27 Gen 2021

IL SUCCESSO DI CARRIERA

IL SUCCESSO DI CARRIERA

Mentre nel precedente articolo si è parlato della carriera lavorativa e del suo mutamento fino a oggi (link), in questo ci si concentrerà sul successo di carriera. Quest’ultimo può essere definito come una serie di risultati lavorativi positivi sia da un punto di vista psicologico che lavorativo.

IL SUCCESSO DI CARRIERA: SOGGETTIVO E OGGETTIVO

Il successo di carriera soggettivo comprende una serie di giudizi degli individui sui loro successi professionali, comprese le valutazioni sull’autostima e sulle capacità (Chang, Ferris, Johnson, Rosen, & Tan, 2012) e la soddisfazione che provano nella loro carriera (Judge, Cable, Boudreau & Bretz, 1995). Esso viene generalmente misurato attraverso la soddisfazione professionale (Greenhaus, Parasuraman, & Wormley, 1990; Seibert, Kraimer, Holtom e Pierotti, 2013) o il successo professionale percepito (Heslin, 2003) e più recentemente attraverso la valutazione multidimensionale riguardante vari aspetti della carriera, come la crescita e lo sviluppo, la vita personale e l’autenticità (Shockley, Ureksoy, Rodopman, Poteat & Dullaghan, 2016).

Dunque, la variante soggettiva del successo di carriera presuppone che ognuno abbia una serie di valori, preferenze, priorità che delineano le scelte e gli obiettivi; quindi, è importante considerare che ognuno misura il proprio livello di soddisfazione riguardante la carriera lavorativa su fattori differenti e che le persone non condividono gli stessi metri di giudizio riguardo le proprie esperienze lavorative. In generale, si può dire che differenti lavoratori hanno diverse aspirazioni di carriera e attribuiscono un’importanza differente a fattori come: lo stipendio; la sicurezza lavorativa; la possibilità di apprendere; il bilanciamento tra la sfera lavorativa e quella privata/familiare; la possibilità di avere promozioni e di svolgere lavori differenti.

Il successo di carriera oggettivo è definito come osservabile direttamente dagli altri e misurabile in modo standardizzato (Arthur, Khapova and Wilderom, 2005), tipicamente valutando lo stipendio o le promozioni avute nel tempo (Dries, Pepermans, Hofmans & Rypens, 2009).

Dunque, il successo di carriera soggettivo può essere definito come la comprensione e la valutazione interiore di un individuo della propria carriera, considerando qualsiasi dimensione da lui ritenuta importante, mentre  la variante oggettiva riflette ad esempio le varie posizioni assunte nel corso della carriera lavorativa da parte di un lavoratore, il reddito individuale e lo status assunto nel tempo; tutti questi aspetti sono importanti per avere un punto di riferimento nella valutazione del movimento di un individuo nel corso delle esperienze lavorative.

RELAZIONE TRA IL SUCCESSO DI CARRIERA SOGGETTIVO E OGGETTIVO

Ci sono diverse possibilità riguardanti le direzioni dell’influenza tra il successo di carriera oggettivo e soggettivo (Abele & Spurk 2009b).

Una prima possibilità è che il successo di carriera oggettivo influenzi quello soggettivo; in questo caso quindi, il successo oggettivo potrebbe essere la base per la valutazione del successo soggettivo da parte del lavoratore, oppure alcuni autori sostengono che la percezione soggettiva del successo sia un sottoprodotto del successo oggettivo (Nicholson & De WaalAndrews, 2005). Ad esempio è stato visto che il reddito e le promozioni predicono la soddisfazione e l’atteggiamento di carriera (Gattiker & Larwood, 1989); oppure si è visto che il reddito, lo status e le promozioni predicono la soddisfazione professionale (Judge, Cable, Boudreau &  Bretz, 1995; Martins, Eddleston, & Veiga, 2002).

La direzione opposta dell’influenza è quella secondo cui l’esperienza soggettiva del successo porta a un maggiore successo oggettivo (Hall, 2002). Il successo soggettivo potrebbe agire sulla componente motivazionale del lavoratore, ad esempio rendendolo più sicuro di sé, più motivato e più direzionato nel raggiungimento dei propri obiettivi; questa componente potrebbe, nel corso del tempo, agire positivamente sul successo di carriera oggettivo. La base empirica, tuttavia, è molto limitata.

La terza prospettiva teorica riguarda l’interdipendenza (Arthur, Khapova, & Wilderom, 2005). Le persone sperimentano la realtà oggettiva, creano comprensioni e valutazioni su ciò che costituisce il successo professionale e quindi agiscono individualmente in base a queste comprensioni e queste valutazioni. Sulla base delle loro azioni ottengono dei risultati, che portano a comprensioni e valutazioni modificate, a cui seguono a loro volta altri comportamenti, e così via, creando un circolo d’influenza reciproca. L’unico modo attraverso cui ottenere conferme per l’interdipendenza tra il successo oggettivo e quello soggettivo è lo studio longitudinale, ma in letteratura non sembrano esserci.

CONCLUSIONE

In conclusione, si è visto che il successo di carriera può essere definito come una serie di risultati lavorativi positivi sia da un punto di vista psicologico che lavorativo. Esso può essere soggettivo o oggettivo e la relazione tra queste due tipologie è molto complessa e varia. Infine, sembra che la differenza tra il successo di carriera soggettivo e oggettivo sia principalmente di natura teorica (ad esempio Abele & Spurk, 2009a), dunque servirebbero ulteriori studi per approfondire questa tematica.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Abele. A. E. & Spurk. D. (2009a). The longitudinal impact of self-efficacy and career goals on objective and subjective career success. Journal of Vocational Behavior. 74: 53-62.
  • Abele. A. E. & Spurk. D. (2009b). How do objective and subjective career success interrelate over time? Journal of Occupational and Organizational Psychology . 82 . 803 –824.
  • Arthur. M. B., Khapova. S. N., & Wilderom. C. P. M. (2005). Career success in a boundaryless career world. Journal of Organizational Behaviour. 26: 177–202.
  • Chang. C. H., Ferris. D. L., Johnson. R. E., Rosen. C. C., & Tan. J. A. (2012). Core self-evaluations: A review and evaluation of the literature. Journal of Management. 38: 81–128.
  • Dries. N., Pepermans. R., & Carlier. O. (2008). Career success: Constructing a multidimensional model. Journal of Vocational Behavior. 73(2): 254–267.
  • Gattiker. U. E., & Larwood. L. (1989). Career success. mobility and extrinsic satisfaction of corporate managers. Social Science Journal. 26: 75-92.
  • Greenhaus. H. & Wormley. W. (1990). Effects of Race on Organizational Experiences. Job Performance Evaluations. and Career Outcomes. The Academy of Management Journal. 33(1):64-86.
  • Heslin. P. A. (2003). Self- and other-referent criteria of success. Journal of Career Assessment. 11: 262-286.
  • Judge. T. A., Cable. D. M., Boudreau. J. W., & Bretz. R. D. (1995). An empirical investigation of the predictors of executive career success. Personnel Psychology. 48: 485–519.
  • Martins. L. L., Eddleston. K. A., & Veiga. J. F. J. (2002). Moderators of the relationship between work–family conflict and career satisfaction. Academy of Management Journal. 45: 399–409.
  • Nicholson. N., & De Waal-Andrews. W. (2005). Playing to win: Biological imperatives selfregulation. and trade-offs in the game of career success. Journal of Organizational Behaviour. 26: 137–154.
  • Seibert. S. E., Kraimer. M. L., Holtom. B. C. & Pierotti. A. J. (2013). Even the best laid plans sometimes go askew: Career self-management processes. career shocks. and the decision to pursue graduate education. Journal of Applied Psychology. 98: 169-182.
  • Shockley. K. M., Ureksoy. H., Rodopman. O. B., Poteat. L. F. & Dullaghan. T. R. (2016). Development of a new scale to measure subjective career success: A mixed-methods study. Journal of Organizational Behavior. 37: 128-153.
20 Gen 2021

L’ARTETERAPIA

L’ARTETERAPIA

L’Arteterapia consiste nella ricerca del benessere psicofisico attraverso l’espressione artistica dei pensieri, dei vissuti e delle emozioni. L’arte permette un’espressione diretta, immediata, spontanea, arcaica ed istintiva di noi stessi, che non passa attraverso l’intelletto.

L’Arteterapia utilizza le potenzialità, che possiede ogni persona, di elaborare creativamente tutte quelle sensazioni che non si riescono a far emergere con le parole e nei contesti quotidiani. Per mezzo dell’azione creativa l’immagine interna diventa immagine esterna, visibile e condivisibile, e comunica all’altro il proprio mondo interiore emotivo e cognitivo.

La produzione artistica, però, non avviene in completa solitudine. La propria creazione viene osservata e discussa nell’ambito di una relazione tra due persone, il terapeuta e il paziente. Ognuno ha in sé delle risorse proprie e un potenziale auto-rigenerativo che va semplicemente stimolato. L’arteterapeuta deve essere capace di cogliere il significativo, il comunicativo.

OBIETTIVI, MODALITÀ E AREE D’INTERVENTO DELL’ARTETERAPIA

L’Arteterapia solitamente viene svolta in laboratori appositi che svolgono un vero e proprio setting terapeutico. In questi laboratori l’espressione dell’arte serve sia per raggiungere una propria autoconsapevolezza ma è, anche, utile per la “cura” di situazioni problematiche.

L’arteterapeuta gioca un ruolo importante perché, come si evince dal paragrafo precedente, deve cercare di evidenziare il lato significativo e comunicativo di questa terapia, piuttosto che il lato bello nel senso estetico. L’obiettivo fondamentale è creare una relazione empatica con il soggetto, cosicché egli possa esprimersi senza filtri e non mostrare ansia da prestazione.

L’Arteterapia, con le sue tecniche ed i suoi materiali, favorisce la conoscenza di sé stessi e delle proprie potenzialità e rende possibile l’integrazione di tutte le risorse di cui disponiamo per poter vivere meglio; svolge, quindi, la funzione non solo di trattamento di malattie, ma anche di trasformazione, evoluzione e crescita dell’individuo, consentendoci di credere ed essere fiduciosi nelle capacità che tutti quanti noi possediamo. Nello specifico, permette di:

  • migliorare le proprie capacità comunicative, affettive e relazionali, così da avere una crescita personale;
  • riconoscere la propria emotività, così da entrare in sintonia con il proprio mondo interiore;
  • “avvicinarsi” al proprio disagio, in modo tale da capire le proprie sofferenze rielaborandole in una nuova e personale chiave;
  • nel caso in cui la terapia venga effettuata in gruppo, cercare di condividere i propri stati interiori con gli altri così da creare uno spazio comune di riflessione.

L’obiettivo, quindi, dell’arteterapia non è tanto il prodotto artistico, piuttosto il percorso che l’utente attiva per raggiungere tale prodotto.

Le aree di intervento dell’Arteterapia sono essenzialmente tre:

  • Area Terapeutica;
  • Area Riabilitativa;
  • Area Preventiva ed Educativa.

IL LABORATORIO DI ARTETERAPIA

Questo particolare tipo di laboratorio mette a disposizione uno spazio ampio e molto luminoso, che rispetta tutte le regole del setting terapeutico: lo spazio ed il tempo sono ben definiti, e tutto ciò che accade all’interno di essi acquisisce un significato che facilita la comprensione del paziente. Inoltre, può essere un luogo ricchissimo di stimoli in cui si trova di tutto (carta, matite, colori, das, stoffe, lane, legno, farina, teli, burattini, strumenti musicali) oppure può anche essere uno spazio vuoto, libero da stimoli, da riempire come si vuole.

Nel laboratorio, su indicazioni dell’arteterapeuta, ci si può dedicare:

  • alle arti visive – si può disegnare, colorare, modellare das o creta, utilizzare fotografie o filmati;
  • alla musicoterapia – si può ascoltare musica per favorire una maggiore attivazione o il rilassamento;
  • alla danzaterapia – si può imparare a liberare il corpo consentendogli di esprimere pensieri, emozioni e sentimenti;
  • alla teatroterapia – che permette di comunicare con il corpo e con la voce, di osservare il mondo con gli occhi di un altro e di giocare con ciò che è finzione e ciò che è verità;
  • al gioco – si propongono i giochi che fanno i bambini: rubabandiera, nascondino, lanciare la palla, ecc. Il gioco allena il bambino (e anche l’adulto) alla vita e gli permette la ricerca del sé, di un sé corrispondente ai propri bisogni.

Ed è sempre nella direzione del gioco che viene svolto il lavoro nei laboratori artistici, affinché l’Arteterapia sia vissuta come un’attività “ludica e divertente” che accompagna l’individuo in uno dei viaggi più affascinanti dell’uomo: la scoperta di se stessi.

13 Gen 2021

LOCUS OF CONTROL

LOCUS OF CONTROL

Nella Teoria dell’Apprendimento sociale di Rotter (1966), il Locus of Control è inteso come il modo in cui una persona interpreta le cause dei vari eventi che si verificano nella sua vita quotidiana; nello specifico, esso è utilizzato per descrivere come viene percepita la relazione tra le azioni e le conseguenze di esse.

TIPOLOGIE

Gli eventi sono visti dalle persone in base al grado di controllo che loro hanno, ad esempio:

  • Coloro che hanno un Locus of control interno credono di avere il controllo sugli eventi, sia positivi che negativi, e attribuiscono i risultati delle loro azioni alle proprie capacità (risultati positivi) o alle loro mancanze (risultati negativi). Questi individui sentono di avere il controllo sul corso degli eventi nel mondo che li circonda e si sentono responsabili di ciò che accade loro.
  • Al contrario, le persone con un Locus of control esterno credono che il susseguirsi degli eventi lungo la propria vita sia fuori dal loro controllo e tendono a spiegarli e motivarli con fattori come la fortuna, il destino o le circostanze esterne imprevedibili.

COME SI SVILUPPA IL LOCUS OF CONTROL

La predominanza di una tipologia di Locus of Control sull’altra, in ognuno di noi, è influenzata da fattori come: la personalità, la famiglia di origine e la cultura.

Per quanto riguarda la famiglia, molte persone che presentano un locus of control interno, probabilmente sono cresciute in un ambiente in cui si pone particolare attenzione all’impegno, alla responsabilità e alla costanza nel raggiungere un obiettivo, viceversa è più probabile che chi ha un locus of control esterno provenga da un’ambiente in cui la concezione del controllo che si può avere sulla realtà esterna è basso e in cui non viene considerato centrale il tema dell’assunzione di responsabilità.

Dunque, la famiglia ha un’influenza diretta sulla direzione del locus of control, che a sua volta impatta sull’autostima. Infatti, il livello di quest’ultima è influenzato dalla credenza di poter raggiungere o meno un determinato obiettivo o un risultato desiderato. Quando non avviene una mescolanza equilibrata tra i due stili, l’autostima ne risente, a partire dallo strutturarsi del senso di colpa quando il locus of control è sempre interno, fino alla deresponsabilizzazione quando è esterno.

Infine, la cultura di appartenenza può avere un peso nello sviluppo del locus of control. Nelle culture individualiste, ad esempio, si crede maggiormente nelle proprie capacità di influenzare le situazioni e gli eventi della propria vita, sentendosi in grado di modificare l’ambiente circostante. Diversamente, nelle culture collettiviste, i valori dell’interdipendenza e dell’armonia con l’ambiente sono importanti, dunque si pensa che non si debba modificare l’ambiente, ma bisognerebbe adeguarsi a esso. In questo secondo caso, la sensazione di controllo sembra derivare dalla percezione di sapersi adattare e adeguare al contesto.

CONCLUSIONI

In conclusione, il modo in cui una persona interpreta le cause dei vari eventi che si verificano nella sua vita quotidiana influenza notevolmente i risultati che otterrà.

Infatti, per quanto riguarda i benefici a cui può portare avere l’una o l’altra direzione del locus of control, molti studi, coerenti con la definizione di Rotter, suggeriscono fortemente che l’interiorità è correlata a risultati complessivamente più positivi rispetto all’esternalità.

16 Dic 2020

Il Disturbo Post-Traumatico da Stress

Il Disturbo Post-Traumatico da Stress

Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) è un grave quadro clinico che si manifesta in conseguenza di un fattore traumatico estremo (es. terremoto, incidente, violenza fisica, psicologica o sessuale), in cui la persona ha vissuto, ha assistito o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, minacce di morte, gravi lesioni, minacce all’integrità fisica propria o di altri.

Nella sua forma cronica si sviluppa solo in una piccola parte di sopravvissuti ad un trauma, anche se recenti ricerche hanno dimostrato che un’esperienza traumatica è relativamente comune nella popolazione generale. L’insorgenza di tale disturbo può intervenire anche a distanza di mesi dall’evento traumatico, e la sua durata può variare da un mese alla cronicità, per questo è necessario trattare immediatamente e profondamente il disturbo.

CAUSE DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS

Non esiste un’ipotesi sicura circa le cause del Disturbo Post-Traumatico da Stress.

Una delle ipotesi più accreditate sostiene che a seguito di un grave trauma psicologico sembra avvenga nella persona uno squilibrio del sistema nervoso probabilmente causato da cambiamenti a livello dei neurotrasmettitori (o di adrenalina, cortisolo, ecc.) che determina un blocco del sistema e l’informazione acquisita al momento dell’evento (incluse le immagini, i suoni, l’emotività e le sensazioni fisiche) viene conservata a livello neurologico nel suo stato disturbante. Perciò questo materiale continua a essere innescato da una gamma di stimoli interni ed esterni e si esprime sotto forma di incubi, flashback e pensieri intrusivi.

SINTOMI

I sintomi del Disturbo Post-Traumatico da Stress possono essere suddivisi in categorie:

  • Intrusioni
  • Evitamento
  • Alterazioni negative nella cognizione e nell’umore
  • Alterazioni nell’eccitazione e reattività.

Generalmente, si hanno frequenti ricordi indesiderati che rievocano l’evento scatenante e sono frequenti gli incubi relativi all’evento. Meno comuni sono gli stati dissociativi transitori in cui gli eventi vengono rivissuti come se stessero accadendo. La risposta della persona comprende paura intensa e sentimenti di impotenza o di orrore.

L’evento traumatico viene rivissuto persistentemente con ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi, che comprendono:

  • Immagini, pensieri, o percezioni, incubi e sogni spiacevoli.
  • Agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando.
  • Disagio psicologico intenso all’esposizione verso fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico.
  • Reattività fisiologica o esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico.
  • Evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma e attenuazione della reattività generale.
  • Difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno.
  • Irritabilità o scoppi di collera.
  • Difficoltà a concentrarsi.
  • Ipervigilanza ed esagerate risposte di allarme.

Il Disturbo Post-Traumatico da Stress è un quadro clinico che si associa spesso ad altri disturbi, tra i quali troviamo spesso:

  • Disturbi Affettivi e Depressione Maggiore
  • Disturbi da Attacchi di Panico e Fobia Sociale
  • Disturbi Dissociativi nella popolazione psichiatrica
  • Disturbo di Personalità Borderline
  • Abuso e dipendenza da sostanze come strategie di gestione dei ricordi

TRATTAMENTO PSICOTERAPEUTICO

Il Disturbo Post-Traumatico da Stress può essere affrontato clinicamente in più modi, poiché rientra nella categoria generale dei Disturbi d’Ansia. Alcune tecniche utilizzate sono:

  • Esposizione – utile per ridurre le situazioni di evitamento.
  • Ri-etichettamento delle sensazioni somatiche – la discussione concreta sulla natura di diverse sensazioni favorisce una categorizzazione dei sintomi di ansia come effetti della sindrome da stress.
  • Rilassamento e respirazione addominale – strumento “sotto controllo” del paziente, il quale può utilizzarle quotidianamente ed autonomamente per alleggerire la tensione e lo stress.
  • Ristrutturazione cognitiva – il soggetto può essere aiutato a riconoscere i propri pensieri automatici e spontanei legati all’evento traumatico, divenendo in questo modo consapevole di come effettivamente modifichi il proprio stato emotivo.
  • EMDR (Eye Movement desensitisation and reprocessing) – la desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari è una nuova tecnica che permette di riprendere o di accelerare l’elaborazione delle informazioni legate al trauma.
  • Homework – i cosiddetti “compiti per casa” tra una seduta e l’altra, necessari per la continuità del trattamento. Essi sono progettati in collaborazione con il paziente e consistono frequentemente in diari di registrazione di elementi-bersaglio, o diari di automonitoraggio, o in schede di analisi delle cognizioni associate agli eventi.
09 Dic 2020

RESILIENZA… Ma cos’è?

RESILIENZA… Ma cos’è?

DEFINIZIONE

La resilienza è un concetto entrato nella quotidianità di tutti noi e di cui sentiamo parlare, soprattutto in questi ultimi anni, sempre più. Ma cos’è? Come la si può definire?

A questo proposito ci viene in aiuto il dizionario Treccani, che ci fornisce ben tre definizioni di essa:

  • “Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova”;
  • “Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale.”;
  • “In psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc.”.

Tra queste tre definizioni quella che ci interessa maggiormente è l’ultima, riguardante il campo della psicologia; ma in generale si può notare che in tutte e tre c’è un minimo comune denominatore, ovvero la resistenza a una pressione negativa esterna, che può ritenersi fisica, nel caso dei materiali, dei filati e dei tessuti, e mentale nel caso del campo psicologico.

Da qui in poi, ci concentreremo su quest’ultimo caso.

La persona resiliente dinanzi a un trauma si deforma, ma riesce con caparbietà e adattabilità a far fronte a questa situazione, ritornando alla condizione precedente l’episodio negativo, o in alcuni casi ad una condizione migliore.

ESEMPIO DI RESILIENZA: ALEX ZANARDI

Per comprendere cosa significhi essere resiliente è utile fare un esempio lampante, e che tutti noi conosciamo: Alex Zanardi. Egli è la definizione vivente di “resilienza”! È un ex pilota di Formula 1, che nel 2001 ebbe un gravissimo incidente in cui perse entrambe le gambe. Moltissime persone si sarebbero arrese e avrebbero lasciato senza pensarci il mondo dell’automobilismo, ma Zanardi no. Anzi, decise di disegnare da solo un paio di nuove gambe artificiali, con l’obiettivo di tornare a gareggiare. Questo accadde due anni dopo l’infortunio (nel 2003), proprio sulla stessa pista in cui nel 2001 ci fu l’incidente. Da lì ricominciò la sua carriera automobilistica e corse ben cinque campionati, dal 2004 al 2009, conditi da diverse vittorie. Dal 2007 ha cominciato a praticare la handbike e da qui in poi inizierà la serie di vittorie che tutti noi conosciamo nello sport paralimpico.

Tutta la sua resilienza è possibile captarla in un estratto di intervista in cui disse letteralmente “Quando mi sono risvegliato senza gambe ho guardato la metà che era rimasta, non la metà che era andata persa”. Ecco, da adesso sarà a tutti un po’ più chiaro cos’è la resilienza.

COMPONENTI CHE PERMETTONO DI SVILUPPARE LA RESILIENZA

In uno studio condotto da Cantoni (2014) è emerso che ci sono dei fattori che porterebbero ad un incremento della resilienza e che quindi permetterebbero di aiutare l’individuo ad affrontare diverse realtà avverse. Essi sono:

  1. L’Ottimismo, ovvero la disposizione a cogliere il lato positivo di tutte le cose, ed è strettamente correlato al benessere individuale ed è inversamente legato alla sofferenza fisica e psicologica.
  2. L’Autostima, ovvero l’insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà a sé stesso. Avere bassi livelli di essa, porta ad avere una bassa considerazione di sé e ad essere troppo critici con sé stessi.
  3. La Robustezza Psicologica (Hardiness), che può essere scomposta in tre sotto-componenti:
    • il controllo (sentirsi in grado di poter controllare l’ambiente esterno, mobilitando le risorse utili per fronteggiarlo);
    • l’impegno (impiegare tutte le proprie forza e tutta la propria volontà per fare qualcosa);
    • la sfida (vedere i cambiamenti esterni come incentivi e opportunità di crescita piuttosto che come minaccia alle proprie sicurezze).
  4. Le Emozioni Positive, focalizzandosi su quello che si ha, piuttosto che su quello che manca.
  5. Il Supporto Sociale, ovvero una serie di processi interpersonali, in cui la persona si sente amata, stimata e apprezzata.

CONCLUSIONI

In conclusione, le persone resilienti, nelle circostanze avverse, riescono a fronteggiare efficacemente le contrarietà e riescono a dare nuovo slancio alla propria esistenza e persino a raggiungere mete importanti.

Attualmente, sia nella vita in generale che nella vita lavorativa, è essenziale essere resilienti; basti pensare a tutte le volte che ci accadono episodi negativi, ad esempio in famiglia o a lavoro o tra amici, in cui è necessario riprendersi e cercare di tornare alla normalità. O basti pensare a tutti gli eventi catastrofici, come ad esempio terremoti, maremoti, alluvioni, che provocano ingenti danni all’economia di un’area geografica e causano grossi danni alle singole persone e alle singole famiglie perché distruggono case, negozi, attività, strade, etc. In tutti questi casi, riuscire ad andare oltre, tornando così al livello precedente, è importantissimo e se non si riesce a farlo, si rischia di essere coinvolti in un circolo vizioso da cui è impossibile riprendersi.

02 Dic 2020

LA CREATIVITÀ

LA CREATIVITÀ

“Creatività significa semplicemente collegare cose.

Quando chiedi a persone creative come hanno fatto qualcosa, si sentono quasi in colpa perché non l’hanno fatto realmente, hanno solo visto qualcosa e, dopo un po’, tutto gli è sembrato chiaro. Questo perché sono stati capaci di collegare le esperienze vissute e sintetizzarle in nuove cose”.

(Steve Jobs)

La creatività è un concetto complesso. In generale, è una caratteristica che contraddistingue ciascun individuo in quanto essere umano. A volte è associata alla genialità, altre volte si parla di creatività nei bambini quando inventano qualcosa di nuovo, altre volte ancora si utilizza il termine creatività quando si parla di alcune professioni per cui questa caratteristica umana prevede un coinvolgimento importante.

Tutti possiamo essere creativi, infatti la creatività si può definire piuttosto uno stile di vita. È una caratteristica saliente del comportamento umano, seppur in alcuni individui sia più evidente che in altri.

La persona creativa non è creativa una volta ogni tanto, ma è in grado di comportarsi creativamente sempre… è colei che: «in un [dato] campo di attività regolarmente risolve dei problemi, elabora dei prodotti o formula interrogativi nuovi in un modo che inizialmente viene considerato originale ma che finisce per venir accettato in un particolare ambiente culturale» (Gardner, 1994). L’adattare i propri piani alle circostanze richiede un’abilità che ognuno di noi ha già: tutto ciò che dobbiamo fare è rendercene conto, osservare il processo creativo quando emerge e cercare di sfruttarlo intenzionalmente per risolvere i piccoli e grandi problemi della quotidianità; riconoscendo, tra pensieri e oggetti, nuove connessioni che portano a innovazioni e a cambiamenti. Ciò che distingue la creatività dall’arbitrarietà è il fatto che essa accade secondo regole; l’atto creativo non è sempre cosciente e ricercato.

Esistono diversi pensieri che descrivono l’atto creativo:

  • Il pensiero divergente – una forma di pensiero anticonformista, non convenzionale, e più strettamente connessa all’atto creativo. Tale pensiero tende all’unicità della risposta cui tutte le problematiche sono ricondotte, presenta originalità di idee, fluidità concettuale, sensibilità per i problemi, capacità di riorganizzazione degli elementi, produzione di molte risposte diverse fra loro. Nello specifico, è caratterizzato da quattro fattori:
    1. fluidità – la capacità di creare il maggior numero possibile di idee partendo da un determinato stimolo;
    2. flessibilità – il numero di categorie concettuali alle quali le risposte del soggetto possono essere ricondotte;
    3. originalità – la capacità di esprimere idee nuove e insolite, statisticamente improbabili;
    4. elaborazione – l’abilità di dare concretezza alle proprie idee.
  • Il pensiero convergente – una forma di pensiero che si muove, al contrario, verso una soluzione unica e prefissata, scontata, ma efficace, nella quale gioca un ruolo di primo piano il ragionamento logico. Dunque, è un pensiero che rimane circoscritto entro i confini del problema e segue le linee interne al problema stesso, aspettando o utilizzando regole già definite e codificate.
  • Il pensiero strategico – una forma di pensiero orientato a trovare il modo di raggiungere uno scopo. La creatività è vista come: “il percepire le cose da una prospettiva non ordinaria”, la quale permette di trovare la soluzione a problemi apparentemente irrisolvibili.
  • Il pensiero produttivo – una forma di pensiero che presenta un carattere esplorativo e di avventura che apre nuove soluzioni al di fuori della soluzione data, coinvolgendo una molteplicità di aspetti cognitivi.
  • Il pensiero verticale – una forma di pensiero che considera un percorso univoco per la risoluzione dei problemi.
  • Il pensiero laterale – una forma di pensiero in contrapposizione al precedente, che cerca la soluzione dei problemi valutando la molteplicità dei punti di vista, a partire dai quali il problema può essere esaminato e la soluzione trovata con un percorso più breve o inaspettato.

COME ESSERE CREATIVI?

L’azione creativa avviene come prodotto di un pensiero creativo più o meno produttivo. Il processo creativo è formato da quattro momenti:

  1. conoscenza – uno stadio di preparazione, in cui si cerca di comprendere il problema in tutti i suoi aspetti e implicazioni;
  2. sedimentazione – uno stadio di incubazione, in cui il problema è presente sottotraccia;
  3. illuminazione – uno stadio di insight, in cui improvvisamente si trova la soluzione;
  4. verifica – un ultimo stadio, caratterizzato da un controllo accurato della soluzione trovata.

Per essere creativi può essere utile attivare un percorso irrazionale che amplifichi il nostro percepire, piuttosto che il nostro comprendere. Ad esempio, attraverso il brainstorming o “tempesta di cervelli”, una procedura collettiva nella quale ognuno, su un dato argomento, cerca di sparare idee a raffica senza pensarci troppo.

25 Nov 2020

FEMMINICIDIO: LA PSICOLOGIA DI UN DELITTO

FEMMINICIDIO: LA PSICOLOGIA DI UN DELITTO

Il femminicidio è l’omicidio di donne in nome di sovrastrutture ideologiche di matrice patriarcale. Si riferisce all’uccisione di una donna, bambina o adulta, da parte del proprio compagno, marito, padre o di un uomo qualsiasi, come conseguenza del mancato assoggettamento fisico e psicologico della vittima. Il femminicidio differisce dal generico omicidio, definito come “qualsiasi azione che abbia come conseguenza la morte di un soggetto da parte di un altro soggetto”.

La violenza che non sfocia in un gesto che provochi l’uccisione della vittima può, all’interno del rapporto personale o familiare, essere traumatica e dare l’avvio a disturbi post-traumatici da stress.

Sono state individuate due tipologie di sindromi conseguenti a maltrattamenti:

  • La sindrome di Stoccoloma domestica (Domestic Stockholm Syndrome, DDS) – è una condizione psicologica in cui una persona, vittima di un sequestro o di una condizione di restrizione della propria libertà, può manifestare sentimenti positivi nei confronti del proprio abusatore. Nelle donne maltrattate, tale sindrome si realizza come meccanismo di coping per fronteggiare le violenze intime. Le vittime credono che la propria sopravvivenza sia completamente nelle mani del suo abusante e che l’unico modo per sopravvivere sia di essergli fedele.
  • La sindrome della donna maltrattata (Battered Woman Syndrome, BWS) – è simile alla sindrome di Stoccolma, ma si iscrive all’interno di un “ciclo della violenza” che si articola in una prima fase di accumulo della tensione, una seconda fase di aggressioni e percosse, ed una terza fase di cosiddetta “luna di miele” (una fase “amorosa” di sollievo, che in realtà amplifica il disagio, creando nella vittima speranze illusorie sul fatto che il partner possa cambiare e la violenza possa cessare).

LE RICADUTE SULLA SALUTE

Le conseguenze sulle donne vittime delle violenze sono devastanti.

Un atto di violenza, fisico, psicologico o sessuale cambia una donna per sempre. Può colpire la sua salute fisica, distruggere la sua salute mentale e provocare danni e sofferenze che porterà con sé per il resto della sua vita. Spesso le vittime riportano:

  • lividi e contusioni;
  • gravi infortuni;
  • problemi ginecologici e riproduttivi;
  • gravidanze indesiderate e aborti;
  • malattie sessualmente trasmissibili, come l’HIV;
  • depressione e ansia;
  • disturbi alimentari;
  • disturbi del sonno;
  • dipendenze da alcol, fumo o droghe.

Nel peggiore dei casi arrivano al suicidio.

Quando la violenza è vissuta nell’infanzia le conseguenze sono ancor più drammatiche e irreversibili.

IL PROFILO DEL FEMMINICIDA

L’aggressore domestico secondo quattro tipologie:

  • Il controllatore – colui che teme che il proprio dominio e la propria autorità siano messi in discussione e che pretende un controllo totale sugli altri familiari;
  • Il difensore – che non concepisce l’altrui autonomia, vissuta perciò come una minaccia di abbandono, e sceglie quindi donne in condizione di dipendenza;
  • Colui che è in cerca di approvazione e deve continuamente ricevere dall’esterno una conferma per la propria autostima, mentre qualsiasi critica scatena una reazione aggressiva;
  • L’incorporatore – colui che tende ad un rapporto totalizzante e fusionale con la partner, e la cui violenza è proporzionale alla minaccia reale o alla sensazione di perdita dell’oggetto d’amore vissuta come catastrofica perdita di sé.

Isabella Betsos distingue alcune tipologie di uomo abusante:

  • I narcisisti – hanno necessità di continua ammirazione, sono insofferenti alle critiche, indifferenti alle esigenze altrui, risultano inclini a sfruttare gli altri e hanno la tendenza ad attribuire a questi ultimi la responsabilità di quanto di negativo capita loro.
  • I soggetti con “disturbo antisociale di personalità”, in passato denominati psicopatici e sociopatici – non riescono a conformarsi né alla legge, per cui compiono atti illegali, né alle norme sociali, per cui attuano comportamenti immorali e manipolativi. Elemento distintivo del disturbo è lo scarso rimorso mostrato per le conseguenze delle proprie azioni. Altre caratteristiche rilevanti sono l’impulsività e l’aggressività.
  • Gli individui che presentano un “disturbo borderline di personalità” (DBP) – caratterizzati da repentini cambiamenti di umore, instabilità dei comportamenti e delle relazioni con gli altri, marcata impulsività e difficoltà ad organizzare in modo coerente i propri pensieri. Possono esperire sensazioni di vuoto interiore, elevata irritabilità e attacchi di collera; vi può essere il ricorso ad alcol e droghe o a comportamenti autolesivi per ridurre la tensione emotiva. Essi presentano, inoltre, relazioni con gli altri tumultuose, intense e coinvolgenti, ma ancora una volta estremamente instabili e caotiche. Non hanno vie di mezzo, sono per il “tutto o nulla”, per cui oscillano rapidamente tra l’idealizzazione dell’altro e la sua svalutazione. In molti casi le due immagini dell’altro, quella “buona” e quella “cattiva,” sono presenti contemporaneamente nella mente del soggetto borderline.
  • I perversi narcisisti – allo stesso tempo più controllati e controllori, ma il controllo non è esercitato attraverso la violenza brutale, bensì per mezzo del plagio e della menzogna. Si nutrono dell’energia di quelli che subiscono il loro fascino ed è l’invidia a guidarli nella scelta del partner.
  • Le personalità paranoiche – coloro che hanno una visione rigida del mondo in generale, e dei ruoli dell’uomo e della donna in particolare, fino ad essere veri e propri tiranni domestici secondo i quali la donna dev’essere sottomessa, non deve prendere decisioni, né essere autonoma, coltivare interessi, tanto meno frequentare altre persone, magari neppure i familiari. Il loro atteggiamento allontana la partner, cosicché essi si sentono autorizzati a ritenersi nel giusto lamentando il disamore di questa.

Combinando le dimensioni delle caratteristiche di personalità e della gravità delle violenze, si distinguono:

  • l’aggressore dominante-narcisista – per il quale la violenza è al servizio del controllo sulla partner al fine di affermare la propria fragile autostima;
  • il geloso-dipendente – che utilizza la violenza sempre in funzione del controllo, ma soprattutto nel timore dell’abbandono da parte della compagna;
  • gli aggressori antisociali – caratterizzati in realtà da diversi livelli di gravità, ma accomunati dalla caratteristica di praticare la violenza dentro e fuori le mura domestiche, come pattern generale di violazione dei diritti altrui.

IDENTIKIT PSICOLOGICO DELLE VITTIME DI FEMMINICIDIO

Si è osservato come la determinazione familiare e culturale della violenza possa innescare quel meccanismo di “propensione alla vittimizzazione” che le vittime presentano. Tra le dinamiche individuate nella “passività” delle vittime di fronte ad aggressioni anche ripetute, è spesso citato il concetto di “incapacità appresa”, secondo cui chi è ripetutamente esposto a una punizione da cui non ha vie di fuga sviluppa la tendenza a non assumere il controllo del proprio comportamento anche quando tale controllo sarebbe possibile.

Tra i motivi per cui queste donne non sanno sottrarsi alla violenza (che sfocia spesso in femminicidio) c’è quello del mantenimento della credenza che vi sia mancanza di alternative, e gli abusanti lo sanno bene, tant’è vero che l’isolamento e la violenza economica sono forme di abuso abitualmente praticate: in questi casi, scomodare il “masochismo” o parlare di collusione per donne prive di alternative sociali ed economiche è solo aggiungere ingiustizia all’ingiustizia.

Un altro fenomeno che occorre considerare nell’illustrare le dinamiche di comportamento delle vittime di femminicidio è il “legame traumatico”, potente e distruttivo, che è talvolta osservato tra le donne maltrattate e i loro abusanti.

COSA FARE?

In primo luogo, è necessaria la valutazione del rischio; successivamente si agisce sulla riduzione del rischio, facendo leva, quando possibile, sulle possibilità di autoprotezione e sulle risorse della persona. Per capire se questo è attuabile, è necessaria una precoce valutazione degli aspetti dissociativi, che comprometterebbero chiaramente le azioni autoprotettive, rendendo quindi necessario l’allontanamento immediato da casa.

Nei casi in cui questo non avviene, si può iniziare a lavorare con la vittima perché incominci a ritagliare un piccolo spazio fisico e mentale in cui stare senza il persecutore, in cui possa incominciare a riappropriarsi di sé, ad avere dei segreti, piccoli momenti in cui ciò che domina dentro di lei non è la mente dell’altro.

Il percorso procede poi con lo svelamento del gioco relazionale dell’aggressore: la vittima deve poterlo comprendere e pian piano acquisire un punto di vista esterno alla dinamica relazionale che la domina. Grazie a questa presa di coscienza, poi, incominciare il distanziamento emotivo dal persecutore; questo apre alla possibilità di ricominciare a fare scelte autonome.

Una volta costruita l’alleanza, il lavoro psicoterapeutico che segue procede per fasi e obiettivi:

  • Ricostruzione della storia personale
  • Affrontare le memorie traumatiche
  • Elaborazione del lutto
  • Ricostruzione di legami affettivi
  • Imparare a combattere
  • Riconciliarsi con sé stessi.
18 Nov 2020

ALESSITIMIA ED EMPATIA

ALESSITIMIA ED EMPATIA

ALESSITIMIA deriva dal greco “Alexis thymos”, letteralmente “non avere parole per le emozioni”, ed indica un insieme di caratteristiche di personalità riscontrabili negli individui psicosomatici.

Furono John Nemian e Peter Sifneos ad introdurre tale termine agli inizi degli anni Settanta. Nello specifico, Sifneos lo coniò per indicare “un disturbo specifico nelle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo dei pazienti psicosomatici”. Non tutti i soggetti psicosomatici, però, esibiscono chiari elementi alessitimici.

Gli individui alessitimici, in genere, oltre ad avere un pensiero simbolico nettamente ridotto o assente, manifestano una serie di difficoltà rispetto a:

  • identificare, descrivere ed interpretare i propri e gli altrui sentimenti;
  • distinguere gli stati emotivi dalle percezioni fisiologiche (corporee);
  • individuare quali siano le cause che determinano le proprie emozioni;
  • utilizzare il linguaggio come strumento per esprimere i sentimenti, con conseguente tendenza a sostituire la parola con l’azione fisica.

I soggetti alessitimici, pur mostrando una normale attivazione fisiologica in presenza di emozioni, hanno ridotte capacità di riorganizzare gli elementi che caratterizzano la loro esperienza corporea in una rappresentazione mentale intrapsichica. Solo apparentemente, sono ben inseriti nella società. Di solito, assumono una postura rigida ed il loro volto manca di movimenti espressivi, presentano processi immaginativi coartati e tendono ad avere esplosioni di collera o di pianto incontrollato e, se interrogati sui motivi di queste manifestazioni, sono incapaci di dare spiegazioni e di descrivere quello che provano. Inoltre, tendono al conformismo sociale ed a stabilire relazioni interpersonali fortemente dipendenti, oppure preferiscono stare da soli ed evitare gli altri, tendendo quindi all’isolamento.

In più, gli individui alessitimici tendono ad assumere alcuni comportamenti compulsivi quali:

  • l’abbuffarsi di cibo;
  • l’abuso di sostanze;
  • il vivere in modo perverso la sessualità per liberarsi dalle tensioni causate da stati emotivi non elaborati.

Taylor, Bagby e Parker, a tal proposito, considerano l’alessitimia un disturbo dell’elaborazione degli affetti che interferisce con i processi di auto-regolazione e riorganizzazione delle emozioni.

Studi e ricerche recenti dimostrano che l’alessitimia è uno dei fattori di rischio per diversi disturbi, sia fisici (coronaropatie, ipertensione, disturbi gastrointestinali) che psicologici (anoressia e bulimia nervosa, depressione, disturbi d’ansia). Caratteristiche alessitimiche, inoltre, sono state individuate anche in pazienti con: dipendenza da sostanze, disturbo post-traumatico da stress, depressione. Infine, l’alessitimia è stata evidenziata anche nei pazienti cha hanno subito un trapianto, che sono in dialisi o in terapia intensiva.

COME SI SVILUPPA L’ALESSITIMIA?

Probabilmente non esiste un’unica spiegazione sulle cause di un fenomeno tanto complesso.

Gli stili di comunicazione, infatti, sono influenzati da fattori socioculturali, dall’intelligenza e dai modelli familiari di conversazione, oltre che da fattori genetici, neurofisiologici e intrapsichici.

In generale, una carente funzionalità dell’emisfero destro potrebbe spiegare non solo la difficoltà dei pazienti alessitimici a riconoscere e descrivere le loro emozioni, ma anche la loro minore capacità empatica.

Tra le varie definizioni possibili, l’alessitimia può essere considerata un deficit della funzione riflessiva del Sé per la mancanza di consapevolezza emotiva che la caratterizza.

COSA SI INTENDE PER EMPATIA?

Al contrario dell’alessitimia, l’EMPATIA è quell’abilità che consente alle persone di entrare in sintonia con i propri e gli altrui stati d’animo. Quanto più si è aperti verso le proprie emozioni, tanto più abili si è nel leggere i sentimenti altrui, infatti tale abilità si basa proprio sull’autoconsapevolezza e consente di capire come si sente un’altra persona. La capacità empatica permette di leggere e capire non solo le emozioni che le persone esprimono a parole, ma anche quelle che, più o meno consapevolmente sono espresse con il tono di voce, i gesti, l’espressione del volto e altri simili canali non verbali. Questa capacità entra in gioco in moltissime situazioni, da quelle tipiche della vita professionale a quelle della vita privata.

Secondo Goleman, l’empatia e l’autocontrollo sono due competenze sociali che aiutano l’individuo a costruirsi una vita relazionale ricca ed emotivamente soddisfacente, la quale influenza positivamente anche il benessere psico-fisico della persona.

06 Dic 2017

Tecniche inclusive per bambini B.E.S. [43]

Tecniche inclusive per bambini B.E.S. [43]

La Circolare MIUR n. 8 del 6 marzo 2013 indica alcune linee guida in presenza di bambini con bisogni educativi speciali (B.E.S.). Questo è il documento attraverso il quale il MIUR fornisce informazioni per favorire l’inclusione dei bambini B.E.S.

Cosa significa, in altre parole, l’acronimo B.E.S.? A chi si fa riferimento?

Ad ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, che può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta”.

(direttiva ministeriale 27 dicembre 2012)

 

Dunque, possono esserci casi in cui l’alunno, per un motivo od un altro, abbia maggiori difficoltà rispetto ai suoi compagni e per il quale il processo di apprendimento sia eccessivamente complesso.

Il MIUR identifica tre categorie di alunni B.E.S.:

– Alunni con disabilità

– Alunni con DSA (disturbi specifici di apprendimento), deficit di linguaggio, ADHD (deficit di attenzione e di iperattività)

– alunni con svantaggio sociale, culturale e linguistico

In alcuni di questi casi, come i DSA o i casi di disabilità, è opportuno che si presenti un’apposita certificazione, mentre in tutti gli altri casi è compito del docente considerare se un alunno abbia delle carenze di apprendimento o sia particolarmente svantaggiato.

Cosa può fare il docente per intervenire in maniera opportuna?

In primo luogo, è necessario comunicare la situazione ai genitori, con i quali si spera di poter collaborare al fine di intervenire per il bene dell’alunno. Ad ogni modo, però, compito principale del docente è quello di elaborare un piano educativo individualizzato (PEI).

Il piano educativo personalizzato viene redatto dal docente sulla base delle reali esigenze dell’alunno e della sua situazione di svantaggio: è possibile stabilire delle progettazioni didattico-educative basate sui livelli di attesa minimi, in base anche alle capacità dell’alunno e fornire strumenti compensatori o misure dispensative.

Il workshop organizzato da Psyche at Work, in programma il 15 – 16 – 17 Dicembre è mirato a fornire conoscenze e competenze teorico-pratiche per intervenire in maniera adeguata nei casi in cui siano presenti in classe alunni B.E.S.

Il corso intensivo, della durata di 12 ore, sarà tenuto dalla docente Rita Laneve, Educatrice e Pedagogista, esperta in disturbi dello sviluppo e bisogni educativi speciali. Secondo disponibilità della classe, la lezione di Domenica potrà essente anticipata al Sabato Pomeriggio con orario 14.30-18.30.

Per le iscrizioni, è possibile contattare la segreteria di Psyche at Work all’indirizzo info@psycheatwork.com oppure chiamare il numero verde 800.301657.

04 Dic 2017

*Pillole Operatore all’Infanzia*

*Pillole Operatore all’Infanzia*

Modulo VI: Bandi e finanziamenti per avviare una struttura socio-educativa innovativa: quali scegliere e come presentare la domanda

Ami i bambini e desideri trasformare questa tua passione in un vero e proprio lavoro? Con i nuovi bandi e i finanziamenti messi a disposizione per le nuove imprese è possibile avviare un servizio per l’infanzia ed intraprendere la via per l’autoimprenditorialità.

Ma come ci si muove attraverso le tortuose vie burocratiche? È necessario avere assolutamente una preparazione a riguardo ed avvalersi di figure competenti che possano aiutarci ad evitare inutili noie.

Il sesto modulo del Corso per Operatore all’Infanzia sarà tenuto dal Dott. Francesco Schettini, Pianista Finanziario, che ti aiuterà a capire le fasi che vanno dall’idea al progetto reale e come realizzare un Business Model Canvas.

Innanzitutto, facciamo un po’ di chiarezza. In cosa consiste un business plan aziendale e perché è fondamentale per avviare un’azienda?

Il primo passo per aprire un asilo nido privato (o una ludoteca, un babyparking, un agrinido) è chiedersi, appunto, che tipo di struttura si voglia avviare e passare dunque alla fase della pianificazione, momento nel quale viene definito nel concreto il Business Model Canvas.

Il BMC, dice il suo creatore Alexander Osterwalder, descrive la logica con la quale un’organizzazione crea, distribuisce e cattura valore. In altre parole, è un modello diviso in vari settori che l’imprenditore andrà a sviluppare in base alla propria idea di business. Ad esempio, la sezione ‘Proposta di valore’ presente all’interno del modello, così come si vede in foto, rappresenta il valore aggiunto che l’imprenditore vuole dare alla sua azienda e che permetterà ai clienti di scegliere lui e non qualcun altro.

Nel concreto, una proposta di valore riguardante il tema ‘strutture per l’infanzia’, potrebbe essere il miglioramento degli spazi di gioco, ad esempio con pareti colorate o con giochi innovativi che altre strutture non possiedono. Questo per fare non che un esempio.

business-model-canvas

Una delle sezioni più importanti da tener presente per elaborare una propria strategia di business è, poi, quella del rapporto tra costi e ricavi, quindi tenere in considerazione le schede ‘Flussi di ricavi’ e ‘Struttura dei costi’.

Perché questo modello è così importante per le imprese?

Perché permette di innovare un servizio sulla base del ‘visual thinking’, cioè permette di condividere con i soci o i collaboratori le idee aziendali in maniera semplice. In più permette di passare dalla teoria alla pratica elaborando facilmente strumenti e strategie per affrontare un investimento.

Il modulo del corso per Operatore all’Infanzia, dedicato all’argomento, è forse uno dei più importanti: non solo una formazione teorica e pratica sul servizio all’infanzia dunque, ma anche una formazione per avviare una propria struttura, avvalendosi di docenti esperti nel settore.

Il corso è alla sua IV edizione a Bari (a partire dal 19 Gennaio) e nelle nuove sedi di Lecce (a partire dal 24 Febbraio) e Matera (a partire dal 17 Marzo).