29 Gen 2020

ORTORESSIA: L’OSSESSIONE DEL MANGIARE SANO

ORTORESSIA: L’OSSESSIONE DEL MANGIARE SANO

Nel millennio in cui regnano sovrane la cucina macrobiotica e le gallette di riso biologiche, che sostituiscono gli ormai fuori moda panini col prosciutto, non è affatto difficile notare – soprattutto negli ambienti dove la cura del corpo e del benessere divengono il principale obiettivo (palestre, centri benessere, centri estetici ecc..) – una particolare categoria di persone che non si può definire né anoressica, né bulimica. L’ ortoressia è l’ossessione nervosa per il mangiare sano. Detta così potrebbe sembrare una cosa da poco, poiché l’attenzione al mangiare bene e a uno stile di vita salutare è non solo una parte importante della nostra vita, ma anche una parte molto positiva. Purtroppo, però, l’ortoressia è un comportamento alimentare che trasforma l’idea del mangiare sano in un’ossessione patologica, diventando un vero e proprio disturbo alimentare.

Infatti, se portata all’estremo, l’attenzione a una dieta salutare diventa una sorta di fanatismo. Un comportamento estremo che non ha nulla a che fare con il benessere.

Il termine Ortoressia deriva dal greco ‘orthos‘ (sano, corretto) e ‘orexis‘ ( fame, appetito); è stato coniato nel 1997 dal medico nutrizionista britannico Steven Bratman, che per primo diagnosticò questo particolare disturbo alimentare proprio su se stesso. Egli si rese consapevole di alcuni suoi comportamenti estremizzati relativi all’alimentazione che, a causa della loro ripetitività ed anormale rigidità, sfociavano in qualcosa di sicuramente patologico.

Ma chi è l’ortoressico? Molto semplice: colui che è letteralmente ossessionato dalla composizione chimico-biologica degli alimenti, nonché dalla componente calorica in termini soprattutto di grassi e zuccheri, colui che perde ore nei supermercati confrontando spasmodicamente etichette di prodotti alla ricerca disperata di quello ‘più dietetico o più sano’, colui che si priva senza rimorso, ma anzi con grande gratificazione per la propria ‘coerenza’, di cene ed uscite con amici, anche della classica pizza domenicale o del party di compleanno del migliore amico, terrorizzato dalla possibilità di dover mangiare qualcosa che non rientri nel proprio stile alimentare impeccabile.

L’ Ortoressia presenta i seguenti caratteri distintivi:

  • Ruminazione  ossessiva sul cibo. La persona può trascorrere più di 3-4 ore al giorno a pensare a quali cibi scegliere, a come prepararli e consumarli. Vengono solitamente messi in atto comportamenti ossessivi riguardanti la selezione, la ricerca, la preparazione ed il consumo degli alimenti, suddivisibili in varie fasi: 
      • Pianificazione dei pasti con diversi giorni di anticipo, al fine di evitare i cibi ritenuti dannosi (contenenti pesticidi residui o ingredienti geneticamente modificati, oppure ricchi di zucchero o sale);

      • Impiego di una grande quantità di tempo nella ricerca e nell’acquisto degli alimenti a scapito di altre attività;

      • Preparazione del cibo secondo procedure particolari ritenute esenti da rischi per la salute (cottura particolare, utilizzo di un certo tipo di stoviglie)

  • Insoddisfazione affettiva e isolamento sociale causati dalla persistente preoccupazione legata al mantenimento di tali rigide regole alimentari autoimposte.

Una deviazione anche solo minima provoca conseguenze emotive a cascata quali colpa, rabbia, umore depresso fino a somotizzazioni di distrurbi fisici (vomito, indigestioni, nausea).

CONSEGUENZE E RISCHI PER I SOGGETTI ORTORESSICI

Il rischio principale è quello della malnutrizione dovuta spesso all’ingestione di modeste quantità di cibo e, inoltre, vengono strettamente evitati alimenti che potrebbero contenere ingredienti geneticamente modificati ma anche quelli che contengono significative quantità di grassi, zuccheri, sale o altri componenti indesiderati come coloranti o conservanti. Ciò comporta dunque che il fabbisogno energetico quotidiano non venga soddisfatto e che vengano meno i nutrienti essenziali.

I rapporti sociali in genere peggiorano drasticamente fino ad arrivare al completo isolamento. Gli ortoressici infatti non tollerano alcuna critica sull’ossessività impiegata nell’analisi degli alimenti, né tantomeno possono permettersi – pena un grave senso di colpa o un odio profondo verso se stessi – di trasgredire il rigido sistema di regole costruitosi.

Il piacere del cibo – quello che spinge molte persone, in particolare noi italiani, a condividere la tavola – per chi è affetto da tale disturbo diventa un vero e proprio incubo da evitare fino a pesare, e spesso compromettere, gravemente le relazioni sociali, lavorative e affettive, arrivando a deteriorare il funzionamento globale e il benessere dell’individuo.

CURE E RIMEDI PER L’ORTORESSIA

La miglior cura per l’ortoressia è la presa di consapevolezza. L’ortoressico spesso è preda dei suoi bias (pregiudizi) psicologici. Crede che il suo atteggiamento è funzionale alla sua salute e non vede motivo per modificarlo. È poco cosciente dell’aumentata ansia, rigidità e limiti che questo atteggiamento comporta e spesso ha una visione in bianco ed in nero.

A seconda della gravità dell’ortoressia può essere necessario l’aiuto di un medico e/o di uno psicologo, aiutando la persona attraverso un percorso, ad interpretare la dieta e lo stile di vita come qualcosa di flessibile e che al suo interno può avere una proponderanza di cibi sani ma con le dovute eccezioni.

21 Gen 2020

IL CONTRATTO PSICOLOGICO

IL CONTRATTO PSICOLOGICO

Il mondo del lavoro ha subito negli ultimi anni profonde trasformazioni, anche a livello culturale, che hanno modificato gli atteggiamenti, i comportamenti e le aspirazioni legate al lavoro.

È cambiato il concetto di professionalità che ha subito dei cambiamenti non essendo più considerata espressione di capacità specialistiche, ma di capacità più trasversali come il problem solving e l’utilizzo multidisciplinare di conoscenze complesse. Per questi motivi, cambiano anche le richieste che le organizzazioni fanno a tali figure professionali. Un altro cambiamento che va ricordato è la presenza di una molteplicità di tipologie di contratto diverse da quello standard (forme atipiche di contratto): tempo determinato, part-time, incarichi professionali…

In un contesto così mutato si instaurano anche nuovi patti informali fondati su una maggiore flessibilità, mobilità e investimento sulle competenze professionali. Così lo stesso contratto psicologico subisce ripercussioni e cambiamenti. Il contratto psicologico si può definire una “relazione di scambio” tra il lavoratore e l’organizzazione in cui si prendono in considerazione le aspettative e gli obblighi di entrambe le parti. Può essere analizzato facendo riferimento a 2 assi concettuali: il grado di bilanciamento e il livello degli obblighi. Risulta bilanciato se gli obblighi del lavoratore sono considerati dalle parti allo stesso livello, in caso contrario è sbilanciato. Per quanto riguarda il livello degli obblighi indica il grado in cui le parti si sentono obbligate a rispettare gli aspetti del contratto. Il contratto psicologico, nello specifico, è:

“la disposizione interiore ad adempiere una obbligazione di tipo tecnico-giuridico o a vivere la relazione con spirito di collaborazione, di fiducia e con un forte impegno a che le attese, implicite ed esplicite, formali e informali, che sono alla base della relazione trovino una risposta reciprocamente soddisfacente.” (G. Costa – M. Gianechini, Strategia Risorse Umane e Valore)

I temi che solitamente riguardano il contratto psicologico sono:

  • Sviluppo delle capacità e delle conoscenze individuali;
  • La motivazione professionale;
  • La qualità delle relazioni con i superiori e i subordinati;
  • Il ruolo assegnato in azienda;
  • Il codice etico aziendale;
  • La percezione di equità;
  • Il supporto e le aspettative che il lavoratore si attende dall’azienda e viceversa (C. Argyris, Understanding organizational behavior).

Secondo Rousseau il contratto psicologico è quell’ insieme di credenze relative agli obblighi reciproci che si instaurano tra il lavoratore e l’organizzazione. Egli individua un continuum agli estremi del quale si collocano i due ideali di contratto: relazionale e transazionale. Il contratto relazionale si basa su un accordo a lungo termine in cui vengono coinvolti aspetti socio-emotivi quali committment, fedeltà e fiducia. Questo accordo si fonda sulla realtà delle parti e le ricompense non derivano solo dalla prestazione lavorativa, ma anche dalla partecipazione attiva alla vita dell’organizzazione. Il contratto transazionale fa riferimento ad un accordo più a breve termine, caratterizzato da obblighi monetizzabili e specifici e per cui da entrambe le parti è richiesto un coinvolgimento basso.
I recenti cambiamenti delle organizzazioni e del mercato del lavoro, sembrano aver spostato i contratti psicologici verso il polo transazionale. Le organizzazioni infatti, non sono più in grado di offrire sicurezza occupazionale e opportunità di carriera a lungo termine, e puntano sull’ apprendimento e sullo sviluppo professionale. Per questo motivo, le aspettative nei confronti del lavoratore non sono più basate sull’impegno e sulla lealtà ma sulla capacità di dare valore aggiunto all’organizzazione e sulla responsabilità per il proprio sviluppo professionale.

I vantaggi del contratto psicologico

Il primo contratto psicologico è la base per i contratti psicologici che la persona elaborerà con colleghi, superiori, fornitori e clienti durante l’inserimento. Questa è forse la fase più delicata per la buona riuscita del processo poiché la responsabilità è condivisa tra il selezionatore e il responsabile dell’inserimento in azienda.

Una corretta “gestione” del contratto psicologico può portare ai seguenti vantaggi per l’azienda e il lavoratore:

  • Potenziamento dei legami tra individuo e organizzazione;
  • Riduzione dell’incertezza organizzativa;
  • Miglioramento del commitment e dei comportamenti extraruolo.

Se ben gestito, il contratto psicologico può consentire di trasformare i dipendenti in artefici del successo dell’azienda. Se si crea un’organizzazione alla quale tutti si sentono orgogliosi di appartenere, tutti remeranno dalla stessa parte.

Mentre, la violazione del contratto psicologico porta a reazioni di carattere emozionale, quali: disappunto, rabbia e senso di tradimento. Questa violazione può portare all’insoddisfazione dei lavoratori, ad un alto turnover ed alla riduzione del committment.

21 Gen 2020

L’ABUSO DELLE NUOVE TECNOLOGIE PROVOCA IL FENOMENO DEL TECNOSTRESS

L’ABUSO DELLE NUOVE TECNOLOGIE PROVOCA IL FENOMENO DEL TECNOSTRESS

Le nuove tecnologie hanno portato cambiamenti a tutti i livelli: sociale, culturale, economico. Non ci sono dubbi sugli aspetti positivi, sia da un punto di vista relazionale che per quanto riguarda le comunicazioni. Inoltre, riceviamo molte più informazioni e questo ci rende la vita più semplice. Ma un cattivo uso delle tecnologie può causare il cosiddetto tecnostress. Il Tecnostress (o tecnofobia) è una patologia che scaturisce dall’uso eccessivo e simultaneo di quelle informazioni che vengono veicolate dai videoschermi. Il termine Tecnostress venne coniato dallo psicologo americano Craig Broad nel suo libro edito nel 1984 Nella definizione di Broad, il Tecnostress era il disturbo causato dall’incapacità di gestire le moderne tecnologie informatiche (computer e software). Nel 1997 questo concetto fu ripreso e ampliato da due psicologi americani, Larry Rosen e Michelle M. Weil che lo definirono ogni impatto o attitudine negativa, pensieri, comportamenti o disagi fisici e psicologici causati direttamente o indirettamente dalla tecnologia”. Lo studio di Broad, e in seguito quello di Rosen e Wail, è vincolato al periodo in cui è stato concepito. In seguito si sono susseguiti moltissimi cambiamenti (diffusione di Rete Internet e tecnologie digitali) che hanno fornito al termine Tecnostress un nuovo significato. Nella nuova accezione, questa sindrome fa riferimento alla quantità enorme di informazioni in cui gli individui sono immersi e che viene assorbita e gestita quotidianamente comportando un sovraccarico cognitivo: in psicologia tale fenomeno viene chiamato “information overload”. Quando il cervello riceve l’informazione, essa corrisponde a livello psichico ad un input mentale che si traduce in una risposta in termini di attivazioni di connessioni neuronali. Quando gli input sono molti e costanti si verifica uno stato di allarme e stress, ovvero una risposta anomala (psichica e fisica) del corpo che si manifesta con un’intensa produzione di adrenalina. In questa condizione si attivano disturbi a livello cardiocircolatorio, psichico e neurologico.

LE CAUSE E LO SVILUPPO DELLA DIPENDENZA

Le cause che provocano tecnostress possono essere molteplici. In generale, possiamo affermare che hanno a che fare con l’età e la generazione a cui appartiene l’individuo. Tra queste individuiamo:

  • Un’eccessiva richiesta di conoscenza e informazioni.

  • La necessità di essere sempre connessi.

  • Il bisogno di essere sempre raggiungibili.

  • Il rifiuto di usare le tecnologie perché si pensa di non essere capaci di utilizzarle e gestirle.

  • La dipendenza dalle nuove tecnologie. L’incapacità di disconnettersi o di gestire in modo efficiente il tempo del loro utilizzo.

Come si sviluppa tale dipendenza? All’inizio, si sviluppa creando una tolleranza, si ha un bisogno sempre maggiore di rimanere più ore connessi e a contatto con le nuove tecnologie. In una seconda fase si crea una dipendenza. È molto probabile che la persona voglia stare in costante contatto con gli oggetti tecnologici che gli forniscono degli stimoli sensoriali. Per ultimo, si crea una vera e propria sindrome da astinenza. Le persone dipendenti dalla tecnologia, private degli oggetti tecnologici, generalmente provano irrequietezza, ansia, irritabilità e altri sintomi correlati.

COMPORTAMENTO A RISCHIO E SINTOMI DEL TECNOSTRESS

I meccanismi complessi generati dall’innovazione tecnologica hanno comportato dei cambiamenti che aiutano a tracciare dei segni che identificano il rischio Tecnostress:

  • Utilizzo costante dello smartphone anche negli incontri sociali

  • Il soggetto non spegne mai il telefono

  • Sono molto frequenti i risvegli notturni per connettersi alle piattaforme Social

  • Si avverte l’istinto di telefonare anche in luoghi riservati (cinema, biblioteche ecc.)

  • Si scrivono messaggi mentre si è in movimento

  • La tv viene utilizzata principalmente sul tablet o sul cellulare

Accanto a questi comportamenti “a rischio”, si possono delineare una serie di sintomi:
SINTOMI FISICI

  • Aumento della frequenza cardiaca

  • Disturbi cardiocircolatori

  • Disturbi gastrointestinali (colon irritabile, gastrite, reflusso)

  • Dolori muscolo-tensivi

  • Formicolii agli arti

  • Ipertensione

  • Insonnia e alterazioni del ritmo-sonno veglia

  • Mal di testa

  • Stanchezza cronica

  • Sudorazione

  • Dolore cervicale

  • Disturbi ormonali e mestruali nella donna

  • Disturbi della pelle causati dallo stress (psoriasi, dermatiti)


SINTOMI PSICHICI (COMPORTAMENTALI E COGNITIVI)

  • Irritabilità

  • Depressione

  • Alterazioni comportamentali

  • Calo del desiderio sessuale

  • Crisi di pianto

  • Apatia

La sintomatologia ha una componente soggettiva ed ogni persona può sviluppare o meno determinati sintomi.

COME COMBATTERE IL TECNOSTRESS

In casi particolarmente gravi, la terapia psicologica e, in particolare, la terapia di esposizione con prevenzione della risposta (ERP) – una tecnica cognitivo-comportamentale che di solito è utilizzata per trattare le dipendenze – sono vivamente consigliabili. Per i casi più lievi ecco alcuni consigli:

  • Trovare il tempo per effettuare delle conversazioni faccia a faccia.

  • Disconnettersi dalle nuove tecnologie e praticare sport o avere degli hobby.

  • Apprendere e usare solo le tecnologie che sono utili per noi.

  • Stabilire un orario per interagire con le tecnologie.

  • Utilizzare le tecnologie per svolgere dei compiti specifici. Non usatele mai perché siete annoiati o non avete nulla da fare.

La tecnologia ha effetti negativi se utilizzata in modo sbagliato, ma ha migliorato l’essere umano creando un mondo con meno barriere.

15 Gen 2020

Come scrivere un Curriculum Vitae

Come scrivere un Curriculum Vitae

La ricerca di un lavoro non è mai semplice, richiede tempo e anche una buona informazione. Ma che bisogna fare una volta individuata un’offerta di lavoro interessante?

Il primo passo è costruire il proprio curriculum. Va da sé che il curriculum vitae è fondamentale per la ricerca del lavoro. Ma a cosa serve esattamente un curriculum? Serve a dare una fotografia di noi stessi a chi ancora non ci conosce. Il valore di questo strumento sta nella capacità di rivelarsi accattivante e convincente, di mettere in luce i punti di forza del candidato e di rispecchiare il carattere di una particolare offerta.

Come possiamo fare colpo sul selezionatore delle risorse umane o sul datore di lavoro attraverso un unico documento?
La risposta purtroppo non è così semplice. Non esiste infatti, una ricetta universale. Molto dipende da chi avanza la sua candidatura, dall’azienda che la riceve, da ciò che l’interlocutore cerca in un candidato e, in ultimo, naturalmente anche dalle politiche dell’azienda o dell’agenzia incaricata della selezione.

Il curriculum, quindi, come ogni altra forma di comunicazione, ha un obiettivo ben preciso: convertire la curiosità del lettore in un interesse reale per il candidato. Per fare ciò però bisogna costruire il curriculum secondo una logica ben precisa, rispettando allo stesso tempo alcune regole e linee guida.

Dal punto di vista formale il vostro cv dovrà essere:

  • breve, perché il tempo che può dedicarti il lettore è limitato;
  • scorrevole e agevolmente leggibile, in modo da consentire una lettura rapida e senza sforzi;
  • semplice e chiaro, ma non arido;
  • dettagliato, ma senza diventare pignoli;
  • privo di connotati “valutativi”, ma al tempo stesso personale;
  • efficace, riuscendo a dare un’immagine brillante di se stessi;
  • curato dal punto di vista grafico: senza errori, scritto in modo ordinato, piacevole a vedersi.

cv

Cosa inserire nel cv

È importante inserire:

  • Dati anagrafici:nome, cognome, indirizzo, telefono, luogo di nascita, stato civile.
  • Esperienze formative:studi compiuti in ordine cronologico decrescente, partendo dall’esperienza più recente (master o laurea), fino al diploma superiore. Opportuno è annotare l’argomento della tesi di laurea.
  • Esperienze professionali:Occupazione attuale e precedenti: specificando sempre la posizione ricoperta in termini soprattutto di obiettivi e responsabilità, dipendenza, collaboratori etc… e mantenendo un ordine cronologico decrescente. In questa sezione specificate eventuali conoscenze ed esperienze acquisite (che cosa si sa fare e in quali campi, con quali metodologie, trasferibilità ad altri settori, punti di forza e di debolezza).
  • Conoscenza lingue straniere: indicando il livello di padronanza delle specifiche lingue.
  • Conoscenze informatiche:linguaggi di programmazione, capacità di utilizzo dei principali pacchetti software, esperienze specifiche su programmi grafici, gestionali, di database.
  • Interessi extra professionali: attività culturali, hobby…
  • Aspirazioni: progetti per il futuro. Ambizioni, aspirazioni lavorative e motivazioni.

Cosa evitare nel cv

Ecco alcune cosa da non fare assolutamente:

  • Mentire sull’esperienze lavorative;
  • Mentire sulle proprie capacità e abilità professionali;
  • Inviare un curriculum senza foto o con foto poco professionali;
  • Inviare un curriculum pieno di errori e senza una logica nella struttura;
  • Utilizzare font diversi nello stesso documento;
  • Utilizzare font elaborati e difficili da leggere;
  • Utilizzare font di colori differenti;
  • Curriculum colorati o con sfondi di fantasia.

Il Videocurriculum

Ultimamente si sta diffondendo sempre di più un nuovo modo di presentarsi al mondo del lavoro grazie ad una nuova tipologia di curriculum: il videocurriculum. Infatti, mostrarsi in alcuni casi, può essere un elemento molto apprezzato dalle aziende, soprattutto se nel farlo si riesce a dare al selezionatore una veloce idea di chi siamo e soprattutto del nostro carattere.

In Italia molti stanno decidendo di affiancare al c.v. cartaceo una breve presentazione video in cui si parla di sé e delle proprie esperienze professionali.

Nel videocurriculum bisogna infatti dimostrarsi disinvolti e comunicativi, brillanti e simpatici. Ovviamente ci sarà bisogno di fare varie prove prima di riuscire a compiere l’impresa finale, ovvero l’elaborazione di un prodotto che presenti voi e le vostre capacità nel migliore dei modi. Non è difficile, per progettare un videocurriculum è sufficiente munirsi di un cellulare oppure di una videocamera, e soprattutto di un amico paziente che faccia le riprese e all’occorrenza dia dei consigli utili.

Ora, provate anche voi a scrivere il vostro cv nel modo più efficace o a progettare un videocurriculum originale per far colpo sul selezionatore dell’azienda in cui sperate di lavorare.

In bocca al lupo!

15 Gen 2020

LA RESILIENZA

LA RESILIENZA

La resilienza è una qualità che non dovrebbe mai mancare nella vita di ognuno di noi e che tutti dovremmo mettere in pratica. Di cosa si tratta? Il termine deriva dalla fisica e indica la proprietà di alcuni metalli in grado di ritornare alla forma iniziale. Questa parola ha poi contagiato altri ambiti, sino ad arrivare alla psicologia. La resilienza indica quindi la capacità di alcune persone di reagire positivamente alle avversità, accettando anche le situazioni sfavorevoli senza abbattersi. Le persone con un alto livello di resilienza riescono a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e perfino a raggiungere mete importanti. L’individuo resiliente non è colui che ignora o nega le difficoltà, e neanche le minimizza. Al contrario, è colui che riesce ad andare avanti, con una forza rinnovata, con una più approfondita e consapevole conoscenza di sé. L’esposizione alle avversità sembra rafforzare tali persone piuttosto che indebolirle.

La resilienza non è una caratteristica che è presente o assente in un individuo; essa presuppone invece comportamenti, pensieri ed azioni che possono essere appresi da chiunque.

FATTORI INDIVIDULI E SOCIALI CHE FAVORISCONO LA RISPOSTA RESILIENTE

Molte persone sono resilienti di carattere, altre lo diventano nel corso del tempo oppure si sforzano di acquisire questa capacità. Vi sono alcune caratteristiche individuali e sociali che rendono più probabile una risposta resiliente. Tra queste, un ruolo importante è giocato dall’ottimismo, che non deve essere inteso come tentativo di banalizzare o sminuire le avversità ma, al contrario, come la capacità a considerare i problemi una componente inevitabile e ineliminabile della vita.

Un altro fattore è rappresentato dal supporto sociale, dal momento che la resilienza non è solo una capacità individuale, né un tratto di personalità immodificabile. La resilienza è un costrutto multidimensionale che risiede anche nel contesto sociale di appartenenza, nella rete di relazioni intessute prima e dopo l’evento negativo, nel sostegno pratico ed emotivo di cui ognuno dispone.

Anche l’autostima e l’autoefficacia rappresentano delle risorse che rendono più probabile una risposta resiliente, nella misura in cui immunizzano allo stress e all’impatto che questo esercita sul benessere psicofisico. Chi ha un senso di valore e significato personale e si attribuisce un certo grado di controllo sugli eventi esterni, in base alla convinzione di disporre delle risorse necessarie per affrontarli, sarà più verosimilmente un individuo resiliente.

IL CAMMINO VERSO LA RESILIENZA

Innanzitutto dobbiamo avere presente un aspetto: la resilienza è ordinaria, non straordinaria, ossia tutti possiamo svilupparla. Essere resilienti non significa assolutamente essere “immuni” al dolore, all’angoscia e alle preoccupazioni, anzi. Il dolore emotivo deve essere accettato e compreso. La resilienza richiede “allenamento” e va praticata tutti i giorni. Prima di tutto mostrandosi flessibili e mai rigidi, imparando ad adattarsi alle situazioni e alla persone che si hanno di fronte. Il cambiamento è parte della nostra vita e dobbiamo accettarlo perché tutto questo ci farà crescere come persone, imparando a essere più forti. Per diventare persone resilienti cercate di divertirvi in ogni cosa che fate, siate curiosi e sviluppate la vostra autostima. Cercate di “sentire” in modo totalizzante le vostre emozioni, vivendole completamente e senza reprimerle. Allo stesso modo cercate sempre di mettervi nei panni degli altri, coltivando l’ empatia.

Come Nietzsche affermava che quello che non ci uccide ci rende più forti.

08 Gen 2020

Il Multitasking a Lavoro

Il Multitasking a Lavoro

Con il termine multitasking, in informatica, si intende la capacità di un software che permette di eseguire più programmi contemporaneamente. Il multitasking umano (human multitasking) è l’attività di un individuo di svolgere e gestire più attività nello stesso momento. Telefonare mentre si scrive un’email, mandare un messaggio mentre si guida, lavorare mentre si ascolta della musica, preparare la presentazione per la prossima riunione con un occhio al messaggio appena ricevuto su WhatsApp, eccetera.

Lo psicologo Guy Winch, a proposito del multitasking esprime il concetto in maniera molto efficace, portando l’esempio di un diagramma a torta: qualunque sia il compito che una persona svolge, occuperà la maggior parte della torta, lasciando poco spazio per altre attività, a meno che si tratti di movimenti automatici, come masticare un chewing-gum o camminare.multi

Mentre per alcuni il multitasking è un segnale di efficienza, sempre più ricerche scientifiche dimostrano che il multitasking può essere dannoso per la concentrazione e conduce ad un netto peggioramento della qualità con cui portiamo a termine i nostri compiti.

Sembra infatti che sviluppare la capacità di avere un’attenzione ampia e divisa su più fronti limiti la capacità di affinare l’attenzione di tipo selettivo. Più nello specifico, il multitasking comporta problemi di attenzione e di accuratezza nel caso i compiti facciano capo a funzioni simili, mentre, in caso contrario, svolgere più compiti nello stesso momento può rappresentare un vantaggio.

Molte volte si pensa che chi è capace di dilettarsi in più cose nello stesso tempo è più intelligente e capace: assolutamente no! La concentrazione è essenziale che sia sempre incentrata su un solo compito per poter ottenere degli ottimi risultati. È importante capire che nel lavoro è fondamentale essere abile in più cose, ma è anche cruciale concentrarsi su ognuna singolarmente, per farle bene.

Secondo diversi studi, i lavoratori che sfruttano il mutitasking durante il lavoro, risultano svolgere le loro mansioni in maniera peggiore. Il motivo è stato ricondotto alle troppe distrazioni. È stato dimostrato come il multitasking comporta una perdita di produttività individuale giornaliera di oltre due ore, a livello aziendale del 40 per cento.

Oggi il multitasking è diventato la norma. Ma come abbiamo visto, in realtà, il multitasking non è sempre l’approccio migliore per ottenere buoni risultati nelle varie cose da fare: spesso è meglio concentrarsi su una cosa alla volta.

Di seguito, sono elencati i vantaggi nell’eliminare il multitasking e nel focalizzarsi su una cosa alla volta, che aiuteranno a migliorare il lavoro e a vivere meglio.

I vantaggi del single-task focus

  1. Il cervello è biologicamente strutturato per pensare a una cosa alla volta: lavorare contro il processo naturale del nostro cervello non è l’ideale per la produttività;
  2. Aumenta la produttività;
  3. Diminuisce la procrastinazione: con il multitasking, in realtà, procrastiniamo e rimandiamo sempre le cose che ci piacciono meno;
  4. Migliora la gestione del tempo e delle deadline: concentrando la nostra attenzione a una singola attività alla volta completeremo i nostri obiettivi più in fretta;
  5. Migliora l’attenzione: dare tutta la nostra attenzione a un compito aiuta a concentrarci, migliorarci e goderci quello che stiamo facendo;
  6. Diminuisce lo stress: tutti i vantaggi espressi precedentemente aiutano a ridurre i livelli di stress a lavoro.

In conclusione, riducendo o eliminando il multitasking riusciamo a goderci meglio la nostra vita. Quante volte prendiamo il telefono per controllare le mail e i social media mentre facciamo colazione, pranzo o cena? In questo modo non notiamo neanche quello che stiamo mangiando o le persone intorno a noi perché siamo troppo presi con le cose da fare per essere multitasking.

Così facendo ci perdiamo tutto il bello di ciò che ci circonda. 

08 Gen 2020

CHE COS’ È IL BODY-SHAMING?

CHE COS’ È IL BODY-SHAMING?

Non sempre il web viene usato per scopi nobili o costruttivi. Questo avviene ad esempio quando si pone in essere una forma di bullismo virtuale detta body shaming. Parliamo di una pratica scorretta di derisione e presa in giro per l’aspetto fisico delle persone. Si tratta letteralmente di giudicare le forme del corpo delle persone, in particolare attraverso il web e i social network.

Il termine deriva dall’inglese shame e come sostantivo vuol dire vergogna, mentre come verbo significa generare vergogna. In italiano possiamo parlare del fenomeno attraverso cui far vergognare qualcuno per il suo corpo.

Ad essere colpite sono le persone con fisici non perfetti, che si sentono additati per non essere su misura per la società in cui vivono. Il body shaming è la pratica denigratoria verso corpi tatuati, verso corpi troppo magri, verso chi ha malattie della pelle, o chi soffre di cellulite. Senza contare l’orientamento sessuale. Insomma la pratica dell’umiliazione non risparmia nessuno.

Le donne in particolare sono colpite da questo fenomeno inaccettabile ed in netta minoranza anche gli uomini.

  • Si vede la cellulite

  • Ma come si veste?

  • È troppo magra

  • È un po’ bruttina 

Questi sono solo una minima parte dei commenti che ogni giorno molte ragazze ricevono e sono costrette a leggere sotto alcune foto. Molti pensano che non arrechino alcun danno, invece anch’essi contribuiscono ad enfatizzare sempre di più il fenomeno del Body Shaming.

EFFETTI SULLE VITTIME DEL BODY SHAMING

I principali effetti del Body Shaming sulle vittime sono: il condizionamento dell’autostima, che provoca una perdita di certezze, sicurezze personali; un aumento degli stati d’ ansia e in casi estremi il rischio che diventi un’ ossessione. Un altro effetto è lo scoraggiamento, la perdita di volontà nel raggiungere un obiettivo, che può essere il mantenimento di una dieta equilibrata per tornare in forma. Le più sensibili a questo argomento sono le adolescenti dai 18 ai 21. Le ragazze più giovani soffrono particolarmente i difetti del proprio corpo, soprattutto se evidenziati dai propri coetanei.

COMBATTERE IL BODY SHAMING

Uno dei problemi più comuni della società di oggi è il continuo paragone con altre persone. Ci confrontiamo in continuazione con persone che si vedono solo ed esclusivamente sui social, senza conoscerle, diventando ancora più cattivi, dando giudizi solo per come si appare in foto. Sorge spontaneo domandarsi: si può sradicare questa brutta abitudine? Si può dire basta al body shaming? Parliamo di un modo di essere così ben saldo nella cultura occidentale che appare quasi un habitué comportamentale normale, quando normale non è. Trattandosi di una pratica virtuale, è proprio dai social che partono numerose campagne delle star in difesa delle vittime di bullismo. Ecco 5 consigli per contrastare il fenomeno ”Body Shaming”:

  1. Ridimensionare il valore del social. La vita reale e’ fatta di relazioni vere e tangibili e tu sei molto piu’ di cio’ che dice la tua bilancia.

  2. Svolgere attività per far pace con il tuo corpo. Nuota, cammina, scegli attivita’ che aumentino la consapevolezza del tuo corpo e della sua utilità.

  3. Considerare l’effetto dell’umore sulla percezione del tuo corpo.

  1. La forma fisica indica la salute non il valore personale. Un corpo sano è un corpo che si alimenta in maniera corretta, che fa attività fisica in quantità adeguate e che si prende cura di sé. Un eccesso o una deprivazione di cibo, inadatta al proprio stile di vita, alla propria età e alla propria altezza rappresenta una minaccia per il tuo benessere e non ha nulla a che fare con il tuo valore personale.

  2. Riconoscere le difficoltà è il primo passo per affrontarle. Se ti senti a disagio con il tuo corpo e questo occupa molto spazio nei tuoi pensieri, limitando la tua libertà, ricordati che ci sono dei professionisti del settore che possono aiutarti a ritrovare un rapporto sano col tuo corpo.

La perfezione a livello fisico non esiste, la vera bellezza sta nell’accettarsi, nel fare delle proprie debolezze un vero e proprio punto di forza.

18 Dic 2019

LA SINDROME DEL NIDO VUOTO

LA SINDROME DEL NIDO VUOTO

Secondo le regole del ciclo della vita, è normale andare via di casa una volta raggiunta una certa età. I figli crescono e, prima o poi, prendono la decisione di intraprendere una nuova strada, in totale autonomia. Nonostante sia un processo che fa parte della vita, il fatto di abbandonare il tetto paterno e materno talvolta può causare nei genitori quella che è conosciuta come “sindrome del nido vuoto”. La sindrome del nido vuoto è un’espressione coniata da psicologi e sociologi americani negli anni ’70 che indica quello stato di tristezza e abbandono che molti genitori, soprattutto la madre, soffrono nel momento in cui i figli vanno via di casa imponendo una decisiva modificazione del nucleo familiare e dell’assetto generazionale. La gioia dell’essere testimoni della realizzazione dell’indipendenza dei propri figli non esclude, infatti, vissuti di perdita e di abbandono venendo a modificarsi quell’assetto che fino ad allora consentiva quel ruolo di accudimento genitoriale su cui tanta parte dell’identità dei genitori si fonda. Questo momento, come molti altri che si producono nel ciclo della vita familiare, potrebbe produrre una crisi nell’equilibrio familiare, visto che le attività quotidiane non verranno più condivise nello stesso modo. Per questo motivo, la famiglia dovrà riorganizzarsi e trovare una nuova stabilità dopo il cambiamento. Non dimenticate che per riuscire a mantenere una relazione bisogna continuare ad alimentarla.

QUANDO LA SINDROME DEL NIDO VUOTO IDENTIFICA STATI DEPRESSIVI CHE VANNO OLTRE LA BENEVOLA NOSTALGIA?

La sindrome del nido vuoto si può dunque definire come linsieme di pensieri e sentimenti negativi e nostalgici provati dai genitori quando i figli se ne vanno da casa; sentimenti che possono comprendere tristezza, la sensazione di incertezza o la perdita del senso della vita. I genitori si ritrovano d’un tratto soli, dopo essersi presi cura dei propri figli per un lungo periodo di tempo. Tuttavia, è normale che questi sentimenti si presentino per un periodo di tempo passeggero. Il problema insorge quando queste sensazioni si protraggono e si solidificano nel tempo, insieme all’incapacità di adattarsi alla nuova situazione familiare. Non è un passaggio semplice perché non si tratta semplicisticamente di “cambiare abitudini”, ma è necessario modificare un assetto identitario – quello di genitore – che non può più fondarsi sull’accudimento e la cura. Per prevenire o smorzare i possibili sintomi, è bene cercare di prepararsi gradualmente, dando sempre più autonomia ai figli, evitando il controllo eccessivo. Bisogna essere presenti, ma senza che si noti, lasciando che affrontino la vita da soli. Inoltre, è importante accettare la situazione, e costruire un nuovo concetto di vita, considerando quest’ultima qualcosa di dinamico che attraversa diverse fasi, così come periodi di crisi. Il fatto che i figli se ne vadano è un processo naturale. La loro partenza per costruirsi una nuova vita rappresenta quindi un nuovo episodio della nostra vita, che all’inizio ci porterà a sentire vuoti e soli, ma che ci farà crescere e andare avanti, e che costituirà un buon momento per riempire la vita di nuove aspettative per il futuro.

Oggi, che i figli vanno via di casa spesso ben oltre la soglia dei trent’anni, questo permette ai genitori di convivere con un figlio ormai pienamente adulto e questo può facilitare la presa di coscienza che “i tempi sono cambiati” e rendere stretta e scomoda la convivenza fra genitori e figli non solo a questi ultimi, ma anche per i genitori che sono costretti a venire a patti con le esigenze di un figlio adulto. D’altro canto la sindrome del nido vuoto può accentuarsi se i figli vanno via di casa con ritardo qualora questo coincida per i genitori con l’inizio della terza età, l’accudimento dei propri genitori molto anziani e tutta una serie di ulteriori passaggi legati al momento del ciclo vitale che possono rendere più faticoso l’adattamento alla nuova situazione.

18 Dic 2019

La retribuzione emotiva in azienda

La retribuzione emotiva in azienda

L’attuale contesto lavorativo risulta essere molto flessibile ed è per questo che il lavoratore, oggi, ha come obiettivo quello di ricercare e mantenere il proprio impiego. È in questo clima particolare, che il lavoratore diventa l’unico responsabile della propria carriera, investendo, quindi, sui vari cambiamenti (transizioni geografiche e di mansioni), che lo porterebbero ad abbandonare il contesto organizzativo per cui lavora.
Uno dei principali obiettivi delle aziende, dunque, è quello di non perdere i suoi “talenti”. Nei contesti aziendali, infatti, sta emergendo una nuova concezione di talenti, che mira a porre l’attenzione sul lavoratore in quanto persona e non più come risorsa produttiva, generando ciò che è stata definita retribuzione emotiva. Lo stipendio emotivo offre diversi benefici. Il principale è quello di motivare i dipendenti, ma permette anche, di “trattenere” i lavoratori talentuosi in azienda.  Il professore di Neuroscienza e Leadership strategica Steven Poelmans afferma che “lo stipendio emotivo è l’insieme di retribuzione non monetaria che il lavoratore riceve dall’impresa per cui lavora e che integra il normale stipendio con formule creative, che si adattano alle necessità dei lavoratori di oggi”.

Con la retribuzione emotiva si va oltre quella che è una mera ricompensa economica, garantendo al lavoratore:

  1. Un ambiente di lavoro accogliente e stimolante;
  2. Un contesto in cui si investa in formazione e acquisizione delle competenze tecniche e trasversali;
  3. Un luogo dove poter coltivare relazioni tra pari e tra colleghi di status differente;
  4. Orari compatibili con la vita privata;
  5. Sviluppare il proprio talento.

Tipologie di stipendio emotivo all’interno di un’azienda

 Le tipologie di stipendio emotivo che vengono considerate basilari per il benessere dei dipendenti e per il buon funzionamento dell’organizzazione sono:

  • Un buon ambiente di lavoro: è fondamentale affinché i lavoratori si sentano a proprio agio e affinché il lavoro di squadra funzioni. Avere in azienda la presenza di psicologi aziendali potrebbe aiutare a risolvere e a gestire i vari problemi.
  • Sviluppo personale e professionale: offrire formazione ai dipendenti in modo che possano continuare ad acquisire conoscenze e garantire competenze è fondamentale.
  • Compatibilità con la vita privata: offrire giorni liberi per fare visite mediche o per presiedere a eventi personali, così come orari di lavoro flessibili, la possibilità di lavorare da casa una volta a settimana o di avere giorni liberi per sbrigare le proprie faccende sono alcune idee che funzionano bene.
  • Avere voce in capitolo nelle decisioni aziendali: poter contare sull’opinione dei dipendenti per prendere decisioni è importante. Sono una parte fondamentale dell’impresa. Senza di loro, nulla funziona. Per questo motivo, dare loro voce in capitolo, ascoltarli e dimostrare loro che sono importanti rappresenta un tipo di stipendio emotivo molto importante.

Ogni lavoratore ha bisogno di un certo stipendio emotivo, non solo per sentirsi apprezzato, ma anche per continuare a crescere, a svilupparsi e a dare il meglio di sé all’azienda. Questo automaticamente, si tradurrà in una serie di successi.

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“Il lavoro più produttivo è quello prodotto da un uomo felice.”  (Victor Pauchet)

11 Dic 2019

IL BENESSERE ORGANIZZATIVO COME ELEMENTO MULTIDIMENSIONALE

IL BENESSERE ORGANIZZATIVO COME ELEMENTO MULTIDIMENSIONALE

Con l’espressione benessere organizzativo (wellness) si intende la capacità di un’organizzazione di promuovere e mantenere il più alto grado di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori in ogni tipo di occupazione. Il benessere organizzativo è il primo elemento che influenza efficacia, efficienza, produttività e sviluppo di una organizzazione. Il concetto di benessere organizzativo si riferisce, quindi, al modo in cui le persone vivono la relazione con l’organizzazione in cui lavorano: tanto più una persona sente di appartenere all’organizzazione – perché ne condivide i valori, le pratiche, i linguaggi – tanto più trova motivazione e significato nel suo lavoro. Fondamentale è l’impegno da parte non solo dei singoli lavoratori, ma soprattutto dell’organizzazione aziendale di prevenire tali disagi e contrasti. Dare una definizione precisa di benessere lavorativo non è così semplice, esso risulta essere combinazione di più elementi al fine di conseguire un comune obiettivo di crescita e produttività.

I fattori che contribuiscono a minare la condizione di benessere negli ambienti e luoghi di lavoro sono principalmente la mancanza di organizzazione e programmazione del lavoro, la fatica, ritmi veloci, l’incertezza relativa al ruolo da svolgere, la mancanza di controllo del proprio lavoro, le richieste superiori alle proprie capacità, la cattiva strutturazione e vivibilità dei luoghi di lavoro; relazioni e comunicazione interpersonale, fattori di igiene del lavoro. Per affrontare tali aspetti negativi ed ottenere performace migliori è fondamentale avere personale di qualità e operare scelte oculate nel mercato del lavoro. Un altro passo importante consiste nel far acquisire al proprio personale un maggior senso di appartenenza alla struttura aziendale, e saper trasmettere le motivazioni giuste. Per comprendere come promuovere il benessere all’interno di un’organizzazione, è fondamentale chiarire anche il significato di empowerment: si tratta di un processo attraverso il quale è possibile liberare il potenziale degli individui, sia personale che professionale. Affinché le aziende siano sempre più competitive e siano capaci di adattare la propria struttura alle situazioni di cambiamento, il contributo dei collaboratori è centrale, ma perché questi si sentano realizzati e generino allo stesso tempo valore per l’impresa, devono poter esprimere in piena libertà il proprio potenziale professionale e personale, assumendosi anche maggiore responsabilità.

Le aziende che desiderano accedere all’immenso potenziale dei propri collaboratori e far sì che lo liberino con fiducia devono garantire un apprendimento continuo costituito da conoscenze non solo legate all’ambito lavorativo nel quale si è posti, ma anche da conoscenze in altri campi, in modo che sia favorita una professionalità trasversale utilissima in caso di un cambiamento radicale all’interno della propria organizzazione.

La mancata realizzazione di una buona cooperazione tra singolo e organizzazione lavorativa può comportare numerosi problemi per entrambe le parti, di carattere economico e di carattere psicosomatico.