29 Mag 2019

Emozioni e razionalità: le emozioni sono davvero così irrazionali?

Emozioni e razionalità: le emozioni sono davvero così irrazionali?

Alzi la mano chi non ha mai riflettuto sulle proprie ed altrui emozioni o non si sia mai sentito ostacolato da esse in determinate situazioni. Quando parliamo di emozioni, le abbiniamo immediatamente all’irrazionalità. Gli studi psicologici, tuttavia, dimostrano che esse sono, invece, molto razionali, poiché partono comunque dall’intelletto, derivano dalle funzioni cerebrali, e aiutano, più che ostacolare, l’uomo ad agire e reagire in determinati contesti in modo immediato.

Le emozioni esercitano un’influenza molto forte nella vita quotidiana di ciascuna persona, al punto da influenzare, di conseguenza, il corso delle azioni e le scelte.

Il significato etimologico di ‘emozione’ (dal fr. émotion, der. di émouvoir ‘mettere in moto, eccitare’ •sec. XVII) indica propriamente il movimento, l’impulso che ci porta all’azione. Ogni emozione non fa altro che dare voce ai nostri istinti: l’istinto di conservazione, di preservazione della specie, di difesa, di attacco, ecc.

In psicologia, le emozioni sono spesso definite come uno stato complesso di sentimenti che si traducono in cambiamenti fisici e psicologici, che influenzano il pensiero e il comportamento. L’emotività è associata a una serie di fenomeni psicologici, tra cui il temperamento, la personalità, l’umore e la motivazione.

Non possiamo negare le emozioni, ma solo imparare a identificarle e a canalizzarle, per il nostro equilibrio psicofisico. Se non ascoltate a pieno o assecondate, possono dar vita a disturbi di vario genere, come problematiche di ansia, ecc.

La reazione derivante dal provare un’emozione non è di una sola natura, ma di varie, poiché si tratta di risposte fisiologiche, neurologiche e cognitive.

Le principali teorie psicologiche sulle emozioni.

La teoria di James-Lange. È uno degli esempi più noti di teoria fisiologica delle emozioni. Lo psicologo William James e il fisiologo Carl Lange proposero teorie simili sull’emozione. Entrambi vollero sfidare quella che essi definivano la ‘teoria del senso comune’, secondo cui quando a qualcuno viene chiesto “Perché piangi?” replica: “Perché sono triste”. Questa risposta implica la convinzione che prima vengono le sensazioni, le quali, a loro volta, producono gli aspetti fisiologici ed espressivi dell’emozione. Secondo James e Lange, noi non piangiamo perché siamo tristi, ma ci sentiamo tristi perché piangiamo; non sorridiamo perché siamo felici, ma siamo felici perché sorridiamo, ecc. In sostanza, la reazione emotiva dipende da come vengono interpretate le reazioni fisiche.

La teoria di Cannon-Bard.  Walter Cannon, nel 1927, pubblicò una critica alla teoria James-Lange, convincendo molti psicologi che fosse una teoria insostenibile. Cannon sollevò la questione che l’emozione non è accompagnata da un unico evento fisiologico; lo stato di attivazione del sistema nervoso simpatico è, al contrario, presente in molte e differenti emozioni. Ad esempio, gli stati viscerali che accompagnano la paura e la rabbia sono esattamente gli stessi che sono associati alle sensazioni di freddo e alla febbre. Non sembra, dunque, possibile che le modificazioni fisiologiche negli organi viscerali provochino stati emotivi riconoscibilmente differenziati. Questa ipotesi venne poi ripresa da Philip Bard (1929), che sottolineò il ruolo fondamentale del talamo nello svolgimento dell’esperienza emotiva. Per Cannon e Bard (teoria di Cannon — Bard), gli impulsi nervosi che fanno passare le informazioni sensoriali vengono poi ritrasmessi attraverso il talamo, che riceve questo input verso l’alto della corteccia (provocando un’esperienza emotiva soggettiva) e verso il basso ai muscoli, alle ghiandole e agli organi viscerali (producendo delle modificazioni fisiologiche).

La teoria di Schachter-Singer. Conosciuta anche come la teoria a due fattori di emozione, è un esempio di teoria cognitiva dell’emozione. Questa teoria suggerisce che l’eccitazione fisiologica si verifica prima, e poi l’individuo deve identificare il motivo di questa eccitazione per sperimentare ed etichettarlo come emozione.

Vengono prima i processi cognitivi o quelli emozionali?

Secondo la teoria della valutazione cognitiva, la sequenza degli eventi coinvolge prima uno stimolo, poi un pensiero, per portare all’esperienza simultanea di una risposta fisiologica e dell’emozione. Ad esempio, se incontriamo un serpente nel bosco, immediatamente realizziamo che potremmo essere in pericolo. Ecco che sopraggiunge l’esperienza emotiva, ovvero quella della paura, e le risposte fisiche associate alla reazione di combattimento o fuga. Allo stesso modo, quando ascoltiamo in radio la nostra canzone preferita (stimolo), si attivano immediatamente sia il pensiero relativo al testo e al ritmo di quella canzone che l’attivazione fisiologica del nostro corpo, che vive così l’emozione.

Quali sono le emozioni principali?

Esistono due tipi di emozioni: le emozioni fondamentali e le emozioni complesse.

Le fondamentali sono dette anche ‘emozioni primarie’ poiché si manifestano già nei primi anni di vita dell’uomo e accomunano la specie umana a molte altre specie animali.

Le 6 emozioni primarie sono:

  1. Rabbia: generata dalla frustrazione e si può manifestare attraverso l’aggressività.
  2. Paura: è un’emozione dominata dall’istinto; ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una situazione pericolosa.
  3. Tristezza: si origina a seguito di una perdita o di uno scopo non raggiunto.
  4. Gioia: è un’emozione positiva di chi ritiene soddisfatti i propri desideri.
  5. Sorpresa: si origina da un evento inaspettato, seguìto da paura o gioia.
  6. Disgusto: è caratterizzato da una sensazione di repulsione o evasione di fronte alla possibilità, reale o immaginaria, di entrare in contatto con qualcosa di nocivo, che abbia delle proprietà contaminanti o infestanti.

Le emozioni complesse (secondarie) sono, invece, la combinazione tra emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e l’interazione sociale. Alcune sono: invidia;  allegria; vergogna; ansia; rassegnazione; gelosia; speranza; perdono; offesa; nostalgia; rimorso; delusione.

Emozioni e ragione sono alleate.

La visione che intende ragione ed emozione come forze antagoniste è ormai obsoleta e, possiamo azzardare nel dire, falsa. Gerald L. Clore, professore di Psicologia presso l’Università della Virginia, afferma: <<Piuttosto che pensare all’emozione e alla cognizione come cavalli che corrono in direzioni differenti, dovremmo pensare ad essi come capi di una stessa corda, rafforzati dal loro essere strettamente intrecciati>>.

La verità è dunque che non c’è un confine netto che separa la ragione dall’emozione. Si tratta di due dimensioni dell’essere umano che agiscono sempre insieme. Le emozioni danno luogo a certi pensieri, e i pensieri, a loro volta, fanno nascere determinate emozioni. Tutte le emozioni sono, in un certo senso, “pensate”.

Se consideriamo la razionalità in termini di processo psicologico, è doveroso ammettere che l’uomo non è da definirsi razionale in senso stretto, poiché le sue decisioni sono prese in larga misura sulla base di elementi inconsci, intuitivi, emotivi e strutturati attorno ad euristiche (scorciatoie di pensiero). Non è la razionalità, intesa come ragionamento controllato e logicamente corretto, a guidare la maggior parte delle scelte umane, soprattutto se esse devono essere prese in un tempo limitato, spesso immediato. Nonostante ciò, nella stragrande maggioranza dei casi, le nostre conclusioni sono valide e adattive. Un interessante studio longitudinale (Block & Funder, 1986) ha dimostrato che le persone che fanno maggiore affidamento sulle euristiche sono anche più felici, sane e affermate rispetto a quelle che invece fanno maggiore affidamento sul ragionamento deliberato e logicamente corretto.

Dovremmo, inoltre, dare la giusta rilevanza ai casi in cui una schiacciante emozione determina il comportamento. Questi casi possono essere certamente molto spiacevoli, come un omicidio passionale, ma, fortunatamente, non sono la norma. Quest’ultima è che il comportamento “insegue le emozioni”, come affermano Baumeister et al., 2006. Le azioni sarebbero motivate da sensazioni ed emozioni anticipate.

Si tratta, in sostanza, della ricerca del piacere e della fuga dal dolore come maggiori determinanti del comportamento umano.

Diversi studi dimostrano l’efficacia dell’emozione nella stimolazione del pensiero. L’apprendimento può essere favorito dalle emozioni. Per esempio, far apprendere l’alfabeto ad un bambino con dei giochini è più semplice ed efficace, in quanto il bambino sperimenta gioia attraverso il gioco.

Inoltre, gli stati di felicità favoriscono l’adozione di un punto di vista globale, mentre gli stati di malumore favoriscono l’attenzione per i dettagli. Ad esempio, fare un viaggio di piacere genera gioia e ci porta a vedere tutto molto positivamente, anche gli aspetti più quotidiani; avere un litigio con una persona cara ci porta, invece, a rimuginare sull’accaduto, ripensando ai dettagli della discussione e distogliendo l’attenzione dalle altre attività della giornata.

Tuttavia, anche l’interpretazione cognitiva, al contrario, vincolerebbe il significato dell’emozione, ne indicherebbe l’oggetto. In questo senso, l’intensità di un’emozione o, più generalmente, di uno stato affettivo, sarebbe in funzione dell’analisi cognitiva del contesto. Ad esempio, proviamo rabbia e tristezza quando apprendiamo la notizia di un omicidio, poiché è un atto che va contro il principio morale del diritto alla vita, ma proviamo maggiore rabbia e tristezza se la vittima è un bambino, poiché l’atto è considerato, a livello cognitivo e sociale, più riprovevole.

Possiamo concludere, dunque, che emozioni e razionalità non sono opposte, ma complementari e strettamente interconnesse.

29 Mag 2019

Social media manager: chi è e cosa fa

Social media manager: chi è e cosa fa

Sempre più spesso nell’ultimo periodo si è sentito parlare di social media manager, ovvero quella figura professionale che è rivolta alle aziende, istituzioni e organizzazioni, ma anche a figure pubbliche che si occupano di curare la propria immagine sui social network.
Questa figura professionale opera attraverso i principali social tra i quali YouTube, Facebook, LinkedIn, Twitter, Instagram e tanto altro.
Gli obiettivi in genere sono diversi, ma quelli più noti sono i seguenti ovvero: aumentare le vendite di un prodotto, migliorare la notorietà di una marca oppure l’immagine di una azienda. Spesso si tratta di una persona che, comunque, segue un percorso scolastico e professionale ben definito.
Una gestione efficace delle pagine e dei contenuti condivisi, il coinvolgimento della fanbase e la risoluzione in tempo reale delle eventuali “crisi”, del resto, sono task fondamentali per chi ha intenzione di investire sui social e su una strategia digitale coerente.

Il social media manager possiamo dire che è quella figura professionale che, in qualche modo, rappresenta un’azienda, un’istituzione e ne cura il progetto sui social network.
I canali che utilizza un social media manager sono quindi quelli di un:

– libero professionista
– di un’azienda
– una realtà no profit

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Il lavoro però in genere non è per forza legato a generare profitti in modo diretto, ma più che altro a raggiungere degli obiettivi. Si tratta quindi di un professionista che lavora proprio sui social network che gestisce una o anche più piattaforme, in base a quelle che sono le proprie necessità. Ovviamente trattandosi di una figura professionale a tutti gli effetti, deve essere in possesso di determinati requisiti e quindi deve essere una persona competente, con esperienza e propensione verso il lavoro. Come abbiamo già anticipato, dunque, è una una figura professionale che si rivolge alle organizzazioni, alle aziende, alle situazioni ma anche a figure pubbliche che vogliono in un qualche modo curare la propria immagine sui social network.

Gli obiettivi possono essere davvero tanti, come ad esempio:

– aumentare le vendite di un determinato prodotto o servizio
– aumentare la notorietà di una determinata marca o di una determinata azienda

Detto ciò ci si chiede quali siano effettivamente i suoi compiti e quindi quale può essere il campo di azione. La risposta è piuttosto semplice, ovvero il social media manager si occupa di quelli che sono i profili Social e va a definire un vero e proprio piano editoriale per ogni canale, studiandone e creando i contenuti, ma soltanto dopo aver studiato un target di riferimento e stilato gli obiettivi ben precisi.

Una volta fissati questi ultimi, il social media manager va a studiare un piano specifico per il cliente andando anche ad individuare il social più adatto per raggiungere il suo obiettivo. Soltanto a questo punto sviluppa una strategia specifica e poi va a fissare quindi gli obiettivi, i competitor ed anche il budget. Soltanto in un secondo momento si va ad occupare della gestione operativa dei social, che si può anche organizzare insieme ad altre strutture figure professionali che facciano parte sempre del team. Successivamente deve necessariamente pensare a gestire il piano editoriale, andando a definire gli argomenti i tempi ed anche i formati.

In questa fase coinvolge anche altre figure professionali come il grafico, il copywriter, il montaggio video. Infine c’è una fase che dedicata alla gestione del pubblico e alla discussione con il pubblico, ovvero quella fase in cui la pagina Facebook diventa un vero e proprio canale di customer care.

Chiunque sia convinto che il lavoro del social media manager si limiti a postare contenuti su Facebook, Twitter e simili, e al massimo a rispondere a un paio di commenti, si sbaglia.
Curare i canali social di un’azienda, un ente, un’associazione o qualsiasi altro soggetto pubblico, infatti, significa mettere in gioco non solo conoscenze tecniche (rispondendo a specifiche domande, come: quali sono i tool migliori per la propria strategia digitale, come si calcola il ritorno sopra gli investimenti e come fare per massimizzarlo, quali sono le scelte di contenuto che premiano il coinvolgimento delle community), ma anche una serie di soft skill che hanno a che vedere, per esempio, con le dinamiche delle interazioni umane e i rapporti interpersonali.

Quello dei social media è un mondo in continua trasformazione: cambiano gli strumenti, cambiano gli algoritmi e, a volte, non basta “copiare” dai contenuti più virali del periodo i principi per una strategia social vincente. L’unica cosa che si può fare è rimanere costantemente aggiornati sulle novità del settore e imparare dalla propria stessa presenza in questi ambienti, anche quando ciò significa esporsi al rischio fail.

22 Mag 2019

L’ autostima: cos’è e com’è possibile migliorarla

L’ autostima: cos’è e com’è possibile migliorarla

Sentiamo spesso parlare di autostima e molte persone, professionisti e non, dispensano di frequente consigli sulle strategie per aumentarla. L’autostima, tuttavia, è un costrutto non semplice da descrivere.

Allora, cos’è esattamente l’autostima?

L’autostima può essere definita come “l’ insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di se stesso” (Battistelli, 1994).

A costituire il processo di formazione dell’autostima, vi sono due componenti: il sé reale e il sé ideale.

Il sé reale è una visione oggettiva delle proprie abilità, di quello che si è realmente; il sé ideale corrisponde a come l’individuo vorrebbe essere.

Maggiore sarà la discrepanza tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, minore sarà la stima di se stessi, anche in base alle esperienze vissute e al confronto con gli altri. Per ridurre questa discrepanza, la persona può ridimensionare le proprie aspirazioni, in modo da avvicinare il sé ideale a quello percepito, oppure potrebbe cercare di migliorare il sé reale (Berti, Bombi, 2005).

In base a quali aspetti, nello specifico, un individuo si valuta positivamente o negativamente?

Giudizi altrui, sia diretti che indiretti. Si tratta del cosiddetto ‘specchio sociale‘: tramite le opinioni comunicate da altri significativi, il soggetto si autodefinisce.

Confronto sociale: la persona si valuta confrontandosi con chi lo circonda, traendo una valutazione su se stesso.

Processo di autosservazione: l’ individuo si valuta osservandosi, come se fosse una persona esterna, e riconoscendo le differenze tra se stesso e gli altri.

Ad esempio, Kelly (1955), il padre della Psicologia dei Costrutti Personali, considera ogni persona uno ‘scienziato’ che osserva, interpreta, attribuendo significati alle proprie esperienze, e cerca di predire ogni comportamento o situazione, costruendo una teoria su di sé per facilitare il mantenimento dell’autostima.

Le persone si muovono attraverso dei piani ideali: alcuni sono legati ad aspetti concreti e quotidiani della vita (ad esempio: “studiare in modo costante per laurearsi in corso”), altri a questioni più astratte, da realizzare a lungo termine (ad esempio: “diventare un professionista di successo”).
Esistono, principalmente, due tipi di ideali: gli ideali propriamente detti, ovvero esperienze, concetti e standard di riferimento a cui riferirsi e a cui tendere , e gli ideali negativi, ovvero persone, mete e circostanze (anche simboliche), da cui gli individui cercano di distanziarsi perché le giudicano negativamente.

A volte, le autoanalisi che contribuiscono a definire l’autostima di una persona sono falsate dalle sue distorsioni cognitive, ovvero da pensieri che inficiano la considerazione di sé e che di frequente non corrispondono a realtà (o solo in parte), oppure vengono generalizzati a tutti i contesti, o vengono ingigantiti, o non permettono di apprezzare a pieno i successi.

 

Ma come possiamo accrescere la nostra autostima?

 

Secondo Toro (2010), per accrescere la percezione positiva di sé esistono diverse strategie, quali:

  • l’incremento delle capacità di problem solving, poiché spesso l’autostima è in funzione delle proprie capacità di risolvere i problemi.
  • Lo sviluppo di un dialogo interiore (self – talk) positivo. Ad esempio, ripetere a se stessi (quotidianamente o in caso di necessità): “posso farcela”, “sono in grado”, “anche se non è semplice, ho tutte le capacità per poterlo fare”, migliora la percezione di sé e, di conseguenza, la propria autostima.
  • La ristrutturazione dello stile di attribuzione, tesa a farci raggiungere una maggiore obiettività, grazie alla quale è possibile interpretare situazioni e avvenimenti che non dipendono da noi come semplicemente sfavorevoli.
  • Il miglioramento dell’autocontrollo.
  • La modifica degli standard cognitivi: ponendoci aspettative eccessivamente elevate corriamo il rischio di non essere all’altezza di quelle attese e, quindi, di influenzare negativamente l’autopercezione. E’ necessario, dunque, porsi obiettivi più facilmente raggiungibili, mantenendo il giusto grado di ambizione.
  • Il potenziamento delle abilità comunicative: imparare ad essere assertivi, ad esprimere le proprie opinioni, necessità ed emozioni senza difficoltà, all’interno dei contesti sociali.

Infine, quando parliamo di autostima, non possiamo non fare riferimento al concetto di autoefficacia.

Con il termine ‘autoefficacia’ (Bandura, 2000) si intende la fiducia nelle proprie capacità di escogitare le strategie che ci consentono di affrontare nel modo ottimale qualsiasi evenienza.

La nostra autoefficacia dipende da molte variabili, quali, ad esempio: l’esito positivo di situazioni e contesti problematici affrontati; le esperienze vicarie, cioè quelle vissute indirettamente tramite l’osservazione degli altri che hanno saputo fronteggiare brillantemente situazioni di difficoltà, e lo stato di benessere derivante dall’aver superato prove particolarmente impegnative.

 

 

 

21 Mag 2019

La figura del Navigator

La figura del Navigator

Il navigator è la nuova figura professionale prevista nel decreto del Reddito di Cittadinanza 2019 (RdC) per aiutare i cittadini a trovare un lavoro. Infatti all’interno del pacchetto di misure che regola il reddito di cittadinanza è stata introdotta la figura del “navigator”, o tutor del reddito di cittadinanza. Il suo compito principale è seguire il disoccupato dalla presa in carico nei Centri per l’Impiego fino all’assunzione.

Chi sono e che cosa faranno i navigator?

Il navigator deve facilitare l’incontro tra i beneficiari del programma RdC e i datori di lavoro, i servizi per il lavoro e i servizi di integrazione sociale. Ha dunque il compito di fornire assistenza ai CPI (Centri per l’Impiego) nel seguire i beneficiari del reddito di cittadinanza nella ricerca di una nuova occupazione, e al tempo stesso di controllare che tutte le attività proposte siano svolte nei modi e nei tempi stabiliti.

La prima fase del lavoro di un navigator è quindi prendere in carico l’utente nel Centro per l’Impiego. Tutti coloro che usufruiscono del reddito di cittadinanza devono infatti siglare un “Patto per il Lavoro” con un centro per l’impiego o un’agenzia di lavoro. Il patto stabilisce la disponibilità immediata al lavoro della persona e l’adesione ad un percorso di inserimento lavorativo individuale.

Proprio il navigator si occupa di strutturare i percorsi individuali necessari all’inserimento e al reinserimento nel mercato del lavoro. Il navigator fa un colloquio di orientamento con i singoli candidati, per stabilire un bilancio di esperienze e competenze. Confronta poi il profilo del candidato con la domanda di lavoro locale e nazionale, per individuare le offerte di lavoro più in linea con il candidato.

Il tutor dei Centri per l’Impiego svolge quindi un servizio di orientamento e sostegno nella ricerca di occupazione, spiegando tecniche, pratiche, canali e strumenti di ricerca lavoro. Se in linea con le possibilità del candidato, il navigator propone anche un percorso di informazione e sostegno all’autoimpiego (lavoro autonomo), all’impenditorialità e all’avvio di un’impresa. Da qui il significato di navigator: un professionista che possa indirizzare e guidare il disoccupato verso un nuovo lavoro, trovato o creatob36579863623f8260810818dd318c2c5

Quali sono le competenze del Navigator?

Il bilancio delle competenze può invece evidenziare la necessità di formazione o aggiornamento professionale in ottica di una ricollocazione del candidato sul mercato del lavoro. In questo caso il navigator crea per il beneficiario del reddito di cittadinanza dei percorsi di formazione e riqualificazione, inseriti all’interno di un “Patto di Formazione” stipulato con gli enti di formazione accreditati o con i datori di lavoro.
Un’altra mansione del navigator è quella di controllare e sorvegliare il beneficiario del RdC. Infatti per continuare a ricevere il reddito di cittadinanza bisogna rispettare alcuni obblighi, come la frequenza delle attività di formazione, l’accettazione di una delle prime tre offerte di lavoro congrue, e lo svolgimento di almeno 8 ore settimanali in progetti e lavori socialmente utili per la comunità. Il navigator quindi supporta il beneficiario del reddito di cittadinanza nella ricerca del lavoro e al tempo stesso controlla che si impegni attivamente a seguire il percorso proposto.
A livello pratico, per diventare navigator è richiesta una laurea magistrale in economia, giurisprudenza, sociologia, scienze politiche, psicologia o scienze della formazione. Oltre al requisito della laurea, il navigator sarà uno specialista che avrà conseguito quattro anni di esperienza nel settore delle consulenza per il lavoro.

É inoltre fondamentale che il navigator sappiaRead More

15 Mag 2019

Errare humanum est: un contributo per la gestione delle HR

Errare humanum est: un contributo per la gestione delle HR

Il desiderio principale dell’individuo oggi è la ricerca continua della perfezione.

Nonostante esso cerchi di non cadere negli errori, tende quasi sempre a imbattersi in essi.
L’errore però, non sempre viene tollerato e perdonato soprattutto nei luoghi di lavoro dove molte realtà aziendali hanno valori come la competitività e l’efficientismo, e alcuni sbagli possono limitare il raggiungimento dei loro obiettivi.
Oggi le aziende dovrebbero avere invece un atteggiamento più aperto a fronte della complessità della realtà e cercare di gestire gli errori umani.
“Errare” secondo Karl Popper, filosofo ed epistemologo viennese, significa ricercare la verità. Se l’uomo vuole migliorare se stesso deve essere critico e riuscire ad ammettere gli errori che compie.
Secondo la concezione connessionista, (modello delle scienze cognitive che per spiegare il funzionamento della mente si ispira alla struttura del cervello in quanto costituito da reti neurali) una impresa, l’uomo e le aziende si evolvono grazie agli errori e all’apprendimento che da questi ne deriva.
Si parte dal presupposto che un’azienda perfetta abbia bisogno di sbagliare altrimenti non sarebbe in grado di cambiare. Il cambiamento potrà essere positivo o negativo, sarà utile a essa per migliorarsi senza correre il rischio di rimanere chiusa entro i suoi limiti.
Chi lavora fa errori. Chi lavora molto fa molti errori. Chi non fa errori non lavora (Elmar von Lukowitz, direttore generale Uniroyal).
Sul posto di lavoro è facile sbagliare, soprattutto se il carico è alto. È fondamentale ammettere di avere dei problemi riguardo la consegna di un lavoro, spiegandone i motivi e offrendo una ipotetica via d’uscita.
Ammettere di avere sbagliato mostra un comportamento responsabile nei confronti del problema; bisogna riconoscere l’errore con le persone che si sono danneggiate affrontando la questione a viso aperto.
Si rischia di compiere un errore ancora più grande se dopo aver sbagliato non si è più in grado di lavorare come prima.

In questo modo le esperienze passate possono influire negativamente sul proprio operare e limitare la possibilità di rimettersi in gioco.
Nascondere un errore diventa l’errore stesso che una persona può commettere. Riconoscerlo e mostrarlo invece, incrementa lo sviluppodelle risorse dell’individuo.

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Karl Popper diceva: “L’unico errore che non ha scuse è cercare di nascondere o minimizzare un errore invece di cercare di imparare il più possibile dal medesimo”.

08 Mag 2019

Le persone al centro della trasformazione digitale

Le persone al centro della trasformazione digitale

Per QWERTY si intende semplicemente la sequenza delle lettere dei primi sei tasti della riga superiore della tastiera di ogni pc. Lo schema fu brevettato nel 1864: le coppie di lettere maggiormente utilizzate vennero separate così da evitare che i martelletti delle macchine da scrivere si incastrassero tra loro, costringendo chi scriveva a doverli sbloccare manualmente. Nel 1932 fu presentata una diversa tastiera, che avrebbe consentito di rendere molto più veloce la scrittura ma non venne accettata. Ormai tutti si erano abituati allo schema “qwerty”, perché cambiare?! Solo per rendere più veloce la battitura?! Da allora le tastiere sono rimaste inalterate, tanto “si è sempre fatto così…”. Potremmo tutti scrivere più veloci ma non lo facciamo. Creiamo macchine sempre più sofisticate e potenti ma siamo prigionieri dell’abitudine, anche se palesemente anacronistica.

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Teoricamente questo tipo di approccio in sé potrebbe essere considerato perfino corretto, così come lo è ogni abitudine. Tutti noi normalmente viviamo solo grazie alle nostre abitudini. Il nostro cervello sul piano fisiologico è alla costante ricerca di tutti i modi possibili per economizzare ogni sforzo. L’abitudine è la risposta quotidiana a questa necessità. Non è necessario pensare ogni volta a ciò che dobbiamo fare. La facciamo e basta, perché così abbiamo sempre fatto e ci siamo sempre trovati bene nel fare certe cose invece di altre.

Facciamo un esempio. Ogni mattina, quando dobbiamo andare al lavoro, per guidare l’auto attiviamo il “pilota automatico” dell’abitudine. Facciamo sempre lo stesso percorso senza pensarci. Liberata l’attenzione dal compito di decidere la strada possiamo dunque dedicarci ad altro. Da una parte saremo più vigili su imprevisti repentini come un ciclista che ci taglia la strada, dall’altra potremo lasciare spazio all’immaginazione o ad attività a maggior valore aggiunto come la pianificazione della giornata di lavoro.

La vita organizzativa tende a essere modellata sulla falsariga del meccanismo che regola la vita individuale. Poiché, però, il contesto e il mercato cambiano con sempre maggiore velocità mentre l’organizzazione tende a conformarsi ad abitudini e regole non scritte ma operanti nei fatti, è lecito aspettarsi una sempre maggior lontananza tra quello che avviene quotidianamente e quello che sarebbe auspicabile per massimizzare il rapporto costi – benefici. In questo senso l’organizzazione vive strutturalmente nel “non sufficientemente ottimizzata”.

L’ottimizzazione quasi sempre deve muoversi contemporaneamente su più versanti: tecnologico, organizzativo funzionale e gestionale e umano. Nel giro di breve i downsizing, che normalmente giocano solo sul versante delle risorse umane, hanno il fiato corto.

Il senso di urgenza è necessario ma da solo non può bastare. Per analogia, il cantiere dell’ottimizzazione continua ha bisogno di elargire gratificazioni ai promotori del cambiamento e a chi ne subisce più degli altri gli oneri immediati.

Nel contempo è necessario tranquillizzare chi non è investito immediatamente dai processi di riorganizzazione, affinché possa lavorare con serenità. È quindi sempre molto utile avviare una rassicurante attività di comunicazione interna e di sviluppo per tutta la rimanente parte dell’organismo che deve continuare a produrre con forte motivazione e sguardo al futuro.

Per attecchire realmente ogni cambiamento si dovrà poi trasformare a poco a poco in una nuova abitudine, una sorta di nuovo percorso per andare al lavoro, che io possa rifare tutte le mattine senza doverci sempre ripensare.

30 Apr 2019

COS’È LA RESILIENZA? CARATTERISTICHE E COME AUMENTARLA

COS’È LA RESILIENZA? CARATTERISTICHE E COME AUMENTARLA

La resilienza è la capacità di auto-ripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo.

“ciò che non lo uccide, lo rende più forte” (Friedrich Nietzsche).
La necessità di combattere ha la sua ragion d’essere nell’inevitabilità delle sconfitte, delle delusioni e dei conflitti quotidiani, fino a quegli sconvolgimenti esistenziali, come una violenza o la perdita di una persona cara, che, spezzando un equilibrio preesistente, pongono colui che li ha subiti di fronte a una serie di interrogativi: Perché proprio a me? Che senso ha quanto mi è accaduto?
Domande da cui non è possibile sfuggire: solo cercando una risposta chiarificatrice, un senso, seppur a volte mai definitivamente compiuto, è possibile ridefinire la propria sofferenza, che, al di là del dolore gratuito, può essere vista come un valore aggiunto, e fonte di maggiore sensibilità verso le bellezze dell’esistenza, nonché per le sofferenze altrui.
La resilienza è la capacità di un individuo, comunità, o sistema, di intervenire attivamente in situazioni di stress, mitigando, rispondendo con azioni appropriate, sviluppando nuovi comportamenti, al fine di assorbire lo shock e ripristinare la condizione di equilibrio iniziale. Darwin su tali argomenti ci ha tramandato insegnamenti importanti. Studiò infatti che le specie che hanno maggiori probabilità di sopravvivenza, non sono né le più forti né tanto meno le più intelligenti; sono quelle che meglio rispondono al cambiamento. Sembra, quindi, che essere reattivi nello sviluppo di capacità di adattamento sia fondamentale e la resilienza, in tutto questo, ricopre un ruolo centrale.
Le difficoltà quindi come opportunità, come sfida, che mobilita le proprie risorse, sia interne che esterne, una sfida dalla quale non ci si può esimere, in nome del raggiungimento di un equilibrio più funzionale.

 

Come aumentare la resilienza.
La resilienza è in gran parte frutto degli occhiali attraverso cui gli individui vedono se stessi, gli altri e il mondo. Occorre pertanto modificare le lenti con cui interpretano gli eventi e vi attribuiscono un significato. Per prima cosa, è importante valutare lo stile di attribuzione causale, ovvero il modo cui l’individuo concettualizza e spiega gli eventi che accadono e quanto si percepisce in grado di incidere su di essi.
Spesso un processo di resilienza è ostacolato proprio dalla valutazione cognitiva del soggetto, dall’etichetta che questi attribuisce a se stesso, ad esempio “sono un perdente, un fallito, non ce la posso fare, sono una vittima, non riesco a controllare nulla, perché proprio a me? ecc.” oppure agli altri e al mondo esterno “la vita è imprevedibile, il mondo è pericoloso, gli altri sono più forti, ogni evento è una catastrofe”. Cambiare le lenti cognitive non vuol dire certo adottare una visione ingenuamente ottimistica, bensì mantenere un realismo funzionale che permetta un adattamento consapevole alla realtà, in modo che gli eventi negativi, ordinari o straordinari, siano visti come potenzialmente forieri di spunti di crescita e apprendimento, piuttosto che come una minaccia incombente alla propria incolumità.
Un altro modo per promuovere la resilienza è avvicinarsi alla pratica della Mindfulness, e nello specifico sviluppare la capacità di decentrarsi dai propri pensieri, considerandoli per quello che sono, ovvero contenuti della mente, e non realtà. L’accettazione intenzionale e non giudicante del qui e ora permette, da un lato, di depurare la valutazione cognitiva da errori e distorsioni, dall’altro, facilita la gestione dello stress. L’attitudine ad accettare sentimenti spiacevoli, a osservare pensieri e sensazioni, senza reagire a essi, è una delle modalità per costruire e rinforzare il processo di resilienza.

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Se è vero che certe ferite non si rimargineranno mai completamente, qualunque trauma, se non vissuto passivamente come punizione o negazione della felicità, può rappresentare, nel suo accadere repentino e imprevedibile, un’occasione di realizzazione superiore, al pari della condizione del cigno che si è sviluppato a partire dal brutto anatroccolo della nota favola di Andersen (Cyrulnik, 2002).

24 Apr 2019

LA GESTIONE DELLE EMOZIONI IN AZIENDA

LA GESTIONE DELLE EMOZIONI IN AZIENDA

Avete mai pensato che la gestione dell emozioni, che di solito tendiamo a relegare nella sfera privata del nostro vivere, possa essere una risorsa anche in azienda?

In azienda, spesso le emozioni non trovano un loro posto e restano tagliate fuori, da qualsiasi criterio di gestione, lasciando spazio a istinto e casualità.
Molti capi, probabilmente anche in maniera inconsapevole, usano come stimolo all’azione le emozioni negative di paura, rabbia e difesa per ottenere i risultati desiderati dai dipendenti.

La pressione esterna agisce da fattore inquinante e induce reazioni esagerate, talvolta sconsiderate e persino controproducenti rispetto allo scopo ultimo, ma è necessario anche interrogarsi sugli effetti a breve e medio termine provocati dalle emozioni negative.

Una continua esposizione a forti emozioni negative determina un abbassamento del potere cognitivo del 30-40% per una durata di circa 40-60 minuti dall’esposizione alla “minaccia” nel breve termine. E nel lungo termine è dimostrata una maggiore incidenza di problemi di salute.

Del termine intelligenza emotiva se ne parlò solo agli inizi degli anni ’90 con Daniel Goleman.
Si pensi che dopo aver scritto il testo “Intelligenza emotiva”, venne subissato dalle richieste di approfondire questo tema con particolare attenzione al campo lavorativo. Nacque così l’altro libro “Lavorare con intelligenza emotiva”.
Oltre alle abilità pratiche, infatti, specialmente in tempi di crisi, di concorrenza, in cui come Azienda si cerca di distinguersi dalle altre, il fattore umano è una risposta importante.
Cosa vuol dire possedere Intelligenza emotiva?

Significa avere:

-Autocontrollo
-Entusiasmo
-Perseveranza
-Capacità di automotivarsi

Non vi è intelligenza senza emozione. Ci può essere emozione senza molta intelligenza, ma è cosa che non ci riguarda. (Ezra Pound)

La gestione delle emozioni nell’ambiente professionale è ancora oggi un tema difficile, anche se non più tabù come prima della diffusione dell’intelligenza emotiva . L’energia emozionale in azienda si alimenta della cultura propria del settore. Il clima negli ambienti industriali è in genere più rigido di quello che possiamo trovare nelle aziende di servizio. In alcuni settori prevale un clima particolarmente competitivo, come in quello tecnologico, e la collaborazione diventa un punto dolente. Istituzioni e organizzazioni tendono a essere formali e con una struttura più burocratica, legata a programmi e a standard di processi e hanno una scarsa propensione a concedere autonomia, come nel caso di alcune ONG, le Università o le aziende partecipate.

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L’aspetto delle cose varia secondo le emozioni; e così noi vediamo magia e bellezza in loro, ma, in realtà, magia e bellezza sono in noi. (Kahlil Gibran)

Un ponte alle emozioni che risulta accettabile e comprensibile anche negli ambienti più conservatori e inflessibili viene dall’approccio a partire dai valori. Perché i nostri valori ispirano e giustificano la condotta. Sostanzialmente tutte le persone hanno dei valori che le guidano nelle loro azioni, coscientemente o no. E se parliamo di azioni, parliamo di emozioni, che possono avvicinarci o allontanarci dal risultato.

17 Apr 2019

COS’È IL COUNSELING PSICOLOGICO?

COS’È IL COUNSELING PSICOLOGICO?

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Nonstante in questi ultimi anni sia andato incontro ad una forte crescita, c’è ancora una certa confusione tra i non addetti ai lavori riguardo a cosa sia e a cosa non sia l’intervento psicologico clinico che va sotto il nome di counseling.

Quando non è presente un espresso ed evidente disturbo psicologico, ma piuttosto una specifica personale difficoltà come modulare una crisi, prendere una decisione, trovare una soluzione, migliorare una relazione affettiva, amicale o lavorativa, scegliere tra molte opzioni, sviluppare una risorsa, gestire pensieri, emozioni e conflitti, etc., può essere molto utile e risolutivo il così detto counseling psicologico che è una “relazione d’aiuto” ed è professione disciplinata dalla Legge n°4 del 14 gennaio 2013.

La British Association for Counselling (BACP) fornisce la seguente definizione: «Il counseling psicologico è un uso della relazione abile e strutturato che sviluppi l’autoconsapevolezza, l’accettazione delle emozioni, la crescita e le risorse personali.
L’obiettivo principale è vivere in modo pieno e soddisfacente. Il counseling può essere mirato alla definizione e soluzione di problemi specifici, alla presa di decisioni, ad affrontare i momenti di crisi, a confrontarsi con i propri sentimenti ed i propri conflitti interiori o a migliorare le proprie relazioni con gli altri.

LO PSICOLOGO COUNSELOR
Il ruolo dello psicologo counselor è quello di facilitare il lavoro dell’utente in modo da rispettarne i valori, le risorse personali e la capacità di autodeterminazione.
Evidentemente, si tratta di un intervento di supporto e di aiuto psicologico alla persona, realizzato sotto forma di colloquio ed avente come obiettivi il miglioramento della qualità di vita del cliente e, più in generale, la promozione del benessere.
Con il counseling psicologico si cerca dunque di consentire, innescare, incentivare e proseguire nella persona una visione realistica di se stessa e dell’ambiente circostante, e quindi dei vari contesti vitali come quello sociale, familiare, affettivo, lavorativo, riducendo in tal modo al minimo fattori conflittuali, soggettivi e/o di errata valutazione.
Tale intervento, limitato nel tempo e negli obiettivi, è riservato al “trattamento” di problemi aspecifici (il dover prendere una decisione importante o migliorare le relazioni interpersonali) ed aventi un ambito circoscritto (affettivo, familiare, sociale, scolastico, lavorativo).
Si tratta di un vero supporto specialistico che si avvale della relazione e della comunicazione che tuttavia non è destinato a persone che risultano affette da disturbi mentali, bensì è indirizzato a soggetti che si trovano a vivere un particolare problema – personale, familiare, evolutivo, professionale e così via – e che, a causa di tale problema, necessitano di intraprendere un percorso di supporto mirato.
Lo psicologo counselor offre al soggetto che lo ha richiesto uno spazio di ascolto e di riflessione all’interno del quale sia possibile considerare e condividere tematiche personali ed emotivamente rilevanti, accrescere la conoscenza di sé e la consapevolezza di situazioni, difficoltà e risorse ed analizzare la situazione critica portata.
Il suo intervento è orientato ad aiutare il cliente ad esaminare ventagli di possibili scelte, a guidarlo rendendolo consapevole dei suoi punti di forza, delle sue risorse e delle ragioni delle sue difficoltà, a svilupparne le potenzialità. Così facendo, vengono promossi atteggiamenti attivi e propositivi ed incentivate le capacità di autodeterminazione; il cliente non rinuncerà al libero arbitrio e alla propria responsabilità seguendo indicazioni che gli vengono date dall’esterno, bensì sceglierà autonomamente, utilizzerà le proprie risorse personali e troverà una soluzione al problema che lo affligge.

È da affermare che un corretto intervento di counseling psicologico comporta il non giudicare la persona che si ha davanti, l’essere disposti a conoscerla, il rispettare i suoi valori e le sue convinzioni. Inoltre, esso differisce notevolmente dal dispensare consigli destinati ad essere seguiti passivamente.
Lo scopo del counseling è quello di consentire all’individuo una visione realistica di sé e dell’ambiente sociale in cui si trova ad operare, in modo da poter meglio affrontare le scelte relative alla professione, al matrimonio, alla gestione dei rapporti interpersonali con la riduzione al minimo della conflittualità dovuta a fattori soggettivi.

La persona può presentare stress, dubbi, preoccupazione, blocchi, problemi affettivi, ansia, bisogno di confidarsi, necessità di confronto e di ascolto, ma non necessariamente un conclamato disturbo psicologico e quindi la necessità di un intervento psicologico. E’ proprio in tale situazione che può allora essere utile e risolutivo il counseling psicologico.

Quello che comunque ci preme sottolineare è che aiutare le persone, in qualunque modo venga fatto è un’attività difficile e delicata, in cui la buona volontà, l’altruismo e la pazienza non bastano. A volte con le migliori intenzioni si possono creare gli effetti peggiori e risulta indispensabile avere un rapporto di fiducia e di collaborazione con un professionista preparato e di esperienza.

10 Apr 2019

Intelligenza Artificiale: cos’è e a cosa serve

Intelligenza Artificiale: cos’è e a cosa serve

Quello che colpisce dell’Intelligenza Artificiale, al di là che l’espressione viene normalmente scritta con le due iniziali maiuscole a denotarne l’eccezionalità, è che solo due anni fa non se ne parlava quasi al di fuori di circoli molto specialistici. Non è solo perché la tecnologia digitale sta stravolgendo ogni ambito della vita e del lavoro. Ma perché in modi ancora un po’ confusi si tende a considerare l’IA come la punta più avanzata della rivoluzione digitale. Il che tutto sommato è anche abbastanza vero.

Ma cos’è realmente l’Intelligenza Artificiale e come si è sviluppata?

l’Intelligenza Artificiale è un ramo dell’informatica che permette la programmazione e progettazione di sistemi sia hardware che software che permettono di dotare le macchine di determinate caratteristiche che vengono considerate tipicamente umane quali, ad esempio, le percezioni visive, spazio-temporali e decisionali. Si tratta cioè, non solo di intelligenza intesa come capacità di calcolo o di conoscenza di dati astratti, ma anche e soprattutto di tutte quelle differenti forme di intelligenza che sono riconosciute dalla teoria di Gardner, e che vanno dall’intelligenza spaziale a quella sociale, da quella cinestetica a quella introspettiva.
Un sistema intelligente, infatti, viene realizzato cercando di ricreare una o più di queste differenti forme di intelligenza che, anche se spesso definite come semplicemente umane, in realtà possono essere ricondotte a particolari comportamenti riproducibili da alcune macchine.
Ovviamente, la cosa è molto più complicata e comprende molte tecnologie e funzioni diverse. Fondamentali, oltre all’apprendimento autonomo, sono il riconoscimento visuale e vocale, i sensori e l’Internet of Things, l’evoluzione della comprensione e dell’utilizzo del linguaggio naturale, le capacità di interazione uomo-macchina, solo per citarne alcune. E le funzioni sono ormai le più disparate, in produzione, marketing, vendite, risorse umane, finanza e amministrazione. Così come sale ogni giorno la penetrazione negli ambiti professionali come quello medico, quello giuridico, i diversi settori scientifici ma anche la musica e l’entertainment.

Coscienza, conoscenza e problem solving

Alla base delle problematiche legate allo sviluppo di sistemi e programmi di Intelligenza Artificiale vi sono tre parametri che rappresentano i cardini del comportamento umano, ossia una conoscenza non sterile, una coscienza che permetta di prendere decisioni non solo secondo la logica e l’abilità di risolvere problemi in maniera differente anche a seconda dei contesti nei quali ci si trova.
L’uso dei reti neurali e di algoritmi in grado di riprodurre ragionamenti tipici degli esseri umani nelle differenti situazioni, hanno permesso ai sistemi intelligenti di migliorare sempre di più le diverse capacità di comportamento. Per poter realizzare ciò, la ricerca si è concentrata non solo sullo sviluppo di algoritmi sempre nuovi, ma soprattutto su algoritmi sempre più numerosi, che potessero imitare i diversi comportamenti a seconda degli stimoli ambientali. Tali algoritmi complessi, inseriti all’interno di sistemi intelligenti, sono quindi in grado di ‘prendere decisioni’ ossia di effettuare scelte a seconda dei contesti in cui sono inseriti. Nel caso degli algoritmi connessi ai sistemi intelligenti dei veicoli, ad esempio, un’automobile senza conducente può decidere, in caso di pericolo, se sterzare o frenare a seconda della situazione, ossia a seconda che le informazioni inviate dai vari sensori permettano di calcolare una maggiore percentuale di sicurezza per il conducente e i passeggeri con una frenata o con una sterzata.

Machine Learning: l’apprendimento automatico

Uno dei principali passi avanti nella storia dell’Intelligenza Artificiale è stata fatta quando si sono potuti ricreare degli algoritmi specifici, in grado di far migliorare il comportamento della macchina (inteso come capacità di agire e prendere decisioni) che può così imparare tramite l’esperienza, proprio come gli esseri umani. Sviluppare algoritmi in grado di imparare dai propri errori è fondamentale per realizzare sistemi intelligenti che operano in contesti per i quali i programmatori non possono a priori prevedere tutte le possibilità di sviluppo e i contesti in cui il sistema si trova a operare. Tramite l’apprendimento automatico (machine learning), quindi, una macchina è in grado di imparare a svolgere una determinata azione anche se tale azione non è mai stata programmata tra le azioni possibili.
Dietro di questo particolare ramo dell’Intelligenza Artificiale vi è stata da sempre (e vi è ancora) una profonda ricerca, sia teorica che pratica, basata, tra le altre cose, sulla teoria computazionale dell’apprendimento e sul riconoscimento dei pattern. La complessità dell’apprendimento automatico ha portato a dover suddividere tre differenti possibilità, a seconda delle richieste di apprendimento che vengono fatte alla macchina. Si parla allora di apprendimento supervisionato, di apprendimento non supervisionato e di apprendimento per rinforzo. La differenza tra le tre modalità sta soprattutto nel differente contesto entro cui si deve muovere la macchina per apprendere le regole generali e particolari che lo portano alla conoscenza. Nell’apprendimento supervisionato, in particolare, alla macchina vengono forniti degli esempi di obiettivi da raggiungere, mostrando le relazioni tra input, output, e risultato. Dall’insieme dei dati mostrati, la macchina deve essere in grado di estrapolare una regola generale, che possa permettere, ogni volta che venga stimolata con un determinato input, di scegliere l’output corretto per il raggiungimento dell’obiettivo.
Nel caso di apprendimento non supervisionato, invece, la macchina dovrà essere in grado di effettuare scelte senza essere stato prima ‘educato’ alle differenti possibilità di output a seconda degli input selezionati. In questo caso, quindi, il computer non ha un maestro che gli permetta un apprendimento ma impara esclusivamente dai propri errori. Infine, le macchine che vengono istruite tramite un apprendimento per rinforzo si trovano ad avere un’interazione con un ambiente nel quale le caratteristiche sono variabili. Si tratta, quindi, di un ambiente dinamico, all’interno del quale la macchina dovrà muoversi per portare a termine un obiettivo non avendo nessun tipo di indicazione se non, alla conclusione della prova, la possibilità di sapere se è riuscita o meno a raggiungere lo scopo iniziale.
L’apprendimento automatico è stato reso possibile dallo sviluppo delle reti neurali artificiali, ossia un particolare modello matematico che, ispirandosi ai neuroni e alle reti neurali umane, punta alla soluzione dei diversi problemi a seconda delle possibilità di conoscere gli input e i risultati ottenuti a seconda delle scelte effettuate. Il nome di rete neurale deriva dal fatto che questo modello matematico è caratterizzato da una serie di interconnessioni tra tutte le diverse informazioni necessarie per i diversi calcoli. Inoltre, proprio come le reti neurali biologiche, anche una rete neurale artificiale ha la caratteristica di essere adattativa, ossia di saper variare la sua struttura adattandola alle specifiche necessità derivanti dalle diverse informazioni ottenute nelle diverse fasi di apprendimento. Dal punto di vista matematico, una rete neurale può essere definita come una funzione composta, ossia dipendente da altre funzioni a loro volta definibili in maniera differente a seconda di ulteriori funzioni dalle quali esse dipendono. Questo significa che nulla, all’interno di una rete neurale, può essere lasciato al caso: ogni azione del sistema intelligente sarà sempre il risultato dell’elaborazione di calcoli volti a verificare i parametri e a definire le incognite che definiscono le funzioni stesse.

Conclusioni

In sostanza è che è arrivata l’ora di introdurre queste tecnologie in azienda, anche se non ogni aspetto è stato ancora valutato ed è giunto a maturazione. Basta citare due degli aspetti più importanti: il primo riguarda la collaborazione uomo-macchina, di cui si stanno definendo le potenzialità ma anche i limiti. Superata una visione iniziale alquanto allarmistica su una possibile sostituzione di lavoro umano con l’IA, non possiamo comunque ignorare un potenziale di disoccupazione tecnologica che la collaborazione potrà attenuare ma non necessariamente eliminare. Il secondo aspetto è quello cognitivo, poiché siamo ormai oltre la soglia della possibile comprensione da parte degli umani dei processi algoritmici delle macchine, il che induce a pensare con una certa apprensione alle relative possibilità di controllo. Questo secondo aspetto ingloba anche tutte le importantissime questioni etiche che vanno ben al di là dei rischi legati ai droni, all’auto autonoma o alla genetica, ma si estendono a una relazione tra uomo e tecnologie che va ancora totalmente definita.
Siamo comunque in un’era trasformativa che occorre imparare a comprendere e a gestire, ed è giunto per ogni impresa, dalla grande piattaforma globale alla piccola azienda artigiana, il momento di fare i conti con l’IA.