23 Lug 2019

Come nasce Facebook?

Come nasce Facebook?

Facebook è il social network più utilizzato al mondo, con oltre due miliardi di iscritti. Fondato nel 2004 da Mark Zuckerberg, ha impiegato pochi anni per diffondersi in tutto il Mondo.

In principio il suo nome era Facemash. In una notte di ottobre del 2003, uno studente di psicologia che ama la programmazione di Harvard, tale Mark Zuckerberg, siede davanti al computer e guardando l’annuario universitario ha un’idea: creare un sito dove caricare tutte le foto degli studenti del college. Chi vi accede può votare la preferita tra due foto che il sistema seleziona casualmente. Nel giro di poche ore Mark riesce ad hackerare i database dei diversi studentati di Harvard e ad estrarre i nomi e le fotografie di tutti gli studenti.

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Nelle prime 4 ore di attività Facemash attirò 450 visitatori e 22.000 click sulle foto. Il sovraccarico di dati mandò in crash i server dell’università e Facemash venne chiuso dai vertici di Harvard pochi giorni dopo: Zuckerberg fu accusato di infrazione della sicurezza e di violazione della privacy degli studenti e venne punito con sei mesi di sospensione. Da qui inizia la storia di Facebook. Il successo ottenuto da Facemash convinse il giovane Mark Zuckerberg a proseguire nell’idea di offrire uno strumento agli studenti di Harvard per socializzare. Nel gennaio del 2004, Zuckerberg registra il dominio thefacebook.com e ha inizio la storia del socila network più visitato al Mondo e che ha cambiato per sempre la storia di Internet

Solitamente al nome Facebook viene associato sempre quelle di Mark Zuckerberg, ma l’attuale CEO dell’azienda non è l’unico fondatore del social network. Fin dall’inizio è stato aiutato da diversi colleghi di Harvard che risultano essere anche tra i co-fondatori della piattaforma: Eduardo Saverin, Andrew McCollum, Dustin Moskovitz e Chris Hughes. Per diventare il social network più utilizzato al Mondo con oltre due miliardi di iscritti Facebook ha subito cambiamenti e trasformazioni, tanto che è quasi banale definirlo solamente un social network.

Nel giugno del 2004 Zuckerberg e McCollum terminati gli studi, si trasferirono nella storica sede di Palo Alto (California) e durante l’anno successivo registrarono ufficialmente il dominio facebook.com

Facebook viene reso disponibile in lingua italiana il 14 Maggio del 2008, ma il suo boom arriva ad Agosto del 2008, quando si registrano su Facebook più di un milione e trecento mila visite.

A Novembre del 2011 sono 21 milioni gli italiani che hanno un account su Facebook, e di questi 13 milioni si collegano ogni giorno (di questi 7,5 milioni da mobile).
L’ultima rilevazione che si ha risale a Maggio 2017, ed i dati parlano di 30 milioni di utenti attivi al mese di cui 24milioni si collegano quotidianamente.

Il cuore del progetto di Zuckerberg è la piattaforma. La timeline permette di avere la storia della propria vita in digitale. Sostituisce l’anteprima delle foto che troviamo oggi su ogni profilo. Inserisce la memoria grazie a un software. E dai primi commenti in rete sembra piacere agli utenti. Ma soprattutto, l’arrivo di applicazioni di ogni natura (fino a oggi erano soprattutto giochi), musica, film, giornali, con la possibilità di vedere in tempo reale non solo che cosa piace, ma anche che cosa ascolta, che cosa legge, e così via, un nostro amico.

Viene spinta l’interazione in tempo reale. E fatto un passo in più verso una trasformazione della rete di cui si parla da tempo. Il web semantico. E cioè il passaggio dalle informazioni cercate con un algoritmo, sul modello di Google, a una ricerca che contempli anche il significato. Lo sviluppo del web sociale rende il concetto di semantico molto legato al significato che le informazioni hanno per la persona che “avvia” la ricerca. Il mondo di Facebook, così come annunciato da Zuckerberg, è un mondo digitale dove vedi il film perchè in quel momento lo sta guardando un tuo amico, magari uno con cui condividi la stessa passione. E’ un informazione piena di valore per l’utente.

Di tanto in tanto ci si chiede se Facebook sia una moda passeggera o qualcosa di più. Nel digitale cambia tutto alla velocità della luce, ma sembra che la risposta sia la seconda. Google ha capito che l’universo esplorato da Zuckerberg non può essere trascurato e, dopo alcuni tentativi, con Google Plus ha lanciato una sfida che ha tutte le caratteristiche per essere seria. Solo che trovare un motivo per uscire da Facebook sta diventando davvero difficile.

17 Lug 2019

Il potere della musica

Il potere della musica

L’importanza e la bellezza della musica sta nel non farci sentire soli, nel condividere emozioni con gli altri, nell’immortalare un evento associandolo ad una canzone. La musica dà piacere, suscita forti passioni, stimola i ricordi, facilita e rafforza i legami sociali e dà luogo ad una forma di comunicazione che va oltre le parole arrivando a far presa sul sistema inconscio.

Ascoltare musica può assolvere a diverse funzioni e il suo contributo varia da persona a persona, dal grado di coinvolgimento che riusciamo a stabilire con ciò che ascoltiamo, dalla nostra sensibilità, dalle nostre aspettative e dalle necessità che, più o meno inconsciamente, cerchiamo di soddisfare attraverso l’ascolto.

Tra le diverse funzioni della musica possiamo evidenziare:

  • Una funzione di tipo “contenitivo”: capita spesso di cercare brani che già conosciamo, il cui ascolto provoca una regolazione emotiva che avviene rievocando esperienze e vissuti già provati in precedenza.
  • A questa si accompagna una funzione “rievocativa” che stimola i ricordi associandoli all’ascolto.
  • Infine una funzione “evasiva”: che consente di allontanarsi momentaneamente dalla realtà e favorisce il realizzarsi dei “sogni ad occhi aperti”.

Se la musica allegra ha il potere di rallegrarci si potrebbe pensare che quando siamo tristi dovremmo voler ascoltare canzoni felici, e invece questo non succede quasi mai. Ascoltare una canzone triste può valere come supporto, l’effetto empatico che si crea con l’ascolto ci fa sentire capiti, ci dà la sensazione di poter condividere quello che ci fa soffrire con qualcuno che ha provato lo stesso dolore. Un messaggio che arriva attraverso la musica risulta rassicurante, non aggressivo, e questo favorisce l’insorgere di un sentimento empatico. I brani malinconici non suscitano solo tristezza ma anche emozioni romantiche, come la commozione, che contrastano un effetto deprimente. La tristezza che ci arriva dall’Arte, in tutte le sue forme, a differenza di quella che può insorgere nella vita quotidiana, non è avvertita come una reale minaccia e viene quindi vissuta in modo molto diverso.

Ma gli effetti della musica si spingono anche molto oltre: partono dal nostro codice genetico, attraversano i nostri pensieri, le nostre emozioni e i nostri corpi, fino ad arrivare al modo in cui ci rapportiamo con gli altri. Ecco alcuni effetti sorprendenti della musica sulla nostra psiche:

  1. Miglioramento del QI verbale e delle abilità visive: I vantaggi di imparare a suonare uno strumento non si limitano all’ambito musicale ma si estendono alle aree della cognizione e della percezione visiva;
  2. L’ascolto attivo migliora l’umore;
  3. La musica ci fa sentire i brividi;
  4. Cantare insieme unisce: Dal momento che la musica è spesso un’attività sociale, cantare o suonare insieme può aiutare le persone ad avvicinarsi. Alcuni studi hanno dimostrato che le persone trovano molto gratificante “sincronizzarsi” tra loro. Ciò aumenta il senso di appartenenza al gruppo e può anche rendere le persone più vicine le une alle altre”;
  5. Vedere volti felici: Sono sufficienti 15 secondi di ascolto di un pezzo musicale per cambiare il nostro modo di giudicare le emozioni sui volti delle altre persone;
  6. I bambini sono nati per ballare: I neonati di appena cinque mesi rispondono ritmicamente alla musica e sembrano trovarla più interessante del linguaggio.

Ma non tutti viviamo la musica allo stesso modo. Una differenza marcata pare esistere tra la fruizione del brano musicale di un profano e di un professionista. Un profano che ascolta musica è appagato dallo stabilire con i suoni che ascolta un’empatia che gli procura coinvolgimento emotivo, in modo rilassato ed immediato. Caratteristiche che vengono meno nell’ascolto di un professionista che, di fronte alla stessa musica, sarà portato ad esaminarne la struttura, le componenti vocali e strumentali, il modo in cui viene eseguita. In questo caso il piacere dell’ascolto arriverà, più che dalla componente emotiva, da una componente tecnica, non più una fruizione passiva ma la valutazione delle competenze di chi ha eseguito il pezzo e la possibilità di riuscire a riprodurlo lui stesso.

10 Lug 2019

Comunicazione aziendale: a cosa serve?

Comunicazione aziendale: a cosa serve?

La comunicazione aziendale è sempre aperta e attiva, e agisce su vari fronti simultaneamente: da un lato sottolinea i principi del marchio e la sua filosofia d’azione, dall’altro informa ed espande la clientela e ne prende in considerazione giudizi ed impressioni.

La comunicazione aziendale non si esaurisce nel solo atto comunicativo in sé per sé, ma comprende gli studi, le ricerche e le statistiche che permettono di selezionare la tecnica comunicativa più efficace.
L’attenzione che oggi ogni grande marchio riserva alla comunicazione aziendale interna ed esterna dimostra quanto sia efficiente e produttivo un tale strumento.
Il fenomeno si sta espandendo a tutti i tipi di aziende: sono sempre di più le piccole e medie imprese che puntano sulla comunicazione, anche sfruttando le enormi potenzialità dei social network come Facebook.
La cura dell’immagine, infatti, è un elemento molto importante per tutte le attività commerciali, anche per quelle che fino ad oggi ne hanno sottovalutato le grandi potenzialità.
Non esiste organizzazione che non debba preoccuparsi della propria immagine e visibilità, questa è la realtà.
Alcune complesse dinamiche, come l’apertura dei mercati internazionali, la maggiore accessibilità alle informazioni e l’aumento progressivo della concorrenza, hanno reso la comunicazione uno strumento indispensabile per rafforzare il proprio marchio e renderlo riconoscibile agli occhi dei consumatori.

Dunque, ecco gli obiettivi che ogni azienda deve porsi da ora in avanti:

– Costruire un’identità e un’immagine positiva
– Mantenere nel tempo l’immagine positiva creata
– Contribuire all’arricchimento dell’identità aziendale
I Principi Strategici della Comunicazione Aziendale

Prima di agire concretamente, però, è importante pianificare una strategia che tenga conto di alcuni elementi imprescindibili. Quali?

Principio di esistenza: una strategia comunicativa deve essere documentata e conosciuta da tutti gli attori coinvolti, interni ed esterni.
Principio di differenziazione: ogni azienda deve avere una personalità esclusiva, un brand forte, perché solo così potrà emergere tra i competitors.
Principio di continuità: una strategia comunicativa deve essere concepita per durare nel tempo. In questo lungo percorso verrà definita e mantenuta un’identità aziendale.
Principio di chiarezza: una strategia comunicativa che si rispetti deve essere semplice e immediata, deve cioè andare dritta al punto, senza meccanismi troppo contorti o addirittura incomprensibili. I messaggi devono essere recepiti correttamente da tutti gli interlocutori.
Principio di realismo: non bisogna fissare obiettivi troppo ambiziosi rispetto ai mezzi di cui si dispone. Piedi per terra sempre e comunque. Per raggiungere grandi mete dobbiamo lavorare con umiltà passo dopo passo, lasciando da parte le manie di grandezza.
Principio di flessibilità: una buona strategia deve essere in grado di adattarsi ai diversi mezzi esistenti, come TV, stampa, radio, Web, Social, e alle diverse forme di comunicazione attuabili, come pubbliche relazioni, promozioni o pubblicità.
Principio di coerenza: ogni strategia di comunicazione deve essere coerente alla mission e alla vision aziendale, se davvero vuole creare un’identità aziendale forte e riconoscibile.
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E che cosa deve comunicare ogni azienda?

– I suoi valori;
– I suoi punti di forza rispetto ai concorrenti;
– L’esclusività dei suoi prodotti/servizi;
– L’efficienza della sua organizzazione;
– La sua attenzione nei confronti dei clienti, della comunità, del territorio e dell’ambiente.

La buona comunicazione aziendale

Molto spesso le esperienze pregresse dei dipendenti, la loro differente preparazione, le diverse abitudini e mentalità,una buona comunicazione aziendale nonché una vera e propria sottostima dell’organizzazione del flusso di informazioni aziendali, rappresentano degli ostacoli ad una buona comunicazione d’impresa.
Un altro errore che spesso viene commesso da chi dirige la comunicazione aziendale, è quello di sottolineare gli eventi positivi e trascurare i dati scoraggianti; il motivo va ricercato nella volontà di non deludere le aspettative dei dirigenti.
Una buona comunicazione aziendale trasmette in modo chiaro la politica dell’impresa e si assicura che questa sia compresa da tutti – dipendenti e clienti – affinché i dipendenti concorrano a raggiungere un obiettivo comune e i clienti possano riconoscere l’identità e la coerenza del marchio ogni volta che vi si affidano.

10 Lug 2019

La metafora della farfalla in fiamme

La metafora della farfalla in fiamme

Il fenomeno della farfalla in fiamme è una metafora che ci parla della dipendenza affettiva e di come a volte siamo attratti da ciò che ci ferisce temendo ciò che può liberarci. In alcuni momenti della vita potremmo sentirci incapaci di uscire da situazioni che ci causano sofferenza, anche se queste ci procurano malessere e oppressione. In questi casi è molto probabile cadere nella dipendenza affettiva. Ed è proprio in questo modo che ci avviciniamo al fenomeno della farfalla in fiamme.

Le farfalle sono fortemente attratte dalla luce emessa da una fiamma, ma più si avvicinano, più la loro sofferenza aumenta. Ma questa sofferenza non impedisce esse di vedere la fiamma come uno stimolo allettante.

Per essere più concreti, proviamo a immaginare quella persona che fa tutto il possibile per recuperare la relazione con l’ex partner. Gli manda dei messaggi, gli telefona, gli compra dei regali, ecc. In pratica, fa tutto ciò che pensa sia necessario affinché quella persona non la abbandoni.

Una probabile conseguenza di questo fenomeno è la distruzione dell’autostima: è uno dei primi “tessuti” che la fiamma inizia a bruciare causando al soggetto la perdita del controllo emotivo e del senso della realtà.

Eccovi ora alcuni accorgimenti per cercare di evitare il fenomeno e reagirvi in modo corretto:

  1. Importanza della conoscenza di sé. Conoscerci ci aiuterà a individuare questi comportamenti e capire perché siamo tentati di seguirli nonostante ci feriscano. Questo è il punto di partenza per eliminarli.
  2. L’autostima. Se riconosciamo il nostro valore, è più facile non cadere in trappola ed aggirare l’ostacolo.
  3. Smettere di idealizzare: A volte vediamo l’altra persona come un essere perfetto, migliore di quello che è effettivamente nella realtà.
  4. Stare da soli non è un male. Recuperare il rapporto con sé stessi è un passo fondamentale.
  5. Abbiate una visione complessiva delle cose. Cercate di avere una prospettiva chiara della situazione mettendovi nei panni dell’altra persona.

Quando riconoscete che state vivendo il fenomeno della farfalla in fiamme, in caso di sofferenza, cercate di approfittare di questo momento per:

  • Lasciar fluire la vostra vita.
  • Ricostruirvi da un punto di vista emotivo.
  • Riconoscere quali sono i vostri limiti e quelli dell’altra persona.
  • Cercare di liberarvi dai problemi attraverso il perdono. La rabbia non rappresenta una soluzione ma in questo caso è solo una scoria relazionale di difficile gestione.
  • Essere empatici.
  • Iniziare a trovare un significato alla vostra vita. Ricostruite un rapporto con voi stessi, siete il punto di partenza migliore.

Il fenomeno della farfalla in fiamme può intrappolarci a volte, ma tutto dipende da noi, siamo in grado di riconoscere il problema e affrontarlo. L’autostima, la dedizione, la conoscenza di sé ci permetteranno di proteggerci contro questa minaccia.

03 Lug 2019

Il Tecnostress

Il Tecnostress

Il termine Tecnostress venne coniato dallo psicologo americano Craig Broad nel suo libro edito nel 1984 da Addison Wesley: “Technostress: the human cost of computer revolution” (“Il costo umano della rivoluzione dei computer”). Lo psicologo faceva riferimento per la prima volta allo stress legato all’uso delle tecnologie e al loro impatto a livello psicologico.
L’utilizzo delle tecnologie informatiche è ormai talmente diffuso, che immaginare la nostra vita quotidiana senza computer o senza Internet sarebbe quasi inverosimile. Allo stesso modo il mondo del lavoro è talmente sempre più connesso all’utilizzo di apparecchiature informatiche, che anche le professioni più tradizionali si avvalgono ormai dell’aiuto delle nuove tecnologie. Ci sono poi delle attività lavorative, che vengono svolte quasi esclusivamente tramite l’utilizzo di attrezzature informatiche. In questi casi un rischio a cui sono sottoposti gli operatori è quello relativo all’enorme flusso di informazioni digitali, che il cervello umano deve processare. Ciò può causare notevoli problemi per la salute e la sicurezza sul lavoro delle persone, che svolgono attività con massiccio utilizzo di: computer, Internet, Email, Software di Istant Messaging (WhatsApp, Messanger; Skype, ecc…).

I tempi indotti dalla tecnologia che evolve troppo rapidamente non si adattano al percorso degli individui, per questo si sviluppa una pressione psicologica caratterizzata da disagio e frustrazione. Già nella definizione di Broad veniva fatto riferimento a determinati sintomi da ricondurre alla sindrome del Tecnostress come ansia, affaticamento mentale, depressione, incubi notturni; in particolare, molte persone erano soggette a frequenti attacchi di rabbia causati dalle difficoltà di utilizzo di computer e software e dalla gestione di guasti o blocchi che interrompevano l’attività lavorativa.

Un’elevata esposizione ai fattori finora elencati può comportare l’insorgenza di fenomeni quali:
-Tecnostress
-Internet dipendenza
-Email addiction

Oggi quello che stressa non è la scarsa performanza delle tecnologie informatiche, che anzi funzionano molto bene, bensì l’eccessivo utilizzo che se ne fa e l’enorme mole di informazioni a cui si è sottoposti. Tutto ciò può provocare notevoli scompensi per la salute:

-Affaticamento mentale, cefalea;
-Ipertensione;
-Insonnia;
-Disturbi muscolo-scheletrici;
-Ansia
-Attacchi di panico
Alterazione percettiva della realtà.
-Tutto ciò produce conseguenze anche a livello lavorativo (ed economico), generando: aumento dell’assenteismo, difficoltà nel lavoro in team, diminuzione della produttività.

 

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Tra le patologie appena elencate l’insonnia e gli attacchi di panico meritano sicuramente un approfondimento.

Per quanto riguarda l’insonnia è stato verificato che, oltre al sovraccarico informativo, che impedisce il rilassamento del cervello prima del sopraggiungere del sonno, anche l’esposizione ai led a “luce blu” degli schermi touch può produrre alterazione del normale ciclo sonno – veglia.

Gli attacchi di panico sono anch’essi un sintomo grave del Tecnostress. Il panico è una paura estremamente forte, che si manifesta in maniera violenta ed improvvisa. Quando il nostro cervello percepisce un pericolo molto grave, il nostro organismo si predispone ad affrontarlo. Una volta passato il pericolo, la fase di allarme o “panico” dovrebbe ritornare sotto controllo riportando la situazione in equilibrio. Quando, invece, il cervello umano è subissato da un elevato numero di informazioni digitali, potrebbe insorgere la sensazione di non riuscire a gestire una tale mole di dati nei tempi richiesti. In questo caso la situazione non ritorna in equilibrio, generando uno stato di allarme costante, da cui possono scaturire gli attacchi di panico.

La gestione delle conseguenze prevede l’attuazione di strategie di prevenzione, formazione e di misure per la gestione del carico sintomatologico. Rimedi validi per il Tecnostress sono quelli che inducono al rilassamento mentale e fisico e all’interruzione, per alcuni porzioni di tempo, del flusso digitale attraverso tecniche mentali (pnl, esercizi di concentrazione), tecniche olistiche (yoga, agopuntura, meditazione), tecniche sportive (sport e passeggiate a contatto con la natura), tecniche rigenerative (alimentazione naturale, uso di piante mediche e officinali, omeopatia, naturopatia). In ambito professionale è importante prevedere una riorganizzazione del lavoro e un’adeguata distribuzione del carico informativo nel rispetto degli orari e degli spazi extra-lavorativi. Una buona strategia dovrà includere anche l’attivazione della richiesta di una maggiore formazione dei lavoratori sulla valutazione del rischio Tecnostress e dei danni connessi ai campi elettromagnetici.

26 Giu 2019

Yoga della risata: che cos’è?

Yoga della risata: che cos’è?

Lo Yoga della Risata è una pratica che nasce in India grazie all’intuizione del Dottor Madan Kataria, un medico indiano che, a seguito degli studi sui benefici della risata, comunicati da Norman Cousins, e quelli di Ekman sulle emozioni, si rende conto che ridere fa davvero benissimo e che si può innescare la risata anche svincolandosi dall’umorismo e dalle barzellette.
Nasce così l’idea dello Yoga della Risata, una pratica di gruppo in cui la risata viene stimolata a livello fisico attraverso dei veri e propri esercizi fisici di risata.
Si inizia con un riscaldamento che sfrutta il contatto visivo – e quindi l’azione dei neuroni specchio, che permettono di attivare le aree motorie legate alla risata facilitando il contagio che avviene se qualcuno del gruppo ha una risata divertente – e che mette in relazione i componenti del gruppo in movimento, invitandoli a battere le mani con un clapping e ad agire la gioia. Sfruttando anche la giocosità e la riconnessione al nostro bambino interiore, che non vede l’ora di attivarsi e divertirsi, di “essere visto”, la risata si trasforma presto da risata autoindotta a risata spontanea ed autentica.
Al centro della pratica c’è la cosiddetta meditazione della risata, il cuore della sessione, e il momento in cui si ride liberamente e incondizionatamente, non più legati agli esercizi fisici, ma fluendo nella risata.
E poi l’incontro si chiude con una fase di rilassamento – che può essere uno Yoga Nidra, un Humming o una danza di radicamento, chiamata Grounding Dance – utilissima per rimettere in equilibrio il sistema e permettergli di giovare al massimo di tutta l’energia e la produzione biochimica prodotta nei dieci e più minuti di risata.
E’ un metodo efficace per ridere senza motivo, facendo emergere la gioia in chi lo pratica e quindi una felicità assoluta che non ha bisogno di stimoli esterni.
L’idea di fondo è quella rivoluzionaria di potersi concedere una risata anche quando non hai voglia, per fare bene al corpo, alla mente e allo spirito. Si parte dal principio che se immagini un’emozione, la produci attivamente e fai credere alla mente che stiamo bene e che ci stiamo divertendo.

PERCHÉ FUNZIONA LO YOGA DELLA RISATA?
La pratica si basa sugli studi scientifici di Paul Ekman, che testimoniano che il nostro corpo non distingue la differenza tra risata spontanea e risata autoindotta: entrambi mandano lo stesso segnale al cervello e in particolare all’amigdala (la parte più antica del nostro cervello, allenata a riconoscere cosa è familiare e quindi sicuro, e cosa non è conosciuto e quindi potenzialmente pericoloso) attraverso gli impulsi neuronali legati ai nostri muscoli, e attivano una produzione biochimica molto intensa, che noi chiamiamo joy cocktail: endorfine, i nostri antidolorifici naturali e le sostanze che ci generano uno stato di gioia ed euforia, serotonina, uno dei nostri antidepressivi naturali, autoprodotto, e l‘ abbassamento di cortisolo, ormone dello stress, con un conseguente aumento delle difese immunitarie. Tutto questo se si pratica la risata per almeno 10/15 minuti in maniera continuata, che è l’obiettivo della parte centrale di una sessione tipo di Yoga della Risata, la cosiddetta meditazione della risata.

DOVE SI PRATICA LO YOGA DELLA RISATA E QUALI SONO LE APPLICAZIONI?
Lo Yoga della risata nasce nel 1995 ed è diffuso in tutto il mondo in oltre 100 stati e in ogni continente. Si pratica principalmente nei Club della Risata, spazi gratuiti dove si è guidati da un leader, da un conduttore, e dove si ride in gruppo attraverso le fasi di una tipica sessione di Yoga della Risata.
Esso ha anche moltissime altre applicazioni e si può praticare dovunque ci sia un gruppo attraverso dei progetti: aziende, per gestire lo stress e i conflitti e fare team building, anziani e case di riposo, bambini e scuole, ospedali, disabilità, Alzheimer e demenza, carcere, comunità di recupero, genitori e figli, sport e squadre, con animali domestici e davvero moltissimo altro.

I BENEFICI DELLO YOGA DELLA RISATA
Lo Yoga della Risata è in grado di agire a più livelli, portando davvero tantissimi benefici, sul piano fisico, emotivo, mentale e spirituale.
Intanto a livello fisico la risata diaframmatica prolungata produce tantissime meraviglie: abbassa lo stress, il nostro killer numero 1, alla base di moltissime patologie, e permette di aumentare la nostra resilienza e avere più energia per gestire i momenti difficili e prepararci a situazioni che richiedono alta performance.

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La risata diaframmatica potenzia il lavoro polmonare e stimola l’apparato respiratorio, aumentando la nostra capacità polmonare e migliorando notevolmente il nostro umore.

Lo Yoga della Risata migliora il lavoro del cuore e del sistema cardiovascolare, potenziando l’endotelio e lo stato dei vasi sanguigni e con la pratica abbassando la pressione.

Lo Yoga della Risata garantisce salute anche al sistema nervoso, con l’attivazione del sistema nervoso parasimpatico, quello che ci calma, collegato ad un corretto lavoro del diaframma. Migliora anche la gestione del dolore, grazie alla produzione di endorfine.

Lo Yoga della Risata è anche considerato una sorta di antidepressivo naturale, perché aiuta nei casi di ansia e ci permette di attivare sentimenti di felicità.

A livello emotivo, lo Yoga della Risata aiuta a sviluppare una corretta intelligenza emotiva, la nostra capacità di esprimere correttamente le nostre emozioni, di gestirle e di comprendere le emozioni dell’altro.

A livello sociale, lo Yoga della Risata migliora la connessione tra le persone, perché è la nostra parte profonda che ride con l’altro, e si migliorano cooperazione e comunicazione, rendendoci più uniti e solidali, più inclini a sentimenti di cura e condivisione

A livello di pensieri, ridere fa bene quindi alla salute mentale e rompe il ciclo della negatività psicologica, aiutandoci anche a relativizzare i pensieri negativi e a focalizzarci sul positivo, anche grazie ad affermazioni e ripetizioni di frasi positive, come “Tutto andrà bene”.

A livello spirituale, lo Yoga della Risata è potente perché attiva il cosiddetto “spirito interiore della risata”, un’inclinazione al sentire di cuore, a sentire l’altro come nostro prossimo, a praticare apprezzamento, gratitudine, gentilezza, generosità, perdono.

16 Giu 2019

L’Outdoor Training

L’Outdoor Training

L’Outdoor Training è una metodologia di formazione esperienziale che va oltre una concezione strumentale dell’apprendimento, non più finalizzato alla carriera e al successo, ma all’individuo nella sua totalità affinché questi possa realizzare tutte le proprie potenzialità e quindi divenire attore sociale. La nuova formazione tende, infatti, a superare la vecchia concezione di costruire profili professionali specifici poiché intende permettere l’acquisizione di competenze, attraverso itinerari diversificati, utilizzabili in molteplici contesti.
Il fattore discriminante della nuova metodologia, pertanto, non si fonda su elementi quantitativi – maggior numero di conoscenze o competenze possedute – quanto piuttosto su aspetti qualitativi – migliore gestione delle conoscenze o competenze possedute. Di fatto, gli elementi che caratterizzano l’Outdoor Training sono sintetizzabili nei seguenti punti:
– La sperimentazione attiva e l’esperienza rappresentano la dimensione fondante l’apprendimento e la costruzione della competenza;
– L’osservazione e la riflessione che consistono in contesti spazio-temporali creati per ripensare all’esperienza appresa affinché si possa originare quel processo definito ‘apprendere ad apprendere’ e dunque si possa acquisire consapevolezza della formazione avvenuta;
– La generalizzazione che implica la possibilità di trasferire gli apprendimenti verificatisi in contesti diversi rispetto a quelli in cui si è prodotta la formazione.

In sintesi, l’Outdoor Training, a differenza delle modalità formative a bassa distanza analogica, si caratterizza per l’attivazione di esperienze che sono analoghe a ciò che si deve apprendere. Questo, inevitabilmente implica la presenza di un trainer che deve essere in possesso di specifiche competenze e soprattutto che sia in grado di gestire situazioni relazionali, dinamiche di gruppo, circostanze emotivamente impegnative e che sia capace di cogliere e sviluppare le potenzialità del singolo individuo e del team verso cui è rivolto il proprio intervento.

In Italia l’Outdoor Training è riconosciuto come metodologia valida per la formazione aziendale. Esso gode di tutte le ricerche che dagli anni ’40 – anni della sua prima applicazione per opera del pedagogista tedesco Kurt Hahn – a oggi sono state prodotte da psicologi e studiosi di “experential learning” o di “learning by doing”. “Apprendere facendo” è infatti la parola d’ordine dell’Outdoor Training che permette di migliorare non solo le competenze tecniche o di business nei lavoratori, ma anche le loro competenze interpersonali e sociali. Il fine didattico della formazione Outdoor è sviluppare determinati comportamenti e competenze nei partecipanti, coinvolgendoli sul piano fisico, cognitivo ed emozionale. In diverse aziende sono state realizzate attività all’aria aperta non solo per quadri e dirigenti ma anche per operai e impiegati, prendendo in prestito l’idea e i materiali da altri contesti come il mondo della natura, dello sport e del gioco, al fine di migliorare:
– le capacità comunicative: dare feedback costruttivi, proporre le proprie idee, parlare in pubblico, costruire rapporti collaborativi con altri;
– le capacità cognitive: risolvere problemi, divenire più creativi, ecc;
– il benessere psicofisico: gestire lo stress, gestire l’ansia, promuovere stili di vita sani, ecc.

L’Outdoor Training si svolge, con una modalità ludica ricreativa, all’aria aperta non solo per consentire uno sviluppo più armonioso dell’individuo con l’ambiente circostante e di cui è parte ma anche per consentire ai partecipanti di incontrarsi e sperimentarsi in diversi ruoli e contesti organizzativi. Anche se apparentemente fa sorridere l’immagine di manager, normalmente pensati con la ventiquattrore e la cravatta, che si lanciano da un paracadute o fanno rafting con gli altri impiegati, il training outdoor permette ai vari individui di uscire dagli schemi predefiniti e di vivere un’esperienza di apprendimento emotivamente coinvolgente per cui più resistente alle forze dell’oblio. A livello del singolo soggetto, infatti, il training outdoor consente:
– Lo sviluppo e la restituzione di abilità e competenze cognitive, culturali, sociali e lavorative;
– Lo sviluppo dell’autostima, attraverso la sperimentazione con successo di identità e ruoli funzionali.

Non si dimentichi come, inoltre, l’apprendimento esperienziale implica dei benefici a livello di gruppo. Così, se è vero che l’individuo si sviluppa sotto l’influenza del suo ambiente, è anche vero che, durante il suo sviluppo, modifica lo stesso ambiente. L’organizzazione aziendale che utilizza l’Outdoor Training come esperienza formativa si arricchisce infatti di:
– Una maggiore conoscenza delle interazioni tra individuo e ambiente interno;
– Una più efficace gestione delle dinamiche di relazione interpersonale attraverso lo sviluppo di un “clima di compartecipazione”.

A fronte dei numerosi benefici generati dalla nuova metodologia è doveroso indicare anche i punti deboli della stessa. Nello specifico, l’Outdoor Training comporta:
– costi elevati;
– tempi lunghi nella messa in atto;
– la difficoltà del trasferimento in azienda di quanto appreso nel corso dell’esercitazione soprattutto se la stessa non è seguita da una puntuale attività di restituzione e riflessione.
Da qui la necessità, per quanto possibile, di svolgere l’Outdoor Training in modo programmato e funzionale alle esigenze aziendali. Diverse sono, infatti, le attività che possono essere organizzate per applicare la metodologia dell’Outdoor Training. Naturalmente esse vengono scelte a seconda della tempistica, della logistica e degli obiettivi che si intendono perseguire. In ogni caso tutte le attività sono precedute dal briefing e sono seguite dal debriefing, in entrambi i casi guidati dai facilitatori. Il briefing è l’incontro volto alla definizione degli aspetti operativi e degli obiettivi di una determinata iniziativa. Il debriefing è invece il momento di riflessione che si verifica dopo aver vissuto l’esperienza outdoor. Secondo il modello di Mitchell, il debriefing si compone di 7 fasi:
1. Introduzione alla spiegazione dell’attività svolta e al lavoro di gruppo;
2. Discussione dei fatti accaduti durante l’attività attraverso le “narrazioni” e le prospettive multiple dei partecipanti;
3. Discussione dei Pensieri/Cognizioni avuti durante lo svolgersi dell’attività;
4. Discussione delle Emozioni provate durante lo svolgersi dell’attività;
5. Discussione degli effetti eventualmente conseguenti all’attività;
6. Informazioni aggiuntive sull’attività svolta, in modo particolare quelle che non sono emerse durante la discussione ma che presumibilmente, in base all’esperienza del facilitatore, possono riguardare ogni gruppo;
7. Conclusione anche con modalità informali tipo cena, aperitivo o altro.

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Nello specifico, le attività che normalmente vengono considerate parte della grande famiglia dell’Outdoor Training possono essere distinte in due grandi categorie: le piccole tecniche e le grandi esperienze. Nelle prime rientrano delle brevi e non troppo intense attivazioni volte a promuovere nei partecipanti la prospettiva di una nuova modalità di apprendimento. Si tratta, in altre parole, di piccole esercitazioni create per alfabetizzare e preparare il gruppo a situazioni più cariche e coinvolgenti, chiamate grandi esperienze. Queste ultime, di fatto, sono una serie di attività progettate ad hoc per far emergere precisi comportamenti che l’organizzazione intende promuovere e potenziare nel gruppo. Molteplici sono le esperienze realizzabili per la formazione aziendale, tra quelle più diffuse ricordiamo:
– La vela. La vita in barca, guidata dal gruppo dei partecipanti che costituisce l’equipaggio e dal trainer tecnico che rappresenta lo skipper, riproduce un’ottima situazione in cui si può misurare la capacità di adattamento psicofisico, lo sviluppo del lavoro di squadra, la tolleranza allo stress, il problem solving e la puntuale definizione dei ruoli e il rispetto delle regole;
– Il rafting. Si tratta di uno sport estremo che permette di sperimentare il lavoro di squadra, il coordinamento del gruppo e l’orientamento all’obiettivo. Il forte impatto emotivo prodotto da tale esperienza serve inoltre ad aggregare il gruppo nelle difficoltà, nella gestione del rischio e dell’incertezza;
– Il free climbing. Implica oltre che il potenziamento di gesti atletici e capacità fisiche anche e soprattutto il tema della fiducia e della responsabilità. Chi arrampica, infatti, si affida al compagno che in quel momento sta facendo da “sicura”, mentre chi è sotto si assume l’incombenza di vigilare sul proprio collega. Inoltre tale sport, comporta anche notevoli capacità di adattamento a situazioni atmosferiche diverse visto che in montagna è possibile fronteggiare caldo, freddo, sole e pioggia;
– L’orienteering. È una disciplina che si avvale di mappe, bussole e walkie talkie al fine di raggiungere una meta finale passando per dei punti nevralgici denominati “lanterne”. Oltre al senso dell’orientamento è facile intuire che tale esercitazione consente al gruppo di sperimentarsi in una situazione nuova e di incertezza che richiede collaborazione, problem solving, gestione delle risorse, raggiungimento degli obiettivi.

12 Giu 2019

L’effetto alone nel marketing

L’effetto alone nel marketing

L’effetto alone fa parte del repertorio classico della psicologia sociale, è un bias cognitivo, un pregiudizio che porta ad un errore di valutazione. L’alone è una sfumatura che percepiamo attorno a una fiamma o a un’altra sorgente luminosa.
Un fenomeno ottico, quindi, dato dall’impressione che la luce illumini un’area maggiore rispetto a quella reale.
E’ la difficoltà a valutare la realtà. Quante volte ci capita di giudicare una persona intelligente soltanto perché è di bell’aspetto? Le star di Hollywood dimostrano di possedere l’effetto alone. Perché spesso sono attraenti e simpatici e supponiamo naturalmente che siano anche intelligenti, amichevoli; insomma viene rimarcato su di loro un buon giudizio. Ma le nostre valutazioni, sono poi così accurate?
Percepiamo in maniera corretta la realtà dei fatti? La maggior parte delle volte questo non succede!
I politici per esempio conoscono molto bene i vantaggi di creare l’effetto alone. Cercano di apparire cordiali, amichevoli, sorridenti, mentre parlano di argomenti che spesso sono privi di sostanza o facendo giri di parole senza rispondere alle domande. Eppure le persone tendono a credere che la loro politica sia buona, perché la persona appare buona.

Il primo studio sull’effetto alone risale al 1920 con un’intuizione dello psicologo americano Edward Thorndike, noto per i suoi contributi alla psicologia dell’educazione, il quale osservò che quando veniva chiesto alle persone di valutare gli altri sulla base di una serie di tratti, una percezione negativa di uno dei tratti influenzava tutti gli altri.

Un inganno della mente quindi, successivamente studiato anche conducendo diversi esperimenti su gruppi di persone che hanno portato a risultati che confermano quanto potente sia questo effetto.
L’effetto alone trova molti esempi anche per quanto riguarda il marketing: è facile infatti che l’immagine di un prodotto o di un brand proveniente da un certo paese possa influenzare (positivamente o negativamente) l’opinione di altri prodotti provenienti da quello stesso paese.

Tra l’altro un effetto duraturo, difficile a morire, che funziona sia in direzione positiva che negativa, e che quando funziona in direzione negativa viene indicato come “devil effect”.
Un giudizio quindi che solo evidenti prove contrarie possono modificare, dato che sia l’effetto alone che l’effetto del diavolo influiscono su di noi senza che ce ne rendiamo conto.

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Pensiamo a quanto ciò possa influenzare i nostri giudizi sia sulle persone sia su tutto ciò che ci circonda: prodotti, canali di comunicazione, organizzazioni, politica: tutto è sottoposto a questo effetto.
Un grande impatto anche sul marketing, dove non è raro trovare “prodotti alone” appositamente lanciati per promuovere le vendite di un intero brand.

Basti pensare a quando, da utenti, approdiamo su un sito di cui ci piace un certo aspetto: è molto probabile che continueremo ad averne un giudizio positivo e torneremo a visitarlo.
Stesso vale per il contrario: un’esperienza negativa riguardo un certo aspetto farà sì che, sebbene nel frattempo quel sito venga migliorato, difficilmente torneremo a visitarlo.

Sempre per quanto riguarda il web marketing, è stato notato che la qualità dei risultati di ricerca interna ad un sito influenza notevolmente il giudizio che hanno gli utenti sulla qualità del marchio e dei suoi prodotti.
Un ragionamento non logico, certo, ma è proprio questo l’effetto alone: passare direttamente dall’impressione di un aspetto al giudizio complessivo.

Cosa di non poco conto, ad esempio, per chi analizza le prestazioni di un sito, in quanto un calo degli utenti potrebbe rispecchiare l’effetto della loro prima impressione negativa su alcuni elementi di progettazione, contenuti o grafica.

La conclusione è che, non potendo essere immuni dall’effetto alone, dovremo sempre farci i conti, sia per considerare i nostri giudizi sia, per chi lavora nel marketing, tenerlo in considerazione

05 Giu 2019

Il ruolo della Gamification nella rivoluzione HR

Il ruolo della Gamification nella rivoluzione HR

Le aziende stanno attraversando un periodo di grandi trasformazioni e cambiamenti. Il modo di vivere e intendere il lavoro sta cambiando. Sul posto di lavoro vengono richieste sempre meno azioni meccaniche e ripetitive e sono necessari piuttosto creatività, coraggio e leadership.

I cambiamenti del mondo del lavoro hanno fatto nascere nuove esigenze, come la flessibilità in entrata e in uscita, la libertà di gestire il proprio orario, un mind setting diverso che punta all’obiettivo e alle soluzioni.

Termini come smart working, employee advocacy, paradigma BYOD (Bring Your own Device – porta il tuo device a lavoro), lavoro da remoto e intrapreneurship hanno fatto la loro prepotente comparsa nelle aziende, già profondamente cambiate dalle nuove tecnologie e dai nuovi modi di organizzare il lavoro.

Ad accelerare questo processo che dà sempre maggiore rilevanza alle soft-skill e alla capacità di imparare rapidamente adattandosi a un contesto mutevole sono diversi fattori.

Ma cos’è la Gamification? Il termine, com’è facile intuire, deriva dalla parola “Game”, cioè gioco, anche associato al semplice divertimento senza scopi particolari. La Gamification tuttavia non è semplicemente questo, non solo: traendo vantaggio dall’interattività concessa dai mezzi moderni ed ovviamente dai principi alla base del concetto stesso di divertimento, la Gamification rappresenta uno strumento estremamente efficace in grado di veicolare messaggi di vario tipo, a seconda delle esigenze, e di indurre a comportamenti attivi da parte dell’utenza, permettendo di raggiungere specifici obiettivi, personali o d’impresa. Al centro di questo approccio va sempre collocato l’utente ed il suo coinvolgimento attivo.
Il mercato videoludico si è fortemente sviluppato negli ultimi anni, con numeri che continuano a crescere senza segnali di cedimento o rallentamento, soprattutto in funzione dei profitti. Quella del videogioco è ormai un’industria enorme, in grado di creare prodotti per molteplici piattaforme, dalle console dedicate ai telefoni cellulari alle TV domestiche.

How-Gamification-Can-Take-Digital-Employee-Engagem

Ma la gamification funziona davvero?
Possiamo davvero ricreare quel legame motivazionale che esiste da oltre trent’anni tra videogioco e videogiocatore in ambito lavorativo? O, in realtà, queste società stanno vivendo una sorta di allucinazione collettiva, e le leve di motivazione e ingaggio possono essere usate solo in un contesto ludico e disinteressato, proprio perché esse stesse rappresentano un momento di evasione e relax?
È davvero possibile trasferire gli sforzi mentali e fisici a cui il videogiocatore è abituato durante le sessioni di gioco all’ambito lavorativo.

Quel mix di concentrazione, attenzione al particolare, coordinamento, strategia, creatività e attitudine al problem solving o al lavoro di squadra?
La risposta è sì, come dimostrato da moltissime case histories.

Case studies nel mondo aziendale
Nel mondo del lavoro la gamification può servire a completare le informazioni che riceviamo dal CV di una persona, permettendoci di avere un riscontro sulla sua tenacia, resilienza, capacità di adattamento, problem solving, gestione del breve-medio-lungo termine, sulla sua capacità di creare strategie e sulla costanza nel perseguirle. Per questa ragione molte aziende scelgono di arricchire i propri processi di recruitment, performance management e talent acquisition con tecniche di engagement e gamification.
Non a caso la neonata scienza della Gamification da 100 milioni di dollari di fatturato attestato nel 2010 ha raggiunto i 2,8 miliardi nel 2016.

Nel Febbraio 2015 MSC crociere ha inaugurato Inner Islands, un progetto digitale che ha portato 8 studenti e giovani laureati a un contratto di stage retribuito presso le sedi in Italia, Francia, Spagna e Germania. A essere rivoluzionaria è la modalità di selezione del nuovo personale, non più attraverso colloqui standard bensì con un grande gioco che funge da tool di recruiting e validazione delle capacità dei candidati.

Un esperimento affascinante e di larga portata sicuramente da citare in questo ambito è la partnership del 2012 di Yammer e Badgeville, che hanno interfacciato le loro due piattaforme: quella di Badgeville che è una “Behaviour Platform” con la quale è possibile introdurre logiche di gamification in contesti aziendali guidando azioni e change behaviour, permette agli utenti di ottenere dei badge, che in seguito all’accordo sono notificabili all’interno del network Yammer, nota piattaforma creata per facilitare la comunicazione e la condivisione all’interno dei team aziendali.

Altro importante esempio nel campo del recruiting viene dall’Ungheria: una soluzione creata da T-System, denominata “I KNOW IT“. Un business game che mette alla prova i candidati in quattro specifiche aree di interesse aziendale: service desk, support/operation, testing e project management. La piattaforma analizza i risultati e fornisce agli aspiranti lavoratori dei feedback utili e, contemporaneamente, sgrava l’azienda dalla lettura di migliaia di CV attraverso un primo screening automatico.
Siamo pronti a scommettere che la Gamification e l’engagement design giocheranno un ruolo di primo piano nella rivoluzione in atto, cambiando il loro mindset e arricchendo gli strumenti di gestione delle risorse umane a disposizione della Direzione del personale.

Un esempio pratico? L’integrazione di una piattaforma di talent assessment con l’ATS aziendale permetterà alle aziende di sfruttare la gamification e incorporarla nei propri processi di ricerca e selezione.

In questo momento storico, tutto ciò che interagisce con l’uomo sta cambiando e il settore HR, essendo la funzione aziendale più vicina alle persone, rappresenta un enorme “touching point” tra l’azienda e coloro che in essa vivono, lavorano e si sviluppano. Un laboratorio dove tutto viene progettato, sperimentato e divulgato ad un ritmo che si fa sempre più veloce e dove le innovazioni diventano sempre più radicali, pervasive e rilevanti per il miglioramento della vita delle persone.

Se sfruttate nel modo corretto le dinamiche di gioco possono davvero aiutarci a migliorare la qualità della vita delle persone (sia come singoli sia come collettività) sotto tantissimi punti di vista.

La gamification è quindi tutt’altro che un gioco: si tratta anzi un’importante risorsa da conoscere meglio e applicare con attenzione.