossibile non comunicare (Watzlawick, 1967). Da questo ne deriva che non è possibile non influenzare (Smiraglia 2009).

Nella rete di questa influenza rientrano anche i fattori di suscettibilità che dal mondo reale a quello virtuale si sono amplificati: si pensi alle catene di sant’Antonio, alle fake news che agiscono facendo leva per le debolezze cognitive degli attori sociali.

Le caratteristiche della contagiosità di un’informazione

Perché la gente crede ad un’informazione? Quali sono le caratteristiche della contagiosità di una informazione? Secondo Berger (2013) sono sei e sono semplici ed in questo momento le ritroviamo protagoniste della comunicazione associata all’epidemia in atto.

  • Valuta sociale – Attraverso le informazioni che creiamo e condividiamo offriamo agli altri una certa immagine di noi stessi. Per capirci meglio: se condividiamo un articolo interessante, altri commenteranno e condivideranno a loro volta. Questo ci renderà agli occhi dei nostri interlocutori come persone informate ed interessanti, nonché aumenterà i nostri contatti e gli apprezzamenti. Per il singolo avere molti apprezzamenti è fonte di benessere, aumenta l’autostima e l’immagine percepita; nel caso di un personaggio pubblico, influencer o azienda, oltre a questo interviene anche un vantaggio oggettivo: più follower e più traffico hanno un risvolto economicamente vantaggioso.
  • Stimoli – Un’informazione sarà tanto più contagiosa quanto riesce ad essere correlata ad aspetti diffusi nel contesto quotidiano. Il nuovo concetto se sarà associato a molti aspetti che coinvolgono quotidianamente la nostra mente (famiglia, cibo, attività quotidiane), si configurerà uno stimolo “memorabile” ossia facilmente recuperabile dal nostro sistema cognitivo. Finché il coronavirus era in Cina il mio quotidiano era meno invaso dalla sua presenza, per quanto potesse interessarmi; ora il virus è entrato nel nostro quotidiano e lo associamo ad ogni aspetto della nostra vita.
  • Reazioni emotive –  Le informazioni che attirano la nostra attenzione e che condividiamo durante la nostra giornata, con più probabilità sono cose che hanno su di noi un forte impatto emozionale. Non importa se siano informazioni positive o negative, quanto argomenti che inneschino l’arousal del soggetto. A volte però, quando si supera il limite di tolleranza, lo stimolo può generare reattanza: il rifiuto di accettare l’informazione. Da qui le posizioni estreme su un tema così delicato come la salute: dal “è solo un’influenza” all’allarme pandemia, rimanere neutrali è realmente difficile.
  • Visibilità pubblica –  Più un meme sarà diffuso e visibile più sarà facile replicarlo. Va da sé che nel momento in cui un argomento è molto dibattuto nella nostra rete, ci saranno molte probabilità che anche noi emuleremo questo comportamento. La conformità ci porta a lasciarci guidare dall’influenza informazionale e ad essere orientati sul comportamento da seguire: se nella nostra rete la maggior parte delle persone sta mettendo in atto comportamenti allarmistici saremo portati a replicarli o viceversa.
  • Valore pratico –  I contenuti che più hanno presa nella massa sono quelli che possono avere un riscontro pratico sui nostri interlocutori ed essere percepiti come un “comportamento altruistico”, ancora meglio se vissuto come disinteressato. Istruzioni per l’uso, sintesi, schematizzazioni, aggiornamenti e tutto quello che abbia un risvolto in apparenza utile per i nostri interlocutori sarà molto più virale di un approfondimento teorico o di qualcosa che non possiamo “spenderci” in termini di comportamento altruistico.
  • Storie – Le persone amano raccontare ed ascoltare le storie. Se un’informazione riesce ad inserirsi in una vera e propria storia, con tutte le caratteristiche che un buon racconto richiede allora aumentano proporzionalmente le sue potenzialità di contagio: ad esempio, adattare la storia al pubblico rendendola qualcosa di personale e familiare, utilizzare dettagli che facilitino l’immaginazione di chi ascolta, caricare emotivamente la narrazione, creare protagonisti ed antagonisti (nel caso “inventare un nemico”), utilizzare il più possibile stereotipi diffusi che facilitino la comprensione a vari livelli. Non ci basta sapere che c’è un nuovo caso, vogliamo sapere con precisione la sua storia. Ci troviamo così a fare la caccia all’untore, a mappare la vita e le abitudini dei contagiati, a cercare dettagli sulle vite personali degli infelici protagonisti di questa vicenda.

L’utilizzo dei social oggi: aspetti positivi

L’utilizzo dei social in momenti come quello che stiamo vivendo ora può avere anche un risvolto positivo. In queste ore drammatiche, infatti, viene sottolineata l’importanza della comunicazione come leva di gestione della emergenza attraverso una corretta informazione dell’opinione pubblica. Campagne di informazione e di sensibilizzazione sono trasmesse su tutti i canali.

Secondo una recente analisi Facebook e Youtube evidenziano un forte utilizzo per finalità informative e livelli di visualizzazioni molto elevati mentre su Twitter è prevalente il dibattito di commenti (spesso polemici) di giornalisti ed Instagram svolge un ruolo informativo piuttosto marginale sulla crisi in corso.

Inoltre, di fronte al crescere di fake news e teorie infondate sull’epidemia di coronavirus, i social network e le grandi aziende tecnologiche corrono ai ripari, per contenere gli effetti dannosi sulla popolazione. Obiettivo: ripulire la piazza da cattiva informazione e indirizzare gli utenti a fonti affidabili.

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  • Facebook e Instagram: rimandano gli utenti che cercano informazioni sul coronavirs a un pop-up educativo sull’epidemia, collegato al sito dell’Organizzazione mondiale della sanità e, in Italia, al ministero della Salute. Le due piattaforme hanno messo un freno agli annunci e alle fake news sul coronavius rimuovendo “i contenuti con false affermazioni o teorie del complotto, che sono state contrassegnate da importanti organizzazioni sanitarie globali e autorità sanitarie locali e potrebbero causare danni alle persone che ci credono”.
  • WhatsApp: qui la situazione è diversa: un’inchiesta del Washington Post ha dimostrato come la crittografia delle conversazioni renda impossibile arginare la divulgazione di false notizie nei gruppi.
  • Twitter: reindirizza gli utenti che effettuano una ricerca inerente al coronavirus a una pagina con dati raccolti da organizzazioni di sanità pubblica e fonti di notizie verificate.
  • Google: Big G ha agito su due fronti. Da un lato ha offerto, ai suoi utenti di G Suite, gli strumenti necessari per effettuare lo smart working da casa, dall’altro lato ha agito su YouTube. Sulla piattaforma Google ha aggiunto, all’inizio dei suoi risultati di ricerca, un collegamento alla pagina dell’Oms dedicata all’epidemia in corso. Inoltre ha fatto lavorare a pieno regime i suoi algoritmi, in modo che premino i video di fonti attendibili a scapito di quelli di natura complottistica e cospiratrice.
  • Microsoft: Il colosso di Redmond ha offerto sei mesi di prova gratuita dei suoi strumenti per lavorare a distanza. In Italia il gruppo fa parte del pool di aziende che sta offrendo sistemi digitali a supporto delle popolazioni confinate nella zona rossa, all’interno del programma di “solidarietà digitale” voluto dal governo.

Un ulteriore aspetto positivo dell’utilizzo dei social oggi non riguarda solo informare la gente su ciò che bisogna fare o non fare. Grazie all’impatto che ai giorni d’oggi hanno gli influencer, si può utilizzare un social come Instagram per divulgare un appello alla solidarietà. Sono tante le aziende che hanno risposto all’appello “Solidarietà digitale” lanciato dal Ministero per l’Innovazione tecnologica e la digitalizzazione, mettendo a disposizione, gratuitamente, i propri servizi. Ma non solo: qualche giorno fa il web ha dato una grande prova di solidarietà: gli utenti, rispondendo all’ appello lanciato da Chiara Ferragni e Fedez, subito seguiti da altri personaggi pubblici, hanno raccolto 3 milioni di euro da donare all’Ospedale San Raffaele. E da quel momento sono partite campagne di raccolta fondi per tutti gli ospedali d’Italia.

Ma non solo, i personaggi più “social” stanno dando il loro buon esempio lanciando messaggi sulle norme da seguire e soprattutto video in cui spingono tutti i cittadini a stare a casa, tanto da lanciare l’ hashtag #iorestoacasa. Ricordiamoci che se la massa segue un comportamento corretto, il singolo (anche quello più restio ad attuare tale comportamento) tenderà ad uniformarsi.

È questo il vero potere (positivo) dei social: il potere della condivisione che in momenti come quello che stiamo vivendo permette di informarsi sulle giuste misure da prendere e permette di attuare il comportamento più giusto per la propria salute e per quella degli altri.

#restiamouniti e #restiamoacasa

11 Mar 2020

Cos’è lo smart working?

Cos’è lo smart working?

Chiuse le università, sospesi gli eventi pubblici, rinviate le partite di Serie A: l’emergenza Coronavirus  paralizza la società, ma non il lavoro, che laddove è possibile, prosegue da casa. Sono molte le aziende che stanno ricorrendo alla pratica dello smart working, ma chiariamo meglio di cosa si tratta.


Lo smart working è una modalità già molto utilizzata all’estero, ma che negli ultimi anni ha visto un netto aumento anche in Italia. Sempre più aziende hanno infatti abbracciato questa forma di lavoro flessibile che permette di migliorare la qualità della vita del dipendente (soprattutto per i pendolari) e di risparmiare sui consumi e sulle esigenze di spazio delle imprese.

Secondo la Legge 81/2017 il lavoro agile (in inglese smart working) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita in parte all’interno di locali aziendali e, senza una postazione fissa, in parte all’esterno entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

Il datore di lavoro è responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa e che gli incentivi fiscali e contributivi eventualmente riconosciuti in relazione agli incrementi di produttività ed efficienza del lavoro subordinato sono applicabili anche quando l’attività lavorativa sia prestata in modalità di lavoro agile. Lo stipendio e il trattamento normativo del lavoratore agile fanno riferimento al contratto collettivo e, quindi, non a quello aziendale.

VANTAGGI SMART WORKING

I vantaggi ottenibili dall’introduzione dello Smart Working da parte delle aziende e dei lavoratori sono rilevanti e si possono misurare in termini di miglioramento della produttività, riduzione dell’assenteismo e riduzione dei costi per gli spazi fisici.

Utilizzando le evidenze raccolte dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano attraverso survey e casi pilota, si può stimare l’incremento di produttività per un lavoratore derivante dall’adozione di un modello “maturo” di Smart Working nell’ordine del 15%.

I benefici, tuttavia, non sono soltanto per le aziende. Altrettanto concreti sono quelli per i lavoratori:

  • riduzione dei tempi e costi di trasferimento;

  • miglioramento del work-life balance;

  • aumento della motivazione e della soddisfazione.

Lo Smart Working, infine, consente di produrre benefici misurabili anche per l’ambiente ad esempio in termini di:

  • riduzione delle emissioni di CO2;
  • riduzione del traffico;
  • migliore utilizzo dei trasporti pubblici.

COME RICHIEDERE L’ACCESSO ALLO SMART WORKING?

Con un nuovo Decreto emanato l’1 Marzo 2020 in tema di contenimento e gestione dell’emergenza Coronavirus, il Presidente del Consiglio dei ministri interviene anche sulle modalità di accesso allo smart working, semplificando la procedura di richiesta. Il ministero del lavoro fornisce un manuale per l’utente per l’accesso allo Smart Working in cui si definisce il lavoro agile o smart working una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e al contempo favorire la crescita della sua produttività.

Questa definizione di smart working, che si rifà alla Legge n. 81 del 2017, prevede la volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale e sull’utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto, come ad esempio: pc portatili, tablet e smartphone. Le aziende intenzionate a sottoscrivere gli accordi individuali di smart working possono procedere alla richiesta accedendo, tramite SPID o i dati di registrazione, alla piattaforma messa a disposizione dal Ministero del Lavoro in cui è possibile inviare comunicazioni sia in modalità singola che massiva. Esiste inoltre la possibilità di modificare e annullare, sia singolarmente che massivamente, comunicazioni precedentemente inserite. L’accordo individuale prevede l’inserimento dei dati del datore di lavoro, del lavoratore, della tipologia di lavoro agile (tempo determinato o indeterminato) e della sua durata. Sarà, inoltre, possibile modificare i dati già inseriti a sistema o procedere all’annullamento dell’invio.

04 Mar 2020

IL GASLIGHTING

IL GASLIGHTING

Il gaslighting è una tecnica con cui una persona o un gruppo di persone cercano di avere più potere. Per farlo si sceglie una vittima e si cerca di manipolarla, tanto da portarla a dubitare della sua realtà.

Il gaslighting è lento, quindi la vittima non si rende conto di essere sottoposta a un lavaggio del cervello. Ad esempio, nel film Gaslight (da cui deriva il termine), un uomo manipola sua moglie così tanto che lei pensa di aver perso la testa. Le persone che usano questa tecnica di manipolazione mentale distorcono volontariamente le informazioni per affermarsi o per mettere in dubbio la salute mentale della vittima, la sua memoria o la sua percezione della realtà.

I processi utilizzati dal gaslighter sono i seguenti:

  • Dicono bugie senza alcun tipo di vergogna: Qualcuno ti dice, ad esempio, una bugia. Sai benissimo che si tratta di una bugia. Questa bugia ti viene comunicata con un’aria molto seria. Perché è così palese? Questo è il primo passo, è la base del gaslighting. Una volta che ti è stata detta una bugia enorme, non puoi essere sicuro di nulla, soprattutto se in seguito ti viene detta la verità. L’obiettivo? Destabilizzare e disturbare.
  • Negano di aver detto qualcosa, anche se ne hai le prove: Sai che ti hanno detto qualcosa e sei certo di averlo sentito. Ma quando ricordi loro ciò che hanno detto, negano ancora e ancora, all’infinito. Questo ti porta a mettere in discussione i fatti e a dubitare di te stesso: forse è vero che non l’hanno mai detto? Più lo fanno, più dubiti di te stesso, della tua realtà, iniziando così ad accettare la loro.
  • Usano ciò che ti è vicino e caro come mezzo per raggiungerti: Sanno quanto siano importanti i tuoi figli e quanto sia importante la tua identità per te, ed è proprio lì che inizieranno ad attaccarti. Ad esempio, se hai figli, ti diranno che non dovresti averne, o che sarebbe meglio se non avessi quei tratti negativi che ti caratterizzano. In altre parole, le persone che si servono gaslighting attaccano le basi del tuo essere.
  • Ti portano all’usura: Questa è uno degli aspetti più insidiosi del gaslighting: si fa gradualmente, con il tempo. Una bugia qui, una bugia lì, un commento tagliente ogni volta… E le manipolazioni iniziano a creare dei dubbi in te. Anche le persone più intelligenti e più consapevoli possono essere intrappolate nel gaslighting.
  • Le loro azioni non seguono le loro parole: Quando si ha a che fare con una persona che pratica il gaslighting, è meglio tener conto delle loro azioni piuttosto che delle loro parole. Le loro parole non hanno significato, sono solo parole. Il problema sta, infatti, nelle loro azioni (cosa fanno o non fanno).
  • Ti offrono rinforzi positivi per manipolarti: La persona che ti manipola ieri ti ha detto che sei inutile e che non servi a niente, ma oggi si congratula con te per qualcosa che hai fatto. Questo aggiunge un senso di disagio perché penserai: “bene, finalmente le cose non vanno poi così male! “. È una tecnica sottile e pensata nel dettaglio per destabilizzarti e, ancora una volta, farti dubitare della tua realtà. Stai bene attento a ciò per cui sei stato elogiato: questo è probabilmente qualcosa che serve allo scopo del gaslighter.
  • Sanno che la confusione indebolisce le persone: I gaslighter sanno che tutti amano sentirsi stabili ed equilibrati. Il loro obiettivo è distruggere il tuo equilibrio e farti dubitare continuamente.
  • Tentano di mettere le altre persone contro di te: I gaslighter sono maestri nell’arte di manipolare le persone e di servirsi di coloro che ti stanno accanto, per metterli contro di te. Faranno commenti come: “questa persona sa che hai torto”, o “questa persona pensa che tu sia inutile”. Tieni presente che ciò non significa che queste persone abbiano effettivamente detto queste cose: un gaslighter mente costantemente. Usa questa tecnica in modo che tu non sappia a chi rivolgersi né a chi credere. Lo sanno bene: isolarti dagli altri dà loro più potere.
  • Dirà agli altri che stai perdendo la testa: Ecco uno delle tattiche più efficaci del gaslighter: quest’ultimo sa benissimo che, se dice a tutti che hai perso la testa, gli altri probabilmente non ti crederanno quando proverai a giustificarti evocando la sua personalità.
  • Ti dirà che tutti mentono: Dicendoti che tutti mentono (la tua famiglia, i tuoi amici, i media), ti farà dubitare ancora una volta della tua realtà e delle persone che ti circondano. Non hai mai conosciuto qualcuno capace di tanta audacia e sicurezza. Quindi molto probabilmente sta dicendo la verità, giusto? No, è una tecnica manipolatoria che induce le persone a rivolgersi al gaslighter per ottenere le informazioni “giuste”.

È importante conoscere le tecniche utilizzate dai gaslighter per proteggersi al meglio!

Il Gaslighter: personalità e tipologie

La personalità del gaslighter può essere descritta come una sorta di mosaico di disturbi, dei quali nessuno predomina, tranne l’inclinazione a fingere, a mentire, ad ingannare. Ma il gaslighter è molto di più; è senza alcun dubbio una persona disturbata, che ha bisogno di frustrare ed umiliare l’altro per sentirsi qualcuno. Non possedendo delle qualità che lo soddisfino proietta sulla sua vittima) le proprie mancanze e la propria inadeguatezza, riuscendo così a sopravvivere. Il fatto che un gaslighter non sia consapevole del suo comportamento manipolatorio non rende accettabili le sue azioni. Infatti, anche se qualcuno non lo fa consapevolmente, può comunque approfittare dei benefici ottenuti quando la sua vittima diventa dipendente da lui.

Esistono tre tipologie di gaslighter:

  • L’Affascinante: ossia colui che utilizza come strumento manipolativo le lusinghe e le attenzioni, con lo scopo di avvicinare emotivamente la vittima che inizierà totalmente a fidarsi. È difficile da identificare come manipolatore, questo perché all’inizio sembrerà essere l’uomo perfetto. È importante sottolineare che i suoi comportamenti non sono messi in atto per i reali bisogni della compagna ma sono diretti unicamente a soddisfare se stesso e le proprie aspettative. Attraverso l’adulazione tenderà a scusare le sue mancanze e le sue critiche nei confronti della donna.
  • Bravo ragazzo: ovvero colui che apparentemente sembra interessarsi solo ed esclusivamente al bene della vittima, sostenendola ed incoraggiandola. In realtà tutto ciò è fatto per soddisfare le proprie necessità, interponendo i propri bisogni a quelli della compagna, riuscendo comunque a dare un’impressione opposta. Anche questa figura disorienta la vittima poiché si presenta in maniera impeccabile, è innamorato, affidabile e disponibile; la violenza che mette in atto è subdola e difficile da identificare in breve tempo, quindi sarà accondiscendente con la vittima a parole ma, in realtà, metterà in atto comportamenti freddi e scarsa partecipazione.
  • Intimidatore: è antitetico ai manipolatori precedentemente descritti in quanto mancano le caratteristiche di base quali l’attenzione e il romanticismo. Egli esprime esplicitamente la violenza con un’aggressività diretta, con continue critiche e sarcasmo. Rimprovera quindi la vittima apertamente, la maltratta e cerca di farla sentire in colpa in quanto non si comporta come lui vorrebbe. La sua intimidazione si basa sull’apocalisse emotiva, quindi urla, offese, minacce di abbandono, tutto ciò per creare insicurezze nella vittima. Molto spesso approfittano di situazioni in cui la vittima non può controbattere, ad esempio durante una cena con amici, così da rendere il tutto ancora più orribile e terrificante.

Il gaslighting nell’amore

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Molte volte la vittima del manipolatore è proprio la/il partner. La trappola, infatti, scatta quasi sempre all’interno di relazioni o rapporti coniugali malati e si caratterizza da quell’incastro vittima-carnefice nel quale persone gelose o ossessionate dal controllo, isolano il proprio partner, condannandolo a una perenne situazione di depressione e insicurezza. Si tratta di un atteggiamento di manipolazione per confondere la compagna (o il compagno) e portarla a credere ciò che è più conveniente farle credere. Ovviamente, il quadro generale è quello di una relazione tossica e il gaslighting è uno dei suoi principali ingredienti.

Questa forma di violenza psicologica è molto più diffusa di quanto si possa immaginare!

Il problema principale è che viene “somministrata” gradualmente, come un veleno, proprio per fare in modo che la compagna (o il compagno) si abitui e impari a convivere con questi dubbi e sensazioni.

La vittima: caratteristiche principali

Non è solo il gaslighter a possedere determinate caratteristiche di personalità, infatti è necessario che anche la vittima presenti specifiche peculiarità soggettive:

  • scarsa autostima;
  • vissuti di insicurezza;
  • una propensione alla dipendenza e alla fusione;
  • molto empatica, vicina ai bisogni degli altri;
  • teme la solitudine;
  • idealizza facilmente l’altro e non vuole deluderlo;
  • ha bisogno di dare un’immagine di sé sempre positiva e di essere approvata;
  • ha paura dell’apocalisse emotiva e molto spesso è riscontrabile il disturbo dipendente di personalità.

Questi elementi possono favorire l’instaurarsi di una relazione affettiva malata, a tal punto da verificarsi una situazione paradossale: la vittima ormai deumanizzata e spogliata di ogni sua consapevolezza e capacità di resistenza riconosce come suo unico sostegno e fonte di protezione il suo carnefice.

In particolare, sono tre caratteristiche principali della vittima:

  • Paura dell’apocalisse emotiva: paura della vittima di essere preda di una forte esplosione emotiva da parte del gaslighter, caratterizzata da insulti, grida, aggressività manifestata con lancio di oggetti, offese e critiche distruttive.
  • Desiderio fusionale: alcune persone tendono a vivere le relazioni amorose in un modo definito “fusionale”, ovvero il partner viene considerato indispensabile. Si tende a condurre una vita di coppia in cui ogni attività viene svolta insieme all’altro. Inoltre queste persone hanno un forte bisogno di approvazione da parte del partner, arrivando al punto di idealizzarlo. Così la vittima, pur di non contraddire il suo manipolatore, arriva a mettere in discussione la propria percezione della realtà.
  • Eccessiva empatia: è una sorta di trappola in cui la vittima può cadere. Mettersi nei panni dell’altro porterà la persona a sentire profondamente le sofferenze del partner, con il solo desiderio che queste cessino. Caduti in questo vortice inevitabilmente si tenderà a salvaguardare più l’altro che se stessi, quindi è necessario distaccarsi da questo meccanismo per prendersi cura del proprio bene.

Come affrontare il gaslighting?

Proprio per quanto detto finora, è difficile rendersi conto della situazione perversa che si vive; difficilmente si chiede aiuto, cosa ancor più vera se si pensa che diventiamo così dipendenti da isolarci anche a livello sociale per la paura di essere inadeguati o giudicati pazzi.

Difendersi da una “manipolazione” è un compito molto tortuoso e complesso, per questo motivo può rivelarsi efficace farsi aiutare da un professionista. Solo iniziando un percorso di ricostruzione della propria identità, della fiducia e del senso di sé, è possibile liberarsi da una relazione perversa e dolorosa.

Nel gaslighting, il carnefice perde qualsiasi forma di potere nel momento in cui la vittima si rende conto dell’inganno e della distorsione della realtà a cui è stata sottoposta fino a quel momento.

 

04 Mar 2020

COME RENDERE EFFICACE LA STRATEGIA DI SELEZIONE DEL PERSONALE.

COME RENDERE EFFICACE LA STRATEGIA DI SELEZIONE DEL PERSONALE.

Sono le risorse umane che fanno la differenza ai fini del risultato aziendale: sono le persone con la loro unicità e talento che, combinate con il know-how aziendale, creano quel mix virtuosamente esplosivo che porta l’azienda a competere efficacemente in un mercato agguerrito ed in continua evoluzione. Centinaia di curricula, mucchietti di lettere di presentazione sparsi in ogni dove, lettere di referenze che fanno capolino sulla scrivania come bucaneve sul finire dell’inverno: chi si è ancora ritrovato a cercare un nuovo collaboratore per la propria azienda sa benissimo quanto il processo di ricerca e selezione di personale sia complesso e pieno di ostacoli. Quella di cui si sobbarca un recruiter non è del resto una responsabilità di poco conto, in quanto trovare il dipendente perfetto per un dato posto di lavoro è difficile quanto cruciale: il manager brillante, il collaboratore fedele, il venditore scatenato, sono tutti elementi che possono dare nuovo slancio ad un business.

UN LAVORO DA RECRUITER

Il Recruiter è il responsabile della ricerca e selezione del personale. Ciò include la gestione dell’intero processo di reclutamento, dalla creazione di annunci di lavoro all’assunzione del candidato migliore, con la firma del contratto di lavoro.

Ma cosa fa esattamente un HR recruiter?

Quando un’azienda cerca personale, incarica il Recruiter per trovare candidati idonei a ricoprire le posizioni vacanti. Definite con i responsabili di linea o con il management aziendale le competenze del candidato, il selezionatore redige l’annuncio di lavoro per le posizioni aperte: l’offerta deve essere scritta in modo completo ma sintetico, e contenere sia le competenze e i requisiti che vengono richiesti al candidato ideale, sia ciò che l’azienda può offrire in cambio di queste capacità (stipendio, ambiente di lavoro, benefits, possibilità di carriera ecc.). A questo punto, il Recruiter usa tutte le risorse a sua disposizione per trovare potenziali candidati e attrarre i talenti migliori: ad esempio, diffonde l’offerta sulle piattaforme di ricerca lavoro, la pubblica sui canali social (social recruiting), la mette in evidenza sul sito aziendale – le aziende medio-grandi solitamente hanno una pagina web dedicata alle ricerche in corso e alla raccolta dei CV.  Una volta che l’annuncio di lavoro è stato pubblicato e diffuso, il Recruiter inizia a raccogliere e valutare i curriculum vitae pervenuti: la fase di screening dei CV serve per sfoltire i candidati, selezionando solo coloro che soddisfano i requisiti minimi stabiliti per la posizione aperta. Viene creata quindi una prima rosa di candidati, detta short-list, che il Recruiter provvede a selezionare ulteriormente, tramite uno o più colloqui, a seconda della complessità del ruolo da ricoprire.  Spesso e volentieri un recruiter si ritrova davanti decine e decine di curricula che dipingono altrettanti collaboratori perfetti per il ruolo richiesto: ci sono i titoli di studio richiesti, c’è l’esperienza lavorativa, ci sono tutte le competenze necessarie… se tutto questo bastasse, quello del selezionatore sarebbe un lavoro liscio come l’olio. In quattro e quattr’otto la ricerca e selezione di personale di un’azienda sarebbe infatti conclusa. Ovviamente, però, le cose non stanno così: il candidato migliore non è sempre quello che sfoggia il curriculum vitae perfetto, anzi. Non bastano le competenze tecniche e professionali giuste! Ma allora, come si fa a selezionare il candidato migliore? 

I DIECI PASSI PER ATTRARRE CANDIDATI MIGLIORI

Cornerstone OnDemand, il provider di soluzioni cloud-based per la formazione e il talent management, traccia i 10 passi da compiere per rendere efficace la strategia di selezione del personale.

1. Ragionare da candidato non da selezionatore. È fondamentale “mettersi dall’altra parte”, perché l’esperienza che vivono i candidati è la cosa più importante (anche in termini di immagine dell’azienda). Partire dalla semplicità è sempre vincente: i selezionatori devono rendere il processo facile e immediato.

2. Puntare sul Mobile. Chi cerca lavoro lo fa da tablet o smartphone.

3.Collegare le tattiche ai risultati strategici.
Spesso la selezione si concentra su coprire certe posizioni senza comprendere l’impatto delle performance. Fare un passo indietro per capire come le performance nel processo di selezione siano legate alla strategia aziendale può contribuire a rendere più efficace ed efficiente il recruiting.

4. Coinvolgere i manager di linea e definire le aspettative prima di comporre la short-list.
Per contribuire al successo dell’azienda è importante comprendere pienamente le sue esigenze e per farlo è necessario condividere con i responsabili di linea quali sono le competenze di cui hanno bisogno: questo approccio è win-win per i selezionatori e per l’organizzazione stessa.

5. Sfruttare l’immagine dell’azienda per costruire l’employer branding.
Generalmente i candidati conoscono l’azienda più per i suoi prodotti che per la sua reputazione come datore di lavoro. Per questo punto è strategico convincere il marketing a supportare il recruiting con azioni
mirate: l’obiettivo è accedere a un bacino enorme di candidati a costo quasi zero.

6. Automatizzare le attività ripetitive per dare spazio ad attività ad alto valore.
Molte delle attività svolte dai recruiter sono necessarie, ma non aggiungono alcun valore. Per questo è importante capire cosa può essere automatizzato con la tecnologia.

7. Iniziare la selezione dall’interno.
Bisogna evitare di perdere i talenti già presenti in azienda, anche se la
selezione interna è spesso vista con sospetto dai manager di linea che non vogliono perdere le loro persone migliori.

8. Sapere cosa conta di più.
Bisogna comprendere e trasferire il valore del cambiamento e rimanere fedeli al piano originario, perché per cogliere il primo vero impatto sul business si deve pazientare e, agli inizi, i risultati possono talvolta essere deludenti.

9. Usare la tecnologia per migliorare le performance.
Non esiste il sistema perfetto, e capita spesso di accusare la tecnologia e non chi la usa. Diventando esperti sarà possibile sfruttare al massimo quel che abbiamo e fornire risultati migliori.

10. Essere proattivi, pianificare il futuro, anticipare la mancanza di competenze
I selezionatori sono abituati a lavorare per riempire rapidamente e in modo efficiente una posizione, spesso con poco preavviso. Ai team dedicati all’acquisizione dei talenti è invece richiesto di utilizzare un approccio strategico, cercando di rimanere al passo con i fattori interni ed esterni che influiscono sulle performance.

26 Feb 2020

CONOSCI LE CARATTERISTICHE DI UN VERO LEADER?

CONOSCI LE CARATTERISTICHE DI UN VERO LEADER?

Quali sono le caratteristiche di un leader da tenere assolutamente in considerazione?

Quando parliamo di leadership ci sono tanti fattori da analizzare, che hanno a che fare con le idee, ma anche con le azioni.

Dare una definizione univoca di leader (e di leadership) non è affatto semplice; possiamo dire che la leadership è l’arte di motivare un gruppo di persone ad agire per raggiungere un obiettivo comune.

L’essere leader implica sicuramente essere in grado di ispirare gli altri e di essere pronti a farlo. Per fare questo, ci sono aspetti della personalità e caratteristiche che trasformano un soggetto in direttore dell’azione.

LEADERSHIP AZIENDALE: DI COSA PARLIAMO?

Per leadership aziendale si intende quel processo sociale che porta una persona, all’interno di un’azienda, ad essere in grado di influenzare i comportamenti degli altri senza l’ausilio di metodi coercitivi o minacce. Questo significa che il leader è in grado di  influenzare pensieri, atteggiamenti e comportamenti altrui, attraverso metodi che variano dalla motivazione alla comunicazione, dalla responsabilizzazione alla creazione di obiettivi comuni. In sostanza, la leadership aziendale è la capacità di guidare un gruppo verso un obiettivo comune, sfruttando le capacità e gli sforzi di ogni membro. Il concetto di gruppo è fondamentale. Senza seguaci, infatti, il leader non esiste, nonostante possegga tutte le caratteristiche e le qualità per essere una perfetta guida.

Nonostante non esista una definizione formale convincente di Leader aziendale, è comunque indubbio che avere un buon leader a capo di un gruppo aziendale sia di vitale importanza per la salute degli affari.

Proprio come un medico individua la patologia del paziente e stabilisce una terapia per la guarigione, allo stesso modo il leader aziendale deve essere in grado di diagnosticare i problemi del gruppo e trovare delle soluzioni adeguate per risolverli.

COSA NON È LA LEADERSHIP.

Abbiamo detto che fornire una definizione univoca di leadership è piuttosto complesso. Proviamo dunque a fare l’operazione inversa e cerchiamo di rispondere ad ogni tuo dubbio in materia parlando di cosa non è la leadership, sfatando qualche luogo comune:

  • Leadership non è gestione: La leadership all’interno di un’azienda spesso si confonde con la gestione del personale o con il management. È bene sottolineare che management e leadership sono correlati, ma non sono la stessa cosa. La più grande differenza tra manager e leader sta nel modo di relazionarsi con il lavoro. Il manager si concentra sulla supervisione dei risultati attraverso dati e statistiche, confrontandoli con gli obiettivi previsti e apportando, eventualmente, modifiche in termini di gestione economico-finanziaria e strutturale delle risorse. Il leader invece si focalizza sulle persone: cerca i modi per motivare il suo gruppo e per far sì che ogni membro dia il massimo per raggiungere l’obiettivo comune. Deve inoltre scegliere la giusta strategia di leadership aziendale per guidare il suo team verso il successo. Si può essere un manager o un leader, si può essere entrambi, o nessuno dei due, ma i due concetti rimangono comunque separati.

  • Leadership non è anzianità: l’avanzare dell’età o dell’esperienza in azienda non rende leader automaticamente. Possono esistere dei dirigenti senior, ma non è affatto detto che siano dei leader;

  • Leadership non è titolo: non esiste una laurea per diventare un leader. Ci sono delle caratteristiche che possono essere affinate e su cui si può lavorare per migliorare se stessi e la propria efficienza.

LE CARATTERISTICHE DI UN BUON LEADER:

  1. Comunicazione: Il leader deve essere in grado di spiegare in modo chiaro e sintetico ai dipendenti obiettivi SMART necessità organizzative di qualunque entità. I leader devono padroneggiare tutte le forme di comunicazione, comprese conversazioni individuali, dipartimentali e complete, nonché comunicazioni tramite telefono, e-mail e social media. Una gran parte della comunicazione implica l’ascolto. Pertanto, i leader dovrebbero stabilire un flusso costante di comunicazione tra loro e il loro personale o membri del team, sia attraverso una politica della “porta aperta” o conversazioni regolari con i lavoratori.

  2. Positività: Ci saranno molti alti e bassi, ma l’azienda li affronterà meglio se hai creato una cultura dell’ottimismo. Per farlo serve coraggio. Devi davvero credere di poter rendere possibile l’impossibile.

  3. Pianificazione: nessuna improvvisazione. Un buon leader deve essere capace di individuare le priorità e comprendere i problemi davvero rilevanti per risolverli nel minor tempo possibile. Deve intuire cosa accadrà, all’azienda e al mercato, nel medio e lungo periodo. 

  4. Affidabilità: essere affidabile è tutto per i leader aziendali, che agiscono un po’ come motivatori personali. I dipendenti devono essere in grado di sentirsi a proprio agio rivolgendo domande o chiedendo chiarimenti al leader. Onestà e integrità sono caratteristiche imprescindibili per ispirare gli altri. 

  1. Flessibilità: Soprattutto in questo momento storico, dove lo smart working si impone sempre più prepotentemente nelle aziende, la flessibilità è una delle caratteristiche di un leader fondamentali. Il buon leader dà sempre l’esempio, accettando i cambiamenti con positività.

  2. Responsabilità: È più facile dare la colpa di un errore a un’altra persona che assumersi le proprie responsabilità. Ma, nel lavoro di squadra, è importante che ognuno riconosca i propri sbagli con umiltà. Anche se a sbagliare è il capo.

  3. Creare un clima positivo, senza conflitti ed assegnare a ciascuno il proprio ruolo in azienda: ognuno deve essere in grado di lavorare nelle condizioni più favorevoli possibile e questo è un compito che spetta soltanto a chi è a capo di un gruppo di lavoro. Poiché si trascorre molto tempo in ufficio, è fondamentale che ci sia un clima sereno e di grande collaborazione. Un buon leader, quindi, deve essere in grado di capire gran parte degli aspetti caratteriali ed evitare, per quanto possibile, di creare team che non siano in grado di integrarsi e di lavorare insieme al raggiungimento degli obiettivi. 

26 Feb 2020

La dipendenza da videogiochi: l’ “Internet Gaming Disorder”

La dipendenza da videogiochi: l’ “Internet Gaming Disorder”

Molte volte sentiamo mamme o papà lamentarsi per la cattiva abitudine dei propri figli adolescenti nel trascorrere ore e ore della giornata davanti ai videogiochi.

L’uso eccessivo di videogiochi è un fenomeno molto frequente, soprattutto negli adolescenti. I dati statistici riportano che il 55 per cento dei ragazzi e il 20 per cento delle ragazze, già sotto i 15 anni, passano una media di due ore al giorno davanti alla console, giocando sui cellulari, con i tablet e con il pc.

L’industria dei videogiochi, diventa sempre più sofisticata grazie alla dilagante domanda da parte dei consumatori, per catturare nuovi clienti e per aumentare la loro spesa. I più importanti produttori di videogiochi, ad esempio quelli americani, stanno assumendo una specifica categoria di professionisti: gli psicologi. Questo perché i produttori hanno bisogno, sempre di più, di entrare nella testa dei ragazzi, devono afferrarli e, in qualche modo, renderli prigionieri. Proprio da un punto di vista psicologico, il passaggio da qui alla dipendenza è davvero molto sottile.

L’Internet Gaming Disorder nel DSM-5

La dipendenza patologica da videogiochi, infatti, è stata inclusa nella più recente versione del DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali). Nello specifico la troviamo sotto l’etichetta “Internet Gaming Disorder”, ovvero l’uso frequente di videogame sia online che offline, spesso insieme ad altri giocatori, che determina sofferenza o una compromissione significativa del funzionamento dell’individuo. Va detto che l’Internet Gaming Disorder è l’unica altra dipendenza comportamentale inserita, assieme al gioco d’azzardo patologico, nella sezione 3 del DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), ha inserito il gaming disorder nell’ultima revisione della International Classification of Diseases (Icd-11), l’elenco che contiene tutte le patologie riconosciute, oltre 55mila, usato per le diagnosi dai medici di tutto il mondo (la nuova versione verrà adottata a partire dal 2022).

Secondo il DSM.5, almeno cinque dei seguenti criteri diagnostici proposti per l’Internet Gaming Disorder, devono essere soddisfatti per un anno di tempo:

  1. Preoccupazione per il gioco online: la persona pensa frequentemente alla precedente o alla prossima attività di gioco così che il videogame diventa l’attività principale della vita quotidiana.
  2. Sintomi di ritiro quando il gioco online è impedito, descritti solitamente come irritabilità, ansia o tristezza.
  3. Un aumento progressivo della tolleranza al gioco che conduce alla necessità di spendere sempre più tempo giocando.
  4. La persona ha provato a smettere o a trattenersi dal giocare online ma ha fallito.
  5. La persona ha perso interesse per le relazioni nella vita reale, gli hobby precedenti o altre forme di intrattenimento come risultato dell’attività di gioco online.
  6. La persona ha continuato ad abusare del gioco online pur sapendo quanto impatto ciò avesse sulla sua sfera psicosociale.
  7. La persona ha mentito a familiari o altre persone in merito alla quantità di tempo speso a giocare.
  8. La persona usa i giochi online come via di fuga dalla realtà o per alleviare sentimenti di ansia, colpa o impotenza.
  9. La persona ha perso o ha messo a rischio una relazione, un lavoro o un’opportunità di studio o di carriera a causa del gioco online.

Per essere riconosciuto come problema mentale, il gaming disorder deve durare almeno 12 mesi, ma ci possono essere eccezioni per casi particolarmente gravi. Chiaramente non tutti i videogiocatori soffrono del disturbo: anzi, i “malati” sono solo una minima parte.

Specificazioni diagnostiche

Gli autori del DSM-5 compiono anche una serie di riflessioni e di ampliamenti teorici sui diversi criteri diagnostici presentati. La preoccupazione per il gioco deve essere presente al momento in cui il giocatore non è impegnato nel gioco. Essa deve manifestarsi più volte al giorno nel corso dello stesso giorno. L’aumento di tempo speso a giocare deve essere spiegato da un incremento del desiderio di gioco. Dovrebbe essere presente la percezione di non essere appagati da sessioni di gioco di durata inferiore. L’aumento di tempo dedicato al gioco non dipende solamente da un aumento del tempo libero (es. la fine della scuola).

Diagnosi differenziale della dipendenza da videogame

È importante diversificare questo disturbo dall’”Internet Addiction” e dal “Gambling Disorder”.

  • “Internet Addiction”: ovvero la dipendenza da internet, fa riferimento alle conseguenze negative derivanti da qualsiasi attività che può essere svolta online (Young et al., 1999). Quindi non solo l’uso eccessivo e problematico di giochi online o offline come nel caso della dipendenza da videogiochi;
  • “Gambling Disorder”: fa riferimento al coinvolgimento eccessivo e problematico con giochi che prevedano scommesse di soldi. Ciò non riguarda i videogame, sebbene alcuni di questi prevedano la possibilità di “sbloccare” delle funzioni pagando.

videogiochi

I sintomi

Il gaming disorder porta principalmente tre sintomi: ansia e stressrabbia e violenzasvogliatezza fino alla totale mancanza di appetito e di sonno. Una vita che appassisce, insomma.

Poi, ci sono problemi anche organici perché spesso questi giovani ragazzi non mangiano, non bevono e non dormono per giocare, con conseguenze anche sulla loro salute.

Sicuramente possono esserci anche delle complicanze neurologiche: famosi sono stati in passato i casi di crisi epilettiche indotte dalla stimolazione luminosa e dalla deprivazione di sonno a cui questi soggetti erano esposti. Anche la cefalea non manca mai, sia come complicanza dello stato emotivo (sintomo indotto dallo stress), che come meccanismo organico per un problema legato all’esposizione protratta al gioco.

Come combattere la dipendenza dai videogiochi

  • Allertarsi, e non restare passivi o indifferenti, di fronte ai primi segnali di dipendenza dei ragazzi.
  • Giocare con loro, scegliere con loro il videogioco e condividere con loro il tempo necessario e sufficiente per avere il piacere di godersi questa forma di divertimento. Insieme, e non da soli.
  • Non utilizzarli nelle camere da letto, spiegando che non è il luogo giusto per i videogiochi, in questo caso nemici del prezioso sonno.
  • Proporre e condividere qualche alternativa, anche la più semplice: un film, una passeggiata, buona musica, una lettura.

È importante sapere che ore e ore davanti a una console o ad uno smartphone, peggiorano la qualità della vita degli adolescenti, li rendono più aggressivi e più irascibili, peggiorano la qualità delle loro relazioni con i coetanei. E li spingono verso il baratro della solitudine.

Per via della sovrapposizione diagnostica e clinica con altre forme di dipendenza comportamentale è lecito supporre che esse beneficino di trattamenti psicoterapici di tipo cognitivo comportamentale. Questi possono essere integrati da tecniche proprie del colloquio motivazionale e dalle strategie di prevenzione delle ricadute utili per le dipendenze in generale.

19 Feb 2020

SCHEMA THERAPY

SCHEMA THERAPY

Cosa è la Schema Therapy?

La Schema Therapy è stata originariamente ideata dallo psicoterapeuta Jeffrey Young per pazienti con disturbi psicologici cronici e radicati che non hanno tratto beneficio dalla terapia cognitivo comportamentale standard. Negli ultimi anni la Schema Therapy è diventata un modello generale per il trattamento di diverse problematiche.

La Schema Therapy offre un approccio innovativo ed efficace per il trattamento di pazienti con disturbi d’ansia, depressione, disturbi alimentari e in particolar modo per i disturbi di personalità. I problemi vengono affrontati su un piano emotivo, cognitivo e comportamentale, con l’applicazione di numerose tecniche tratte dalle diverse terapie (Terapia Cognitivo Comportamentale, della Psicanalisi, del Costruttivismo, della Terapia della Gestalt, della Terapia Focalizzata sulle Emozioni e dell’Attaccamento, …).

Per quale motivo la Schema Therapy risulta essere così efficace?

In questa terapia il focus iniziale è costituito da quello che la persona che soffre porta nel colloquio con lo psicoterapeuta. Lo psicoterapeuta indaga su quelle che sono le costanti problematiche del paziente partendo dal presente e procedendo all’indietro nella storia della persona in terapia, fino al momento in cui tali problematiche si sono formate, ovvero nell’infanzia. Poi si cerca di capire insieme alla persona cosa è capitato nella sua infanzia che lo ha portato a stare male e si individuano quindi i bisogni emotivi che non sono stati soddisfatti. Tale non soddisfacimento dei bisogni emotivi da bambina costituisce un trauma ripetuto che porta alla formazione di quelli che vengono chiamati schemi maladattivi precoci. Per “schemi” si intendono quelle emozioni, pensieri, ricordi, sensazioni corporee dolenti che si sviluppano se bisogni universali d’amore, di protezione, autonomia, libertà, spontaneità-gioco e contenimento non sono stati soddisfatti nell’infanzia. Questi schemi possono essere attivati da particolari situazioni che in qualche modo richiamano gli eventi dolorosi del passato e possono essere rivissute ripetutamente nel corso della vita causando una sofferenza intensa e portando a condotte disfunzionali.

schema therapy

Gli Schemi risultano quindi essere delle costanti nella vita di una persona e tenderanno ad attivarsi anche nel presente. Questo avviene tramite dei complessi meccanismi fisiologici che si attivano in una zona del cervello chiamata amigdala. L’Amigdala è la sede in cui viene immagazzinata la componente emotiva di un ricordo e si attiva in modo molto forte ogni qualvolta l’individuo si trova in una situazione in cui si potrebbe ripresentare un evento negativo.

Quando una persona ha formato degli schemi maladattavi, l’amigdala tende ad attivarsi in modo sempre più generalizzato producendo nell’individuo fortissime emozioni ancora prima che il soggetto possa capire cosa gli sta capitando. In questi casi la persona mette in atto tre tipi di comportamento: resa, evitamento, contrattacco che tendono a rafforzare lo schema stesso e ad incrementare l’attivazione dell’amigdala stessa.

Le caratteristiche più peculiari della Schema Therapy sono:

  • Enfasi sulle emozioni e bisogni delle persone. La Schema Therapycerca di cogliere quali esperienze si attivano in un determinato momento e aiuta a trovare delle modalità adattive e sane per soddisfare i propri bisogni;
  • Una comprensione delle difficoltà attuali attraverso una rielaborazione dei vissuti dolorosi dell’infanzia e dell’adolescenza, per favorire esperienze nuove e correttive nel presente.
  • Enfasi sulla relazione terapeutica, che viene vista come base sicura.

Come è strutturata la Schema Therapy?

In generale, la Schema Therapy si articola in tre fasi:

  1. Assessment psicoeducazione”: il terapeuta aiuta il paziente ad analizzare i problemi principali, a comprenderne le origini e a creare delle associazioni fra essi e i problemi della vita presente.  Il terapeuta deve spiegare le problematiche principali, dare indicazione per la seconda fase di trattamento, ma soprattutto creare una relazione terapeutica in cui il paziente si senta compreso, rispettato e sicuro.
  2. Trattamento e Cambiamento”: è la fase in cui vengono attivate diverse tecniche e strategie (tecniche esperienziali/emotive, tecniche cognitive, tecniche comportamentali e tecniche relazionali), con l’obiettivo di correggere gli schemi e sostituire gli stili di coping disadattivi con modelli di comportamento più funzionali.
  3. Autonomia”: in questa fase il paziente assume sempre più responsabilità, sviluppa relazioni sane fuori del contesto terapeutico, aumenta l’integrazione sociale e lavorativa. Gradualmente in questa fase si riducono i contatti tra paziente e terapeuta.

Il terapeuta e la Schema Therapy

Il terapeuta della Schema Therapy deve:

  • Presentarsi come una persona “vera” e genuina;
  • Essere disponibile a soddisfare i bisogni primari di sicurezza, stabilità, accettazione e autonomia;
  • Mettere a confronto la persona con le sue sofferenze e strategie di vita, in modo delicato e chiaro;
  • Entrare in relazione e costruire un dialogo curativo con tutte le parti disturbanti e sane del paziente.

Spesso si pensa che “il passato è passato” e che ormai non si possa fare niente. Questo però non è assolutamente vero. Partendo da una buona relazione terapeutica, lo Psicoterapeuta all’interno del contesto della Schema Therapy può cambiare come il paziente vive il passato, le emozioni collegate ai ricordi, e quindi cambiare sé stesso e la propria personalità.

In conclusione, l’obiettivo della Schema Therapy, è quello di rafforzare il cosiddetto “Adulto sano” presente in noi, che accudisce e valorizza la nostra parte vulnerabile. Infatti, molte delle persone che hanno seguito la Schema Therapy, riferiscono di sentire dentro una parte adulta che entra in contatto con quella parte bambina e con i suoi bisogni, prendendosene cura come un bravo genitore o un adulto sano. Quindi, è proprio dentro sé stessi che i pazienti hanno ciò che permette loro di vivere una vita finalmente serena.

19 Feb 2020

DEFINIRE GLI OBIETTIVI AZIENDALI CON IL METODO S.M.A.R.T.

DEFINIRE GLI OBIETTIVI AZIENDALI CON IL METODO S.M.A.R.T.

Gli obiettivi fanno parte di ogni aspetto della vita: come conduci le tue relazioni, cosa vuoi raggiungere al lavoro, come usi il tempo libero e così via. Tutto si riduce alle priorità e cosa vorresti ottenere in ogni aspetto, se fai una scelta consapevole o vai con le preferenze del subconscio. Senza fissare obiettivi, la vita diventa una serie di eventi caotici che non controlli. Diventi il giocattolo della coincidenza. Lo stesso per gli obiettivi aziendali.

PRIMA REGOLA: per ottenere dei risultati bisogna avere degli obiettivi chiari, definiti, misurabili.

Il metodo S.M.A.R.T. è stato sviluppato da Peter Drucker nel 1954, come parte integrante della filosofia di gestione aziendale MBO (Management by Objectives). Si tratta di un sistema per la definizione degli obiettivi, che vengono messi al primo posto rispetto alle attività necessarie per il loro raggiungimento. Una efficiente gestione degli obiettivi di business è possibile soltanto se ne si conosce la validità. Il metodo S.M.A.R.T. ed è un acronimo tanto semplice quando efficace.

S(specific)
Un obiettivo deve essere innanzitutto quanto più
specifico e preciso possibile. Mai generalizzare. Tutto deve essere tangibile. Gli obiettivi vaghi o generalizzati non sono utili perché non forniscono una direzione sufficiente. 

Le domande seguenti possono essere un buon punto di partenza:

Cosa voglio realizzare?”

Perché questo obiettivo è importante?”

Chi è coinvolto?”

Dove si trova?”

Quali risorse o limiti sono coinvolti?”

Il segreto per rendere specifico un obiettivo è caratterizzarlo tramite un numero e una scadenza.

M(measurable)
Un obiettivo è misurabile se, dopo una certa data di inizio, puoi visualizzare gli avanzamenti verso il risultato sperato.L’obiettivo deve poter essere espresso numericamente. “Voglio vendere di più” non è un obiettivo. “Voglio aumentare le vendite di tale prodotto del 10%” lo è. Impostare obiettivi misurabili permette alle persone di “mantenere la rotta“, restare nei tempi prestabiliti, provando progressivamente la soddisfazione del risultato che sprona all’impegno necessario per raggiungere l’obiettivo finale.

Un obiettivo “misurabile” è in grado di rispondere a queste domande:

Quanto?”

Quanti?”

Come saprò quando è compiuto?”

A(achievable)
Ovvero
raggiungibile. Puoi definire tutti gli obiettivi che vuoi ma la concretezza è la componente che fa la differenza tra sogni e ambizioni. Il tuo obiettivo deve essere quindi realistico e commisurato alle risorse e alle capacità di cui disponi. Per impostare obiettivi pertinenti e concreti dovresti definirne pochi, i più rilevanti. Senza questo tipo di focus, puoi finire con troppi obiettivi, lasciandoti troppo poco tempo da dedicare a ciascuno di essi.

Un obiettivo rilevante può rispondere “sì” a queste domande:

Questo sembra valere la pena?”

È questo il momento giusto?”

Questo corrisponde ai nostri altri sforzi / bisogni?”

Sono la persona giusta per raggiungere questo obiettivo?”

È applicabile nell’attuale contesto socio-economico?”

R (relevant)
Raggiungere un obiettivo significa investire tempo e denaro.Sarebbe bene valutare i
limiti e le risorse necessarie che hai a disposizione e che potresti usare per l’obiettivo in essere. Ne vale davvero la pena? Riflettici bene e analizza i costi e i benefici.

Un obiettivo raggiungibile risponderà a domande come:

Come posso raggiungere questo obiettivo?”

Quanto è realistico l’obiettivo, basato su altri vincoli, come fattori finanziari?”

T(Time-based)
Ogni obiettivo deve avere una scadenza e prevedere diversi step di verifica. “Voglio aumentare le vendite di tale prodotto del 10% ENTRO SEI MESI”. Solitamente un obiettivo legato al tempo risponde a queste domande:

Quando?”

Cosa posso fare tra sei mesi?”

Cosa posso fare tra sei settimane da oggi?”

Cosa posso fare oggi?”

Per stimare il tempo di raggiungimento dell’obiettivo potresti suddividere l’obiettivo in più attività e assegnare un responsabile ad ognuna di esse. Successivamente, per stimare la durata di un’attività potresti utilizzare la tecnica del backward planning, o pianificazione a ritroso. Tramite essa, parti dalla scadenza dell’obiettivo e definisci a ritroso le varie attività che dovrai svolgere quotidianamente e quanto tempo dedicherai ad ognuna di esse fino ad arrivare ad oggi.

Se vedi che necessiti di maggior tempo puoi fare tre cose:

  1. Svolgere attività in parallelo (ove possibile);

  2. Aumentare il numero di persone per team;

  3. Spostare in avanti la data di raggiungimento dell’obiettivo, per evitare di rendere l’obiettivo irraggiungibile.

VARIANTI DEL METODO SMART

Nel corso degli anni, come spesso accade, anche il metodo S.M.A.R.T. ha subito reinterpretazioni e varianti, a seconda dei diversi ambiti di utilizzo. Ad esempio, in un progetto che coinvolge più persone la lettera A dell’acronimo può significare “Assignment”, perché per la sua realizzazione è necessario individuare “chi fa cosa” all’interno del gruppo di lavoro.

Il metodo SM.A.R.T. ti permette quindi di analizzare oggettivamente un progetto o un’idea di business e capire se e quanto l’obiettivo che intendi raggiungere sia chiaro, definito, misurabile, fattibile e strutturabile/verificabile su di una base temporale concreta. Se ti senti sopraffatto o intimorito dalle dimensioni e dalla complessità di un obiettivo, e ti serve una strategia per portarlo a termine, il metodo S.M.A.R.T è la risorsa che fa per te.

12 Feb 2020

PHILOFOBIA: LA PAURA DI INNAMORARSI

PHILOFOBIA: LA PAURA DI INNAMORARSI

Ognuno di noi ha delle paure, ma non tutti le vivono con la stessa intensità! Le fobie sono paure irrazionali, estreme che possono concentrarsi su più focus diversi.  Quando si parla di fobia si entra nell’ambito del disagio psicologico, dove una minaccia aumenta di dimensioni e le reazioni sono incontrollabili. Una fobia può focalizzarsi potenzialmente su un qualunque oggetto anche la cui natura sia positiva.

Ma come si può aver paura dell’amore?

Si sa che le prime fasi dell’innamoramento sono quelle che più fanno battere il cuore e che rimangono nei nostri ricordi. Eppure, non tutti sono così aperti alla possibilità di amare. Alcuni, addirittura, soffrono della cosiddetta “philofobia”, ossia la fobia dell’innamoramento. Chi ne soffre ha paura di innamorarsi ed evita tutte quelle situazioni che possano causare lo sbocciare di un nuovo amore.

L’etimologia del termine philofobia, deriva da due parole greche: “philo” che significa amore e “fobia” che significa “paura”. La traduzione letterale è pertanto paura d’amore, e vuole significare la paura che può provare un soggetto, verso l’amore romantico o la creazione di legami emotivi in generale.

La philofobia, o filofobia, o philophobia, rientra nella classificazione delle fobie, poiché ne possiede le caratteristiche:

  • Paura eccessiva e persistente verso la situazione ritenuta minacciosa;
  • Davanti allo stimolo fobico, si presenta immediatamente l’ansia;
  • Il soggetto stesso riconosce la paura come irrazionale;
  • L’evitamento dello stimolo fobico diventa la strategia del soggetto per evitare la paura.

Non confondiamo la philofobia con una delusione d’amore. Sentirsi traditi o non corrisposti non è certamente un’esperienza piacevole, ma può portare all’evitamento dell’amore, non necessariamente alla paura dello stesso. La philofobia ha origini più profonde e spesso personali. Quali sono le cause? Come superare questa fobia?

Le Cause

Le persone che soffrono di philofobia non sono in grado di stabilire un coinvolgimento emotivo. La paura dell’amore può iniziare evitando il contatto ravvicinato con membri del sesso opposto, per poi trasformarsi in un’insensibilità nei confronti delle relazioni affettive, tale da evitare tutte le persone.

La philofobia può essere un disturbo fobico semplice oppure può fare parte di un quadro psicologico più ampio (cioè si manifesta in soggetti che soffrono di altre fobie e/o disturbi d’ansia).

Come accade per altri disturbi fobici, le cause esatte della philofobia non sono ancora state identificate. Tuttavia, esistono alcuni fattori che possono favorire la paura dell’amore:

  • Pregresse esperienze negative: una storia d’amore finita male, un divorzio, la separazione dei genitori, violenza domestica, l’abbandono.
  •  Pregiudizi culturali: esistono pregiudizi, credenze e convinzioni che inibiscono o addirittura proibiscono relazioni d’amore romantiche: basti pensare alle etnie in cui i matrimoni sono organizzati dalle famiglie. Certe relazioni d’amore sono vietate (come nel caso dell’omosessualità) o viste come “peccato” e, se le norme dettate dai preconcetti vengono violate, sono punite brutalmente. Ciò può causare frustrazione e senso di colpa in chi si innamora.
  • Depressione e disturbi d’ansia: coloro che soffrono di depressione sono particolarmente vulnerabili dal punto di vista emotivo, quindi sono predisposti a sviluppare dei meccanismi di difesa, isolandosi o evitando qualsiasi legame d’amore. La philofobia può presentarsi anche in persone con disturbi ossessivo-compulsivi, le quali, in particolare, non sono disposte a “perdere il controllo” ed a mostrare le proprie debolezze.

I Sintomi

La philofobia si delinea come un sentimento che nasce dalla paura di perdere il controllo di sé a causa delle proprie emozioni o del rivelare sé stessi.

A livello psicologico i sintomi della philofobia sono:

  • Ansia in presenza dello stimolo fobico;
  • Paura persistente dell’innamoramento,che include anche angoscia e nervosismo al pensiero di essere coinvolto in una relazione;
  • Difficoltà a rapportarsi con un possibile partner;
  • Isolamento dal mondo esterno e solitudine.

Questi sintomi si possono verificare sia all’inizio della storia, ma anche dopo qualche appuntamento, quando il soggetto capisce di stare entrando in una relazione d’amore.

Quando il soggetto si confronta con qualsiasi cosa associata all’amore ed al romanticismo, la philofobia può indurre anche una serie di segni fisiologici-somatici, tra cui:

  • Aumento del battito cardiaco;
  • Respirazione affannosa;
  • Senso di svenimento o vertigini;
  • Nausea;
  • Sensazione di “testa vuota” o di vivere in una situazione irreale;
  • Bocca secca;
  • Sudorazione eccessiva (specie alle mani);
  • Tremori;
  • Pianto;
  • Intorpidimento.

Questi sintomi sono tipici delle forme fobiche e sono una risposta del corpo che si “prepara alla fuga” perché la mente ha passato l’informazione di una situazione di pericolo.

Terapia e Rimedi

Le persone che sviluppano una philofobia persistente ed ingiustificata, spesso hanno bisogno di un supporto per essere in grado di impegnarsi in relazioni normali. A seconda della gravità del quadro clinico, la philofobia può essere affrontata in modo efficace con la combinazione di vari approcci terapeutici (psicoterapia, farmaci, desensibilizzazione sistemica, ipnosi ecc.). Questi interventi hanno l’obiettivo di indurre il paziente a razionalizzare la propria fobia, cercando di concentrarsi sulla possibilità di reagire ai pensieri ansiogeni e di affrontare le convinzioni negative associate all’idea di innamorarsi.

 

“Ci sono due forze motrici fondamentali: la paura e l’amore. Quando abbiamo paura, ci ritraiamo indietro dalla vita. Quando siamo innamorati, ci apriamo a tutto ciò che la vita ha da offrire con passione, entusiasmo, e l’accettazione” (John Lennon).