30 Ott 2019

L’empatia nei luoghi di lavoro

L’empatia nei luoghi di lavoro

Ti è mai capitato di arrivare in un luogo di lavoro e di cercare un sorriso, uno sguardo di complicità o qualcuno che ti aiutasse ad ambientarti in fretta? Spesso questa ricerca si trasforma solo in illusione. Ciò non significa che chi ci circonda sia antipatico o maleducato ma semplicemente siamo poco abituati ad ascoltare i bisogni dell’altro e a dedicarci alle relazioni interpersonali. In ogni contesto di lavoro, è fondamentale sviluppare un ascolto empatico, ovvero un ascolto consapevole e basato sul desiderio di creare un team solido, affinché si possa creare un’unione tra benessere personale e produttività. Quando viene a mancare l’empatia, è difficile lavorare bene. Chi non riesce a creare rapporti solidi con i colleghi non si sente parte integrante di una squadra. È un atteggiamento che non fa bene al dipendente che si sente sempre più demotivato, ma anche all’azienda che dovrebbe incrementare il benessere e la gratificazione del personale.

Ma cosa è l’empatia?

L’empatia è la capacità di “mettersi nei panni dell’altro” percependo, in questo modo, emozioni e pensieri. È un termine che deriva dal greco, en-pathos “sentire dentro”, e consiste nel riconoscere le emozioni degli altri come se fossero proprie, calandosi nella realtà altrui per comprenderne punti di vista, pensieri, sentimenti, emozioni e “pathos”. L’empatia è un’abilità sociale di fondamentale importanza e rappresenta uno degli strumenti di base di una comunicazione interpersonale efficace e gratificante.

Oltre a portare vantaggi al singolo, l’empatia porta interessanti profitti anche all’azienda, in quanto secondo fonti americane:

  • il 42% dei consumatori evita di acquistare prodotti o servizi da un’azienda che percepisce come poco empatica;
  • il 56% dei lavoratori rimarrebbe volentieri in un’azienda che dimostra attenzione ed empatia per i dipendenti:
  • il 40% dei lavoratori resterebbe volentieri qualche ora in più in ufficio, se a chiederglielo fosse un capo empatico e disponibile.

Consigli per migliorare l’empatia nei luoghi di lavoro

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  1. Impara cose nuove. Acquisendo nuove conoscenze (e competenze), ti metterai in gioco ed uscirai dalla tua comfort zone.
  2. Va’ oltre i convenevoli.Sforzati di intavolare conversazioni che vadano oltre il semplice “Ciao, come stai?” o  “Hai visto che bella giornata!”. Discutere e confrontarsi su temi robusti e profondi aiuta a cementare rapporti proficui al lavoro.
  3. Chiedi riscontro a chi ti conosce bene. Affidati ai suggerimenti di amici e parenti che ti conoscono bene e che possono aiutarti a diventare più empatico.
  4. Fai autocritica. Individua i tuoi punti deboli e cerca di combatterli perché possono compromettere seriamente il rapporto coi colleghi.
  5. Ascolta senza interrompere.E’ una manifestazione di rispetto e di considerazione che va a braccetto con l’empatia.
  6. Sorridi di più.Cerca di lasciare i pensieri negativi fuori dall’ufficio e sforzati di mostrare il tuo lato migliore alle persone che collaborano con te.
  7. Concedi i giusti riconoscimenti a chi se li merita. Manifestare ammirazione per il lavoro altrui è un gesto nobile che, prima o poi, verrà ricompensato.
  8. Chiama i tuoi colleghi per nome. Dà un senso di confidenza che dovrebbe contribuire a rendere più informali e distesi i rapporti.
  9. Chiedi sempre il parere degli altri. Confrontati e mantieni un atteggiamento di apertura nei confronti di chi ti sta accanto.
  10. Usa il linguaggio del corpo in maniera consapevole. Evita di eccedere con la gestualità e la mimica e rapportati sempre in maniera educata e controllata.
  11. Non ti distrarre durante le conversazioni. L’empatia passa anche (e soprattutto) dall’attenzione che destini a chi sta interagendo con te.
  12. Chiedi ai tuoi colleghi di spiegare bene quello che pensano. Dai a tutti l’opportunità di esprimersi liberamente, soprattutto se ricopri un ruolo di responsabilità al lavoro.
  13. Rispetta il punto di vista degli altri. Non si tratta di mettere in discussione tutto quello in cui credi, ma di mostrarti rispettoso delle visioni degli altri. Anche e soprattutto quando non collimano con le tue.
  14. Incoraggia i colleghi e sii di supporto. Se ti mostrerai empatico e comprensivo di fronte ad un errore di un tuo collega, anche tu riceverai sostegno nei momenti di difficoltà.
  15. Mostrati paziente e calmo. Solo chi dimostra di essere solidale, disponibile, calmo e paziente riuscirà a conquistarsi la fiducia dei colleghi.
  16. Apriti agli altri e non avere paura di mostrare la tua vulnerabilità. Più ti mostrerai autentico e trasparente e meglio sarà.
  17. Sii flessibile e aperto ai cambiamenti. Inutile arrabbiarsi perché un progetto è sfumato o ha preso un’altra direzione. Le cose possono cambiare e sfuggirti di mano in ogni momento.
  18. Fai più domande. Empatia vuol dire mettersi in connessione con gli altri. Coltiva la tua curiosità ed esplora sempre terreni nuovi: crescerai al lavoro e nella vita privata.

E’ scientificamente provato che l’atteggiamento empatico attiva aree celebrali legate alle emozioni positive, tralasciando quelle negative. Tutto questo influenza l’esecuzione del lavoro, soprattutto nei periodi di forte stress. Inoltre, un ambiente lavorativo fatto di fiducia, serenità e connessione emotiva, assicura un buono stato di salute per i dipendenti.

Provare per credere.

 

 

30 Ott 2019

L’importanza di esprimere le proprie emozioni: la narrazione

L’importanza di esprimere le proprie emozioni: la narrazione

Chiunque abbia mai affidato un preoccupante segreto a un diario, o abbia pianto con un amico, conosce la sensazione di sollievo che l’espressione di emozioni dolorose può portare. Gli individui cercano sempre di comprendere i grandi sconvolgimenti nelle loro vite. Molte sono le ricerche che affermano che scrivere sulla propria vita, sui pensieri e sulle emozioni provate aiuta a dare un senso maggiore alle proprie esperienze. La narrazione aiuta a comprendere e spiegare l’esperienza umana. Raccontare le proprie storie ha una funzione di empowerment, poiché raccontare porta a scoprire significati profondi della nostra vita, a riappropriarsi dell’esperienza vissuta, a ricostruire la propria esperienza, resa quasi irriconoscibile dal rincorrersi delle azioni e situazioni.

Il valore delle narrazioni autobiografiche è riconosciuto dagli psicologi in quanto il “raccontarsi” diventa un vero e proprio processo terapeutico: con la narrazione il paziente può uscire dal ruolo di protagonista assumendo la posizione di spettatore dei fatti, in questo modo avviene un distacco emotivo che facilita una visione più oggettiva degli eventi.

La narrazione è diventata, ormai, uno strumento straordinario per il benessere:

  • Perché consente di affrontare e rielaborare esperienze e vissuti importanti e vitali della vita del soggetto;
  • Perché favorisce la creazione di mondi possibili (e se…) e quindi individuare e immaginare soluzioni creative e differenti da quelle esperimentate nella realtà;
  • Perché una narrazione è di per sé fonte di esperienze emotivamente positive, piacevoli e motivanti;
  • Perché è una esperienza che coinvolge mente e corpo

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La narrazione può essere utilizzata anche da coloro che hanno vissuto esperienze traumatiche. Sappiamo come il trauma generi una frattura nell’esperienza vissuta provocando spesso dei fenomeni di rimozione o di sospensione del pensiero conseguenti all’innalzamento delle difese della psiche. Chi ha vissuto un’esperienza traumatica, oltre a sperimentare una profonda sofferenza emotiva, può avere conseguenze sulla propria identità, coscienza e memoria, influendo in modo profondo sul significato e sul valore della vita e delle relazioni con gli altri. Se una persona si impegna a inglobare il trauma nella sua vita, ne derivano una serie di cambiamenti che includono la rivalutazione positiva dell’esperienza traumatica, la ricerca di benefici, la crescita post-traumatica (crescita personale), che comporta un aumento del significato percepito, della forza personale e un miglioramento delle relazioni.

Questo strumento viene utilizzato anche nei contesti di cura, perché la sofferenza richiede di essere inserita in racconti reali per acquisire un senso preciso, diventare condivisibile e trasformarsi in risorsa. Molte ricerche dimostrano che la narrazione in contesti di cura aiuta a raggiungere alti livelli di benessere sia per il paziente che per coloro che con esso si relazionano. In questo modo, la narrazione diventa una potente forma di espressione della sofferenza e delle esperienze legate ad essa. Quando agli individui viene chiesto di scrivere o parlare di esperienze che li turbano personalmente, si riscontrano miglioramenti significativi nella salute fisica. Al contrario, il non confidare le proprie esperienze significative è associato ad un aumento di tassi di malattia, ruminazioni e altre difficoltà.

Comunicare idee e pensieri ad altri include due funzioni: la prima è aiutare la persona a raggiungere una certa comprensione cognitiva dell’evento; la seconda assume più un carattere sociale, in quanto quando parliamo agli altri delle nostre esperienze, richiamiamo la loro attenzione sul nostro stato psicologico e quindi ci permette di restare più legati a loro. Al contrario, il non parlarne porta ad una condizione di distanza e isolamento. Parlare di un’esperienza emozionale può aiutarci a integrarci maggiormente nella nostra rete sociale.

Possiamo concludere quindi che creare una storia è essenziale per l’adattamento, l’integrazione del trauma e lo sviluppo del benessere.

23 Ott 2019

Perdita del lavoro: il modello dell’elaborazione del lutto

Perdita del lavoro: il modello dell’elaborazione del lutto

Il lavoro è un’attività complessa: esso costituisce lo strumento principale per ottenere le risorse per vivere ed è un valore molto importante nella nostra cultura. Il significato che un individuo attribuisce al lavoro può dipendere da diversi fattori che interagiscono tra loro. Ma per la maggior parte dei casi solo una minoranza lo percepisce unicamente come forma di sostentamento. Il lavoro è dovere, diritto e anche bisogno, un bisogno di vivere un senso di interezza e sicurezza, di capire e comunicare chi siamo. Il suo significato è sociale, economico e psicologico.

Per tutti questi motivi, la perdita del lavoro è percepita dall’individuo come una ferita, un fallimento. Di fronte al trauma della perdita del lavoro l’individuo oltre a sperimentare sentimenti di frustrazione, può mettere in atto risposte di tipo cognitivo, comportamentale, emotivo e reazioni inconsce. La perdita di lavoro, improvvisa o no, genera in ogni persona un insieme di sentimenti di smarrimento misti a rabbia e sconforto, che sono difficili da affrontare nell’immediato e che se non ben gestiti, sul lungo termine, possono portare a blocchi e problematiche psicologiche anche gravi.

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La perdita di lavoro è stata associata al concetto di elaborazione del lutto. È necessario attraversare delle fasi di elaborazione per comprendere e agire nel migliore dei modi in situazioni di questa tipologia. Uno dei più importanti modelli che descrive le fasi del processo di elaborazione del lutto è stato realizzato dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kübler-Ross nel 1969. Gli americani Finley e Lee hanno condotto una serie di ricerche sulla forma di lutto rappresentata dalla perdita del lavoro e, nel 1981, sono giunti ad ampliare il modello precedente aggiungendo due fasi: “shock” e “sollievo”. Pertanto, le fasi che compongono il processo di elaborazione della perdita professionale sono complessivamente 7:

  1. Shock: il soggetto sperimenta un trauma fisico e mentale e immobilizzazione. Il panico produce confusione e incapacità di pensare;
  2. Negazione o incredulità: è l’impossibilità di pensare che ciò che è successo sia vero, aggrappandosi alla speranza che sia un errore. La negazione tampona notizie scioccanti e inaspettate, permettendo alla persona di mobilizzare altre difese, meno radicali;
  3. Sollievo: soprattutto per i dirigenti, l’informazione viene fornita con anticipo rispetto all’effettivo licenziamento, in altri casi la notizia non viene diffusa ma iniziano a circolare delle voci in azienda. Ciò porta il soggetto a vivere nella condizione di sentirsi prossimo al licenziamento e quando questo si verifica la persona prova una sorta di sollievo;
  4. Rabbia: che è diretta sia all’esterno che all’interno. Il soggetto è arrabbiato perché si sente rifiutato, abusato e trattato ingiustamente. Questa rabbia è alimentata da sentimenti di frustrazione e colpa per non aver agito prima che la situazione sfuggisse di mano;
  5. Contrattazione: è il tentativo di rovesciare il processo di conclusione. La contrattazione è motivata da sentimenti di incredulità, vergogna per i propri sentimenti di sollievo e paura per l’incapacità di evitare la lettera di licenziamento. Questa fase è breve poiché spesso l’azienda ha già esposto la possibilità di supportare la persona con un intervento di outplacement;
  6. Depressione: una volta compreso che i tentativi di rinegoziazione sono inutili, la persona si deprime e tende ad allontanarsi dagli altri. Questa fase è caratterizzata da un’esperienza non familiare di non sentirsi in grado di prendere decisioni. Il sonno diventa interrotto e irregolare, e la stanchezza fisica durante il giorno è aggravata da sentimenti ansiogeni;
  7. Accettazione: con il tempo i soggetti raggiungono uno stato di pace: non sono depresse, né arrabbiate.

È importante arrivare alla fase di accettazione affinché le persone possano impegnarsi in modo giusto alla ricerca di un lavoro. Il compito dei consulenti è individuare la fase in cui si trovano i soggetti, e aiutarli a raggiungere un atteggiamento diverso verso la propria condizione rendendola più accettabile.

Sin da subito bisogna rispondere in prima persona alla costruzione del nuovo progetto professionale e non farsi trascinare dagli eventi o dalle emozioni negative. È importante ricordarsi che siamo esseri abitudinari e il tempo è una risorsa preziosa per cui, se si vuole rientrare velocemente nel mercato del lavoro, è meglio darsi da fare subito e abituarsi a non disperdere il tempo disponibile e ad impiegare almeno metà della giornata a cercare lavoro o a costruire il proprio progetto professionale.

Ricorda sempre: il lavoro è un diritto dell’uomo per cui tutti possono farcela perché ognuno ha le risorse per soddisfare questo bisogno.

17 Set 2019

Creatività e pensiero divergente

Creatività e pensiero divergente

Il pensiero divergente è alla base del pensiero creativo, inteso come capacità di trovare soluzioni alternative a un problema.

È difficile definire esattamente cosa sia la creatività e come nasce l’ispirazione. Ilpensiero divergente cerca di spiegare come applichiamo la creatività e come possiamo imparare attraverso di esso.

Che cos’è il pensiero divergente

SI definisce pensiero divergente quel pensiero che permette di creare alternative possibili a una questione, che non preveda una sola sola soluzione possibile.

Ossia va al di là di quella che è la situazione di partenza: è un pensiero che esplora nuove direzioni e possibilità, portando così alla produzione di nuove idee. In questo momento il pensiero divergente si avvicina alla creatività, stimolando  l’ispirazione e nuove possibilità.

Diverse forme di pensiero e ragionamento

Esistono diverse forme di ragionamento che ci permettono di arrivare a una soluzione di un quesito o un problema: per esempio c’è la connessione per analogie che cerca di utilizzare elementi appresi nel passato e applicare a una situazione non nota, ma analoga, appunto, nel presente.

Oppure vi è il pensiero induttivo, che cerca di analizzare le esperienze passate per trovare una regola generale che possa valere anche nel caso presente. La strategia opposta invece viene chiamata pensiero deduttivo, dove da una regola generale che fa da riferimento, cerchiamo di estrapolare indicazioni particolari che soddisfino le nostre esigenze nel presente.

A questi tipi di ragionamento si affiancano il pensiero convergente e il pensiero divergente. Mentre il pensiero divergente si caratterizza per apportare una soluzione nuova e creativa a un problema, il pensiero convergente si caratterizza per essere applicato a situazioni che permettono un’unica risposta plausibile e corretta, che rimane dentro i limiti imposti dalla situazione rispettando regole già definite e codificate.

Secondo la definizione del pensiero divergente e convergente, postulata da Guilford, nel 1967, questi tipi di pensiero potrebbero essere collegati all’apprendimento e in particolare il pensiero divergente sarebbe espressione di un pensiero artistico e creativo, mentre il pensiero convergente sarebbeespressione delle materie scientifiche.

Processi psicologici ed esempi

Il pensiero divergente è un pensiero al quale non siamo stati educati, e che in qualche modo va sviluppato e riscoperto, anche se è comunque una forma di ragionamento di cui tutti siamo capaci.

Come abbiamo visto, il metodo educativo utilizzato finora a livello scolastico e di apprendimento si è basato sul pensiero convergente, il ché è ottimo, ma il pensiero divergente è un pensiero complementare che va introdotto nell’insegnamento, perché ci permette di creare punti di vista e idee nuove, sviluppando così anche il nostro spirito critico.

Alcuni esempi di domande che incentivano il pensiero divergente, potrebbero essere:

  • – Se disponessi di un mattone e una penna, cose ne faresti? O con una spazzolino da denti e un bastone cosa inventeresti?

IL concetto è uscire dagli schemi del ragionamento logico, che ci dicono per esempio che la penna e il mattone servono solo a determinate funzioni, e andare al di là di queste definizioni, per scoprire nuove potenzialità.

Ci sono persone che riescono a rispondere con un’infinita di possibilità a queste domande, con idee ingegnose e originali, e che dispongono di un alto potenziale di “pensiero laterale”, secondo la definizione che ne dava Edward Bono (ossia la risoluzione di problemi attraverso l’osservazione da diverse angolazioni). Per attivare questo tipo di pensiero, possiamo fare riferimento ad alcuni processi psicologi. Vediamoli più da vicino!

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Creatività, intelligenza emotiva e benessere

Secondo alcuni studi posteriori agli anni ’90 si sottolinearono due relazioni importanti tra il pensiero divergente e l’intelligenze emotiva da un lato e il benessere dall’altro.

In particolare gli studi di Goleman sull’intelligenza emotiva e il pensiero divergente, in primis, e altri approfondimenti in seguito, hanno messo in risalto l’imporatnza di sviluppare questo tipo di intelligenza unita a un pensiero più critico, per creare dosi maggiori di autoconsapevolezza e empatia, attività sociali e motivazioni, perché secondo Goleman, le emozioni sono alla base del comportamento umano.

Per quantro riguarda invece il benessere e il pensiero divergente, uno studio sempre degli ultimi anni, sottolinea come tale pensiero nasca più facilmente in condizioni di benessere fisico e mentale, per esempio quando siamo riposati o non soffriamo pressioni, ansia e stress.

Al giorno d’oggi, con lo stress e i doveri quotidiani ci chiamano all’ordine, potrebbe essere difficile essere aperti a nuove esperienze e punti di vista. Ma è qualcosa che ci dovremmo ricordare: vivere bene è importante per pensare meglio!

Albert Heinstein asseriva che “la creatività è l’intelligenza che si diverte”, ed è una frase che rappresenta tutto quello che abbiamo visto finora.

Nella nostra vita ci troviamo di fronte a tante situazioni e possibilità ed è importante che impariamo a risolvere e ad affrontarle attarverso tipi di ragionamento e pensiero complementari. A volte l’esperienza può darci risposte a domande, che sennò non sapremmo assolutamente come risolvere, e grazie al pensiero convergente potremmo davvero arrivare a scoprire nuovi mondi, con un metodo logico e consequenziale. Ma altre volte è necessariocambiare il punto di vista per risolvere una situazione o per risolvere un problema sconosciuto: in questo senso il pensiero divergente ci può venire in soccorso per tirarci fuori da un empasse logico.

I sistemi di apprendimento dovrebbero riconsiderare il loro approccio psicologico allo studio e all’educazione, per dare maggiore spazio a questo pensiero critico e creativo. Forse era proprio questo uno dei significati del famoso lemma di Steve Jobs “Stay Hungry, Stay Foolish”, ossia “siate affamati, siate folli”.

Imparare a ragionare fuori dagli schemi e dalla logica sequenziale, cambiare il punto di vista e trovare idee nuove, può riuscire molto spesso a sbloccarvi da situazioni e problemi in cui vi sentivate stagnanti.

17 Set 2019

LA DIFFERENZA TRA PSICOLOGO E PSICOTERAPEUTA

LA DIFFERENZA TRA PSICOLOGO E PSICOTERAPEUTA

Sia lo psicologo sia lo psicoterapeuta sono figure professionali orientate a diminuire il disagio psichico e promuovere il benessere dell’individuo.

Le differenze più esplicite riguardano la loro formazione, più nello specifico il loro percorso di studi.

Lo psicologo è il laureato in psicologia dopo aver svolto un anno di tirocinio post laurea e aver sostenuto e passato l’esame di stato. Per potersi definire psicologo bisogna essere iscritti all’albo degli psicologi, senza questa iscrizione si è soltanto “dottore in psicologia”.

Lo psicoterapeuta ha affrontato un percorso di studi più lungo per conseguire il suo titolo. Per prima cosa va chiarito che lo psicoterapeuta può essere laureato in psicologia o in medicina. Una volta sostenuto l’esame di stato e iscritto all’albo degli psicologi o dei medici è possibile iscriversi a una scuola di psicoterapia. Queste scuole durano almeno 4 anni e devono essere riconosciute dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (MIUR). Durante questo percorso è obbligatorio svolgere 400 ore di tirocinio presso strutture convenzionate con la scuola di psicoterapia frequentata.

COSA PUÒ FARE UNO PSICOLOGO?

Lo psicologo è abilitato a svolgere attività di prevenzionediagnosicura e riabilitazione oltre che attività di ricerca e didattica nel suo ambito. Le sue attività sono rivolte alla prevenzione, al trattamento del disagio e alla promozione del benessere. Con l’allungamento della vita media, il ruolo dello psicologo è sempre più rivolto a promuovere il bene personale, piuttosto che mirato ad affrontare i problemi.

Nella sua pratica clinica può utilizzare test, essendo abilitato all’utilizzo degli strumenti propri della professione di psicologo. I laureati non iscritti all’albo degli psicologi, non possono somministrare test senza essere supervisionati da uno psicologo.

COSA PUÒ FARE UNO PSICOTERAPEUTA?

Lo psicoterapeuta può fare psicoterapia. La psicoterapia va più in profondità rispetto alla consulenza psicologia effettuata dallo psicologo. L’azione più intensa della psicoterapia presuppone una maggiore possibilità di intervento e di influenzare il paziente, per questo motivo la psicoterapia nelle mani di uno psicologo può essere molto rischiosa.

Per molti la questione non è la profondità dell’intervento a definire la differenza tra psicologo e psicoterapeuta, bensì l’esperienza dello psicoterapeuta nei confronti della psicopatologia.

In generale la promozione del benessere può essere agilmente svolta da uno psicologo, il trattamento di una psicopatologia è meglio venga affidato ad uno psicoterapeuta.

Lo psicologo psicoterapeuta non può prescrivere farmaci (per quello serve essere medico o psichiatra), per questo motivo le terapie per quelle patologie dove è indicato l’uso di farmaci è consigliabile l’intervento integrato di psichiatra (medico che può prescrivere farmaci) e psicoterapeuta.

 

 

17 Set 2019

L’importanza delle relazioni amicali nella crescita

L’importanza delle relazioni amicali nella crescita

Le relazioni amicali hanno un’importanza fondamentale nella crescita di bambini ed adolescenti e finanche di adulti. Esse al pari della famiglia contribuiscono enormemente all’adattamento psicosociale dei bambini poiché, grazie alla mediazione, favoriscono una relazione positiva dei bambini con l’ambiente permettendo loro di sviluppare competenze e strategie.

Il senso di sicurezza, l’autostima, il potenziamento delle strategie sono solo alcune delle funzioni fondamentali di un individuo che vengono favorite da una soddisfacente capacità di costruire e mantenere rapporti amicali nella vita. Anche affrontare i cambiamenti ed i passaggi attraverso le varie età è un processo fortemente mediato (spesso, ma non sempre) positivamente dai rapporti amicali. Ecco perché non è pensabile uno sviluppo socio-relazionale come componente a sé ma legata ad altri aspetti come la dimensione corporea, anch’essa fortemente mediata dai rapporti amicali, soprattutto nella fase adolescenziale.

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La dimensione socio-relazionale che si verifica e si rileva nei rapporti amicali influenza fortemente l’adattamento psicosociale come già detto ma anche il rendimento scolastico di bambini ed adolescenti. Nelle relazioni amicali esistono ovviamente delle differenze legate soprattutto al sesso: nei maschi alla propria individualità ed una visione non sempre equilibrata del valore attribuito a se stessi ed all’altro. Ciò avviene soprattutto nei bambini delle scuole elementari dove manca ancora uno sviluppo del sé ben definito che al di là del distanziamento dall’altro non permette ancora di attribuire ed auto attribuirsi valori sociali E di autostima reali. Essi a differenza della controparte femminile sono portati maggiormente a differenziarsi, si impegnano a costruire il loro status, sempre portati alla selettività individuale ed alla competizione.

Per le bambine esiste una predilezione per la ricerca dell’intimità e della vicinanza con l’altro. Si nota anche una differenza rispetto al clima emotivo che bambini e bambine mettono in atto nell’amicizia; le bambine sono più portate a favorire il benessere di entrambi o di tutti i componenti del legame amicale mentre tra i maschi c’è una maggiore neutralità a livello emotivo. Forse perché le bambine sono più orientate verso gli aspetti psicologici della relazione; a differenza dei bambini che preferiscono una compagnia basata sulla condivisione di attività e quindi poco interessati al versante emozionale del rapporto.
Inoltre man mano che l’amicizia si intensifica e il tempo passato insieme aumenta si passa da una differenziazione molto forte e marcata tra sé e l’altro ad una sempre maggiore uguaglianza con il proprio amico. Pertanto una condivisione continuativa di attività e momenti potrebbe portare ad ulteriori somiglianze tra i fanciulli.

17 Set 2019

TRAUMA DA RIENTRO: ESISTE DAVVERO?

TRAUMA DA RIENTRO: ESISTE DAVVERO?

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Il ritorno a scuola può comportare uno stato di malessere diffuso che coinvolge diverse fasce di età, dai bambini più piccoli agli adolescenti. Per tutte le fasce di età è previsto un periodo di adattamento naturale alle nuove fatiche dell’anno scolastico più o meno variabile.

Scuola dell’ infanzia e scuola primaria: per il bambino è la prima occasione in cui vi è una lontananza da casa propria con una certa continuità. Dopo i primi giorni di scuola ansie e capricci dovrebbero scomparire, per fare posto a sentimenti più positivi di curiosità, scoperta e buon adattamento.

In questo caso il ruolo di supporto da parte del genitore è fondamentale, poiché spesso la vera apprensione è più del genitore che non del figlio e quando è la figura di riferimento stessa che si trova in una condizione di preoccupazione più o meno conscia ( che possono far capo anche a proprie angosce primarie irrisolte), questo stato mentale potrebbe essere trasmesso più o meno indirettamente al proprio figlio suscitando uno stato emotivo importante e di difficile gestione.

Se nel bambino tale condizione di disagio emotivo dovesse permanere non si parlerà più di ansia da rientro, bensì di ansia da separazione. L’ansia da separazione, come affermato dalla psicanalista Margater Mahler è uno stadio normale di vita che si sviluppa intorno agli otto mesi, una volta che il bambino comprende che i genitori non scompaiono quando sono fuori dalla portata della suo campo visivo.

L’ansia da separazione raggiunge il suo apice intorno ai 10-18 mesi di età per poi abbassarsi gradualmente. Esistono casi in cui ciò non accade e in cui il bambino manifesta una forma inappropriata ed eccessiva di paura e malessere al momento di separarsi da casa o da una specifica figura di riferimento in momenti e fasi di sviluppo successive, tra cui gli esordi scolastici.

L’ansia espressa, in questo caso, è classificata come atipica rispetto al livello di sviluppo atteso e all’età del soggetto. La gravità dei sintomi varia dal disagio preventivo a veri e propri attacchi di ansia al momento (o anche solo al pensiero) della separazione, causando al bambino un disagio significativo o una compromissione del funzionamento sociale, scolastico o di altre aree importanti (DSM V). Per dare qualche spunto utile di osservazione a genitori e insegnanti si legga l’elenco dei sintomi dell’ansia da separazione al punto successivo.

Scuola secondaria di primo grado: è la fase della preadolescenza. Se prima potevano capitare momenti di condivisione con il bambino dei vissuti e degli stati emotivi, ora vi è una ricerca, da parte dello stesso, della prima autonomia e indipendenza e ciò può portare ad una chiusura in se stessi. In questa fase, nel bambino che manifesta una difficoltà di ripresa scolastica si può riscontare una sorta di atteggiamento oppositivo: il bambino esprime un’ aggressività passiva che si può esplicitare nel rifiuto a preparare la cartella o nella preparazione errata della stessa o nel rifiuto dei compiti scolastici.

Scuola secondaria di secondo grado: il passaggio alle scuole superiori è l’inizio di un nuovo percorso, in cui il ragazzo dovrà affrontare diverse sfide. Tutto ciò coincide proprio con il passaggio alla fase adolescenziale, momento fondamentale nella costruzione della propria identità, perché il bambino lascia lo spazio al futuro adulto. Nell’adolescenza si notano quattro tipi di cambiamenti:

  • La completa maturazione fisica.
  • Il raggiungimento della maturità sessuale.
  • L’acquisizione dello stato di adulto.
  • Il conseguimento del pieno sviluppo cognitivo

Tutti questi aspetti possono comportare una grande pressione e senso di responsabilità per il ragazzo e ciò può creare un possibile stato di ansia.

HO MAL DI PANCIA: COME RICONOSCERE SEGNI E SINTOMI DI DISAGIO

I disagi che possono derivare da una condizione di ansia da ripresa sono diversificati. Possono manifestarsi cambiamenti nel ritmo sonno veglia, con difficoltà di addormentamento, incubi notturni, capricci dopo il risveglio mattutino o il tentativo di allungare il tempo di permanenza in casa.

Un’ ulteriore conseguenza dell’ansia da ripresa possono essere i classi sintomi “psicosomatici” in cui il disagio, non correttamente mentalizzato e razionalizzato dal minore prende una via di espressione che si traduce in una forma di disagio/malessere corporeo , ad esempio i frequenti mal di pancia, mal di testa e simili che spesso non ha origine medica, ma è una forma di somatizzazione.

E’ frequente che segni e sintomi si manifestino per un nutrito gruppo di ragazzi di diverse età al momento della riresa scolastica a settembre ma dovrebbero avere un decorso limitato nel tempo, con una spontanea e graduale risoluzione successiva. Se invece questi problemi dovessero perdurare sarebbe bene parlarne con gli insegnanti e consultare un esperto dell’eà evolutiva.

Nel caso specifico invece dell’ansia da separazione di cui sopra i sintomi a cui prestare maggiore attenzione da parte delle figure educative si riassumono facilmente in poche batture ( Manuale Statistico Diagnostico dei disturbi Mentali DSM V):

  • Ricorrente ed eccessivo disagio quando si prevede o si sperimenta la separazione da casa o dalle principali figure di attaccamento;
  • Persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo alla perdita delle figure di attaccamento, o alla possibilità che accada loro qualcosa di dannoso, come malattie, ferite, catastrofi o morte;
  • Persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo al fatto che un evento imprevisto comporti separazione dalla principale figura di attaccamento (perdersi, essere rapito, avere un incidente, ammalarsi);
  • Persistente riluttanza o rifiuto di uscire di casa per andare a scuola per paura della separazione.
  • Persistente ed eccessiva paura di, o riluttanza a, stare da soli o senza le principali figure di attaccamento a casa o in altri ambienti;
  • Persistente riluttanza o rifiuto di dormire fuori casa o di andare a dormire senza avere vicino una delle principali figure di attaccamento;
  • Ripetuti incubi che implicano il tema della separazione;
  • Ripetute lamentele di sintomi fisici (mal di testa, dolori di stomaco, nausea, vomito) quando si verifica o si prevede la separazione dalle principali figure di attaccamento;

Inoltre Il rifiuto scolastico potrebbe originare da problemi specifici non confidati che, con il ritorno a scuola, potrebbero riaffiorare. Il bullismo, ad esempio è una forma di violenza psicologica e talvolta fisica che può comportare importanti conseguenze sul piano emotivo, mentale e comportamentale.

Le vittime possono manifestare problematiche alimentari e fisiche, aspetti che rappresentano il forte stress cui sono soggette, sintomi spesso confondibili con segnali analoghi allo “stress da rientro” o “ansia da separazione” Inoltre, il loro interesse per la scuola può diminuire e, nel lungo termine, può portare ad abbandono prematuro del percorso formativo.

Per concludere è fondamentale saper cogliere preventivamente i segnali di disagio, non amplificarli, ma accoglierli e inquadrali corettamente. Se dovessero presentarsi evidenti difficoltà legate alla scuola, come bruschi cali di rendimento blocco o rifiuto o forte demotivazione, è necessario intervenire. Esistono diversi strumenti utili e diversificati, da un semplice attività di aiuto compiti con personale qualificato a percorsi riabilitativi e di potenziamento individuale o di gruppi di piccole dimensioni. Analizzare bene la situazione e i diversi fattori alla base di problematiche complesse, è fondamentale per una maggiore comprensione della situazione.

17 Set 2019

É possibile rendere l’ansia propria alleata?

É possibile rendere l’ansia propria alleata?
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Tutti noi nel corso della nostra vita abbiamo modo di sperimentare l’ansia, con frequenza ed intensità diverse che variano in base alle persone ed alle situazioni.

Siamo abituati a considerare l’ansia in termini negativi, come un’emozione che provoca disagio e che compromette il nostro benessere. In realtà, però, l’ansia può essere un’importante risorsa perché produce un’attivazione sia fisica che mentale che può portarci a svolgere al meglio determinati compiti o attività.

Pensate, ad esempio, ad una situazione valutativa come può essere un esame, un colloquio di lavoro, una prestazione sportiva, il fare determinate cose alla presenza di altre persone. Un po’ d’ansia ci permette di essere più vigili ed attenti a tutti i segnali potenzialmente importanti, di elaborare al meglio le varie informazioni, di comprendere quali sono le strategie più adatte per affrontare la situazione e di adattarci al cambiare delle circostanze.

L’ansia diventa problematica nel momento in cui raggiunge livelli eccessivamente intensi e ci impedisce di gestire determinate situazioni provocando un blocco nel pensiero e/o nell’azione.

Per evitare che l’ansia diventi troppo forte, patologica e che da un’importante risorsa si trasformi in un grande limite è possibile tenere a mente alcuni accorgimenti che servono a scopo preventivo:

  • Accettare l’ansia. L’ansia è inevitabile in determinate situazioni e cercare di eliminarla completamente sarebbe fallimentare ed inutile. Anzi, a volte più si cerca di allontanarla e più questa aumenta. Non si può pensare di poter eliminare completamente l’ansia dalla propria vita, ma si può pensare di gestirla efficacemente in modo che diventi un’alleata piuttosto che una nemica.
  • Affrontare sempre le situazioni che provocano un po’ d’ansia e di disagio. Molto spesso si può avere la tendenza ad evitare le circostanze che mettono un po’ in difficoltà e che non sono indispensabili. Qualche esempio? Vorresti andare in nuovo negozio o a visitare una nuova città o fare una strada diversa o qualcosa di nuovo, ma il pensiero di fare queste cose ti provoca un po’ di agitazione che sei in grado di controllare, ma comunque rinunci perché non si tratta di cose che per te sono necessarie. In questo modo, però, limiti la tua vita, atrofizzi sempre di più le tue risorse e, continuando a comportarti in questo modo, c’è il rischio che il numero delle situazioni che decidi di non affrontare aumenti sempre di più fino ad arrivare a coinvolgere anche quelle che, invece, per te sono irrinunciabili.
  • Sviluppare le giuste abilità. A volte l’ansia può essere legata anche al fatto che non si possiedono adeguate capacità per affrontare al meglio la situazione. Ad esempio, se hai difficoltà a gestire determinati problemi lavorativi con i colleghi anche perchè non hai delle competenze comunicative ottimali, è possibile che ogni volta che ti trovi in tali circostanze la tua ansia aumenti sempre di più. Lavorare sullo sviluppo di tali abilità potrebbe aiutarti a contenere l’ansia, oltre che a migliorare altri aspetti della tua vita.
  • Organizzarsi. Se si affrontano situazioni complesse che già provocano ansia senza essere adeguatamente preparati e senza aver pianificato alcuna strategia, è possibile che la propria ansia aumenti ancora di più. Pensate, ad esempio al dover affrontare la preparazione di un esame o un compito lavorativo completamente nuovo senza essersi informati, senza aver fatto un programma e senza aver valutato delle strategie da utilizzare.
  • Chiedere aiuto quando necessario. Se la tua ansia sta raggiungendo dei livelli che ti sembrano troppo elevati o se è presente in moltissime situazioni o se, ancora, è lieve ma comunque non riesci a gestirla non esitare a chiedere l’aiuto di un professionista per poter individuare insieme le strategie più adatte a te.
17 Set 2019

Cos’è l’Employee Engagement?

Cos’è l’Employee Engagement?

L’Employee Engagement è la misura del grado di coinvolgimento dei dipendenti all’interno della sfera lavorativa che influenza direttamente la motivazione nel contribuire al raggiungimento degli obiettivi aziendali.

L’Employee Engagement aumenta quanto più le persone si sentono parte attiva della vita aziendale e ne comprendono gli obiettivi e le motivazioni. Parallelamente il coinvolgimento aumenta con il raggiungimento di un equilibrio tra sfera professionale e privata.
Questa situazione si traduce in una migliore performance professionale e in un aumento di produttività: secondo uno studio di PwC, i dipendenti di imprese che hanno sviluppato l’employee engagement mettono il 57% in più di impegno nella loro attività rispetto agli altri, e sono per l’87% meno propensi a cercare nuove opportunità di carriera in altre aziende. L’Employee Engagement non influenza solamente le performance ma ha effetti positivi anche sulla customer satisfaction, le performance di Corporate Responsibility e il ROI, si incrementa la capacità di innovazione e di adattamento ai cambiamenti e diminuisce il turn over.
Nelle aziende che hanno lavorato sulla Employee Engagement si sono registrate anche delle riduzioni a livello di assenteismo dei dipendenti: un esempio è rappresentato da Luxottica, una delle prime realtà italiane ad aver attuato politiche di engagement che ha un tasso di assenza che negli ultimi anni è diminuito passando dal 6 al 4%.

Il successo di un’azienda, le sue performance di vendita, la qualità dei suoi servizi e la sua immagine dipendono non solo dalla validità dei suoi manager e dalla bontà delle strategie delineate ma anche dall’engagement dei dipendenti. L’employee engagement non solo ha riflessi sul clima di lavoro e la produttività dei singoli ma si riverbera anche indirettamente nella capacità dell’azienda di innovare e nella customer satisfaction. Il collaboratore ingaggiato è più realizzato dal punto di vista lavorativo e più propenso a contribuire in modo propositivo ai processi innovativi. Inoltre, è stimolato a trasmettere al cliente i valori aziendali, cercando di soddisfare al meglio le sue necessità.

Cosa chiede un dipendente per essere coinvolto?

Trasparenza sugli obiettivi e sulla mission aziendale, coerenza fra le strategie sviluppate e le attività implementate, possibilità di comunicazione a diversi livelli, uguaglianza di trattamento economico e di genere sono alcuni degli elementi che incidono sui livelli di soddisfazione dei dipendenti. Molta importanza hanno poi le opportunità di confronto sullo sviluppo di carriera e di formazione offerte.

Per rispondere a questa richiesta di coinvolgimento, l’azienda deve investire in termini di ascolto e di confronto, per arrivare a captare i bisogni dei collaboratori e tradurli in modalità organizzative e incentivi che soddisfino le richieste.

17 Set 2019

Valutazione Stress-correlato

Valutazione Stress-correlato

Lo stress è una reazione alla pressione psicologica che tutti noi affrontiamo quotidianamente. Non è negativo di per sé.

Esistono diversi tipi di stress, tra i quali:

  • l’eustress, stress positivo e necessario per affrontare gli impegni della giornata;
  • uno stress di tipo negativo, chiamato distress, capace di produrre conseguenze, anche gravi, sia sul piano psicologico che fisico se trascurato.

Quest’ultimo può influire sul rendimento nel lavoro, nei rapporti tra colleghi, nella soddisfazione personale in termini di efficienza ed efficacia della propria operatività,
con conseguenze e costi sia per il lavoratore sia per l’azienda sia per la sanità.

Numerose ricerche (tra le quali: “Ricerca sullo Stress correlato al Lavoro” di Cox T., Griffiths A.E. Rial Gonzales, Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, 2000) hanno infatti rilevato che lo stress lavoro-correlato è causa di varie patologie a diversi livelli:

  • disturbi fisici
    (cardiopatie, mal di schiena, cefalee, disturbi intestinali e gastrici, etc.)
  • disturbi psichici
    (ansia, depressione, difficoltà di concentrazione, ridotte capacità decisionali, etc.)
  • incremento di alcuni comportamenti nocivi
    (maggior consumo di tabacco, etc.)

La valutazione del rischio stress lavoro-correlato va condotta secondo le indicazioni già individuate per altri rischi lavorativi, sulla base del modello previsto dalle direttive europee.

Di fatto non è stata individuata una figura professionale preposta a tale valutazione.
Può farla anche il datore di lavoro stesso, o il consulente del lavoro che già si occupa di quell’azienda o il commercialista.

Le più recenti indicazioni INAIL/ISPESL (l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro ha assunto le funzioni dell’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro, ora soppresso) suggeriscono una metodologia per la valutazione e gestione del rischio di stress lavoro-correlato, che è suddivisa in sei fasi:

  • Fase 1 – Preparazione dell’organizzazione
    In questa fase è necessario, prima di iniziare la valutazione vera e propria, che il Datore di Lavoro coinvolga i dirigenti, i responsabili e tutti i lavoratori. Verrà costituito un gruppo di coordinamento e steso un progetto che avrà come obiettivo la promozione delle informazioni sulla valutazione al fine di coinvolgere tutto il personale.
  • Fase 2 – Identificazione dei fattori di rischio stress – conoscenza dei Management Standards
    I membri del gruppo di coordinamento, insieme a tutti i soggetti coinvolti nel processo
    di valutazione del rischio, devono essere a conoscenza delle procedure valutative e in particolare dei Management Standards, ossia un “set di condizioni” che consente all’azienda di monitorare e gestire i rischi da stress lavoro correlato.
    Tale sistema è validato nel Regno Unito e in Irlanda. In Italia è validato dall’ISPESL.
    I Management Standards fanno riferimento alle sei dimensioni organizzative chiave1:

    1. Carico lavorativo (Domanda)
    2. Autonomia del lavoratore (Controllo)
    3. Supporto dell’azienda (Supporto)
    4. Relazioni con i colleghi (Relazioni)
    5. Ruolo del lavoratore (Ruolo)
    6. Gestione dei cambiamenti organizzativi (Cambiamento).

    I dati raccolti nelle prime due fasi, della metodologia qui brevemente presentata, identificheranno le condizioni di rischio su tre livelli: basso – medio – alto.
    Solo in caso di alto livello si procederà alle fasi successive alla 3.

  • Fase 3 – Raccolta dati – valutazione oggettiva e soggettiva
    La raccolta dati avviene attraverso tecniche di:

    • valutazione oggettiva (informazioni e dati già disponibili all’interno dell’azienda relativi alla struttura dell’azienda e a parametri concreti);
    • valutazione soggettiva dello stress lavoro-correlato da parte dei lavoratori (somministrazione del questionario di valutazione della percezione soggettiva
      dello stress lavoro-correlato modello ISPESL-HSE – questionario indicatore);
  • Fase 4 – Valutazione del rischio – esplorare problemi e sviluppare soluzioni
    Raccolte le informazioni iniziali, il Datore di Lavoro analizzerà i risultati mettendoli anche in relazione con i vari gruppi di lavoratori e discuterà le possibili soluzioni attraverso preferibilmente la creazione di un focus group con il coinvolgimento di un gruppo di lavoratori.
  • Fase 5 – Formalizzazione dei risultati – sviluppare e implementare piano/i d’azione
    In questa fase del processo valutativo si è steso, insieme ai lavoratori, un piano di intervento volto a prevenire o correggere eventuali criticità rilevate nelle precedenti fasi della valutazione.
  • Fase 6 – Monitoraggio e controllo del/i piano/i d’azione e valutazione
    della loro efficacia

    Tale fase prevede che si proceda a monitorare nel tempo ogni provvedimento adottato per verificarne l’efficacia, con particolare riguardo alle criticità emerse nelle fasi precedenti.

Se non si crede che il benessere psicologico di chi lavora possa influire anche sul rendimento e la produttività, fare una valutazione, proporre i questionari, non porterà a nessun vero risultato.

In questa atmosfera confusa e poco “convinta” si inserisce lo Psicologo del lavoro, l’unico consapevole dell’importanza del suo intervento.