26 Giu 2019

Yoga della risata: che cos’è?

Yoga della risata: che cos’è?

Lo Yoga della Risata è una pratica che nasce in India grazie all’intuizione del Dottor Madan Kataria, un medico indiano che, a seguito degli studi sui benefici della risata, comunicati da Norman Cousins, e quelli di Ekman sulle emozioni, si rende conto che ridere fa davvero benissimo e che si può innescare la risata anche svincolandosi dall’umorismo e dalle barzellette.
Nasce così l’idea dello Yoga della Risata, una pratica di gruppo in cui la risata viene stimolata a livello fisico attraverso dei veri e propri esercizi fisici di risata.
Si inizia con un riscaldamento che sfrutta il contatto visivo – e quindi l’azione dei neuroni specchio, che permettono di attivare le aree motorie legate alla risata facilitando il contagio che avviene se qualcuno del gruppo ha una risata divertente – e che mette in relazione i componenti del gruppo in movimento, invitandoli a battere le mani con un clapping e ad agire la gioia. Sfruttando anche la giocosità e la riconnessione al nostro bambino interiore, che non vede l’ora di attivarsi e divertirsi, di “essere visto”, la risata si trasforma presto da risata autoindotta a risata spontanea ed autentica.
Al centro della pratica c’è la cosiddetta meditazione della risata, il cuore della sessione, e il momento in cui si ride liberamente e incondizionatamente, non più legati agli esercizi fisici, ma fluendo nella risata.
E poi l’incontro si chiude con una fase di rilassamento – che può essere uno Yoga Nidra, un Humming o una danza di radicamento, chiamata Grounding Dance – utilissima per rimettere in equilibrio il sistema e permettergli di giovare al massimo di tutta l’energia e la produzione biochimica prodotta nei dieci e più minuti di risata.
E’ un metodo efficace per ridere senza motivo, facendo emergere la gioia in chi lo pratica e quindi una felicità assoluta che non ha bisogno di stimoli esterni.
L’idea di fondo è quella rivoluzionaria di potersi concedere una risata anche quando non hai voglia, per fare bene al corpo, alla mente e allo spirito. Si parte dal principio che se immagini un’emozione, la produci attivamente e fai credere alla mente che stiamo bene e che ci stiamo divertendo.

PERCHÉ FUNZIONA LO YOGA DELLA RISATA?
La pratica si basa sugli studi scientifici di Paul Ekman, che testimoniano che il nostro corpo non distingue la differenza tra risata spontanea e risata autoindotta: entrambi mandano lo stesso segnale al cervello e in particolare all’amigdala (la parte più antica del nostro cervello, allenata a riconoscere cosa è familiare e quindi sicuro, e cosa non è conosciuto e quindi potenzialmente pericoloso) attraverso gli impulsi neuronali legati ai nostri muscoli, e attivano una produzione biochimica molto intensa, che noi chiamiamo joy cocktail: endorfine, i nostri antidolorifici naturali e le sostanze che ci generano uno stato di gioia ed euforia, serotonina, uno dei nostri antidepressivi naturali, autoprodotto, e l‘ abbassamento di cortisolo, ormone dello stress, con un conseguente aumento delle difese immunitarie. Tutto questo se si pratica la risata per almeno 10/15 minuti in maniera continuata, che è l’obiettivo della parte centrale di una sessione tipo di Yoga della Risata, la cosiddetta meditazione della risata.

DOVE SI PRATICA LO YOGA DELLA RISATA E QUALI SONO LE APPLICAZIONI?
Lo Yoga della risata nasce nel 1995 ed è diffuso in tutto il mondo in oltre 100 stati e in ogni continente. Si pratica principalmente nei Club della Risata, spazi gratuiti dove si è guidati da un leader, da un conduttore, e dove si ride in gruppo attraverso le fasi di una tipica sessione di Yoga della Risata.
Esso ha anche moltissime altre applicazioni e si può praticare dovunque ci sia un gruppo attraverso dei progetti: aziende, per gestire lo stress e i conflitti e fare team building, anziani e case di riposo, bambini e scuole, ospedali, disabilità, Alzheimer e demenza, carcere, comunità di recupero, genitori e figli, sport e squadre, con animali domestici e davvero moltissimo altro.

I BENEFICI DELLO YOGA DELLA RISATA
Lo Yoga della Risata è in grado di agire a più livelli, portando davvero tantissimi benefici, sul piano fisico, emotivo, mentale e spirituale.
Intanto a livello fisico la risata diaframmatica prolungata produce tantissime meraviglie: abbassa lo stress, il nostro killer numero 1, alla base di moltissime patologie, e permette di aumentare la nostra resilienza e avere più energia per gestire i momenti difficili e prepararci a situazioni che richiedono alta performance.

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La risata diaframmatica potenzia il lavoro polmonare e stimola l’apparato respiratorio, aumentando la nostra capacità polmonare e migliorando notevolmente il nostro umore.

Lo Yoga della Risata migliora il lavoro del cuore e del sistema cardiovascolare, potenziando l’endotelio e lo stato dei vasi sanguigni e con la pratica abbassando la pressione.

Lo Yoga della Risata garantisce salute anche al sistema nervoso, con l’attivazione del sistema nervoso parasimpatico, quello che ci calma, collegato ad un corretto lavoro del diaframma. Migliora anche la gestione del dolore, grazie alla produzione di endorfine.

Lo Yoga della Risata è anche considerato una sorta di antidepressivo naturale, perché aiuta nei casi di ansia e ci permette di attivare sentimenti di felicità.

A livello emotivo, lo Yoga della Risata aiuta a sviluppare una corretta intelligenza emotiva, la nostra capacità di esprimere correttamente le nostre emozioni, di gestirle e di comprendere le emozioni dell’altro.

A livello sociale, lo Yoga della Risata migliora la connessione tra le persone, perché è la nostra parte profonda che ride con l’altro, e si migliorano cooperazione e comunicazione, rendendoci più uniti e solidali, più inclini a sentimenti di cura e condivisione

A livello di pensieri, ridere fa bene quindi alla salute mentale e rompe il ciclo della negatività psicologica, aiutandoci anche a relativizzare i pensieri negativi e a focalizzarci sul positivo, anche grazie ad affermazioni e ripetizioni di frasi positive, come “Tutto andrà bene”.

A livello spirituale, lo Yoga della Risata è potente perché attiva il cosiddetto “spirito interiore della risata”, un’inclinazione al sentire di cuore, a sentire l’altro come nostro prossimo, a praticare apprezzamento, gratitudine, gentilezza, generosità, perdono.

16 Giu 2019

L’Outdoor Training

L’Outdoor Training

L’Outdoor Training è una metodologia di formazione esperienziale che va oltre una concezione strumentale dell’apprendimento, non più finalizzato alla carriera e al successo, ma all’individuo nella sua totalità affinché questi possa realizzare tutte le proprie potenzialità e quindi divenire attore sociale. La nuova formazione tende, infatti, a superare la vecchia concezione di costruire profili professionali specifici poiché intende permettere l’acquisizione di competenze, attraverso itinerari diversificati, utilizzabili in molteplici contesti.
Il fattore discriminante della nuova metodologia, pertanto, non si fonda su elementi quantitativi – maggior numero di conoscenze o competenze possedute – quanto piuttosto su aspetti qualitativi – migliore gestione delle conoscenze o competenze possedute. Di fatto, gli elementi che caratterizzano l’Outdoor Training sono sintetizzabili nei seguenti punti:
– La sperimentazione attiva e l’esperienza rappresentano la dimensione fondante l’apprendimento e la costruzione della competenza;
– L’osservazione e la riflessione che consistono in contesti spazio-temporali creati per ripensare all’esperienza appresa affinché si possa originare quel processo definito ‘apprendere ad apprendere’ e dunque si possa acquisire consapevolezza della formazione avvenuta;
– La generalizzazione che implica la possibilità di trasferire gli apprendimenti verificatisi in contesti diversi rispetto a quelli in cui si è prodotta la formazione.

In sintesi, l’Outdoor Training, a differenza delle modalità formative a bassa distanza analogica, si caratterizza per l’attivazione di esperienze che sono analoghe a ciò che si deve apprendere. Questo, inevitabilmente implica la presenza di un trainer che deve essere in possesso di specifiche competenze e soprattutto che sia in grado di gestire situazioni relazionali, dinamiche di gruppo, circostanze emotivamente impegnative e che sia capace di cogliere e sviluppare le potenzialità del singolo individuo e del team verso cui è rivolto il proprio intervento.

In Italia l’Outdoor Training è riconosciuto come metodologia valida per la formazione aziendale. Esso gode di tutte le ricerche che dagli anni ’40 – anni della sua prima applicazione per opera del pedagogista tedesco Kurt Hahn – a oggi sono state prodotte da psicologi e studiosi di “experential learning” o di “learning by doing”. “Apprendere facendo” è infatti la parola d’ordine dell’Outdoor Training che permette di migliorare non solo le competenze tecniche o di business nei lavoratori, ma anche le loro competenze interpersonali e sociali. Il fine didattico della formazione Outdoor è sviluppare determinati comportamenti e competenze nei partecipanti, coinvolgendoli sul piano fisico, cognitivo ed emozionale. In diverse aziende sono state realizzate attività all’aria aperta non solo per quadri e dirigenti ma anche per operai e impiegati, prendendo in prestito l’idea e i materiali da altri contesti come il mondo della natura, dello sport e del gioco, al fine di migliorare:
– le capacità comunicative: dare feedback costruttivi, proporre le proprie idee, parlare in pubblico, costruire rapporti collaborativi con altri;
– le capacità cognitive: risolvere problemi, divenire più creativi, ecc;
– il benessere psicofisico: gestire lo stress, gestire l’ansia, promuovere stili di vita sani, ecc.

L’Outdoor Training si svolge, con una modalità ludica ricreativa, all’aria aperta non solo per consentire uno sviluppo più armonioso dell’individuo con l’ambiente circostante e di cui è parte ma anche per consentire ai partecipanti di incontrarsi e sperimentarsi in diversi ruoli e contesti organizzativi. Anche se apparentemente fa sorridere l’immagine di manager, normalmente pensati con la ventiquattrore e la cravatta, che si lanciano da un paracadute o fanno rafting con gli altri impiegati, il training outdoor permette ai vari individui di uscire dagli schemi predefiniti e di vivere un’esperienza di apprendimento emotivamente coinvolgente per cui più resistente alle forze dell’oblio. A livello del singolo soggetto, infatti, il training outdoor consente:
– Lo sviluppo e la restituzione di abilità e competenze cognitive, culturali, sociali e lavorative;
– Lo sviluppo dell’autostima, attraverso la sperimentazione con successo di identità e ruoli funzionali.

Non si dimentichi come, inoltre, l’apprendimento esperienziale implica dei benefici a livello di gruppo. Così, se è vero che l’individuo si sviluppa sotto l’influenza del suo ambiente, è anche vero che, durante il suo sviluppo, modifica lo stesso ambiente. L’organizzazione aziendale che utilizza l’Outdoor Training come esperienza formativa si arricchisce infatti di:
– Una maggiore conoscenza delle interazioni tra individuo e ambiente interno;
– Una più efficace gestione delle dinamiche di relazione interpersonale attraverso lo sviluppo di un “clima di compartecipazione”.

A fronte dei numerosi benefici generati dalla nuova metodologia è doveroso indicare anche i punti deboli della stessa. Nello specifico, l’Outdoor Training comporta:
– costi elevati;
– tempi lunghi nella messa in atto;
– la difficoltà del trasferimento in azienda di quanto appreso nel corso dell’esercitazione soprattutto se la stessa non è seguita da una puntuale attività di restituzione e riflessione.
Da qui la necessità, per quanto possibile, di svolgere l’Outdoor Training in modo programmato e funzionale alle esigenze aziendali. Diverse sono, infatti, le attività che possono essere organizzate per applicare la metodologia dell’Outdoor Training. Naturalmente esse vengono scelte a seconda della tempistica, della logistica e degli obiettivi che si intendono perseguire. In ogni caso tutte le attività sono precedute dal briefing e sono seguite dal debriefing, in entrambi i casi guidati dai facilitatori. Il briefing è l’incontro volto alla definizione degli aspetti operativi e degli obiettivi di una determinata iniziativa. Il debriefing è invece il momento di riflessione che si verifica dopo aver vissuto l’esperienza outdoor. Secondo il modello di Mitchell, il debriefing si compone di 7 fasi:
1. Introduzione alla spiegazione dell’attività svolta e al lavoro di gruppo;
2. Discussione dei fatti accaduti durante l’attività attraverso le “narrazioni” e le prospettive multiple dei partecipanti;
3. Discussione dei Pensieri/Cognizioni avuti durante lo svolgersi dell’attività;
4. Discussione delle Emozioni provate durante lo svolgersi dell’attività;
5. Discussione degli effetti eventualmente conseguenti all’attività;
6. Informazioni aggiuntive sull’attività svolta, in modo particolare quelle che non sono emerse durante la discussione ma che presumibilmente, in base all’esperienza del facilitatore, possono riguardare ogni gruppo;
7. Conclusione anche con modalità informali tipo cena, aperitivo o altro.

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Nello specifico, le attività che normalmente vengono considerate parte della grande famiglia dell’Outdoor Training possono essere distinte in due grandi categorie: le piccole tecniche e le grandi esperienze. Nelle prime rientrano delle brevi e non troppo intense attivazioni volte a promuovere nei partecipanti la prospettiva di una nuova modalità di apprendimento. Si tratta, in altre parole, di piccole esercitazioni create per alfabetizzare e preparare il gruppo a situazioni più cariche e coinvolgenti, chiamate grandi esperienze. Queste ultime, di fatto, sono una serie di attività progettate ad hoc per far emergere precisi comportamenti che l’organizzazione intende promuovere e potenziare nel gruppo. Molteplici sono le esperienze realizzabili per la formazione aziendale, tra quelle più diffuse ricordiamo:
– La vela. La vita in barca, guidata dal gruppo dei partecipanti che costituisce l’equipaggio e dal trainer tecnico che rappresenta lo skipper, riproduce un’ottima situazione in cui si può misurare la capacità di adattamento psicofisico, lo sviluppo del lavoro di squadra, la tolleranza allo stress, il problem solving e la puntuale definizione dei ruoli e il rispetto delle regole;
– Il rafting. Si tratta di uno sport estremo che permette di sperimentare il lavoro di squadra, il coordinamento del gruppo e l’orientamento all’obiettivo. Il forte impatto emotivo prodotto da tale esperienza serve inoltre ad aggregare il gruppo nelle difficoltà, nella gestione del rischio e dell’incertezza;
– Il free climbing. Implica oltre che il potenziamento di gesti atletici e capacità fisiche anche e soprattutto il tema della fiducia e della responsabilità. Chi arrampica, infatti, si affida al compagno che in quel momento sta facendo da “sicura”, mentre chi è sotto si assume l’incombenza di vigilare sul proprio collega. Inoltre tale sport, comporta anche notevoli capacità di adattamento a situazioni atmosferiche diverse visto che in montagna è possibile fronteggiare caldo, freddo, sole e pioggia;
– L’orienteering. È una disciplina che si avvale di mappe, bussole e walkie talkie al fine di raggiungere una meta finale passando per dei punti nevralgici denominati “lanterne”. Oltre al senso dell’orientamento è facile intuire che tale esercitazione consente al gruppo di sperimentarsi in una situazione nuova e di incertezza che richiede collaborazione, problem solving, gestione delle risorse, raggiungimento degli obiettivi.

12 Giu 2019

L’effetto alone nel marketing

L’effetto alone nel marketing

L’effetto alone fa parte del repertorio classico della psicologia sociale, è un bias cognitivo, un pregiudizio che porta ad un errore di valutazione. L’alone è una sfumatura che percepiamo attorno a una fiamma o a un’altra sorgente luminosa.
Un fenomeno ottico, quindi, dato dall’impressione che la luce illumini un’area maggiore rispetto a quella reale.
E’ la difficoltà a valutare la realtà. Quante volte ci capita di giudicare una persona intelligente soltanto perché è di bell’aspetto? Le star di Hollywood dimostrano di possedere l’effetto alone. Perché spesso sono attraenti e simpatici e supponiamo naturalmente che siano anche intelligenti, amichevoli; insomma viene rimarcato su di loro un buon giudizio. Ma le nostre valutazioni, sono poi così accurate?
Percepiamo in maniera corretta la realtà dei fatti? La maggior parte delle volte questo non succede!
I politici per esempio conoscono molto bene i vantaggi di creare l’effetto alone. Cercano di apparire cordiali, amichevoli, sorridenti, mentre parlano di argomenti che spesso sono privi di sostanza o facendo giri di parole senza rispondere alle domande. Eppure le persone tendono a credere che la loro politica sia buona, perché la persona appare buona.

Il primo studio sull’effetto alone risale al 1920 con un’intuizione dello psicologo americano Edward Thorndike, noto per i suoi contributi alla psicologia dell’educazione, il quale osservò che quando veniva chiesto alle persone di valutare gli altri sulla base di una serie di tratti, una percezione negativa di uno dei tratti influenzava tutti gli altri.

Un inganno della mente quindi, successivamente studiato anche conducendo diversi esperimenti su gruppi di persone che hanno portato a risultati che confermano quanto potente sia questo effetto.
L’effetto alone trova molti esempi anche per quanto riguarda il marketing: è facile infatti che l’immagine di un prodotto o di un brand proveniente da un certo paese possa influenzare (positivamente o negativamente) l’opinione di altri prodotti provenienti da quello stesso paese.

Tra l’altro un effetto duraturo, difficile a morire, che funziona sia in direzione positiva che negativa, e che quando funziona in direzione negativa viene indicato come “devil effect”.
Un giudizio quindi che solo evidenti prove contrarie possono modificare, dato che sia l’effetto alone che l’effetto del diavolo influiscono su di noi senza che ce ne rendiamo conto.

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Pensiamo a quanto ciò possa influenzare i nostri giudizi sia sulle persone sia su tutto ciò che ci circonda: prodotti, canali di comunicazione, organizzazioni, politica: tutto è sottoposto a questo effetto.
Un grande impatto anche sul marketing, dove non è raro trovare “prodotti alone” appositamente lanciati per promuovere le vendite di un intero brand.

Basti pensare a quando, da utenti, approdiamo su un sito di cui ci piace un certo aspetto: è molto probabile che continueremo ad averne un giudizio positivo e torneremo a visitarlo.
Stesso vale per il contrario: un’esperienza negativa riguardo un certo aspetto farà sì che, sebbene nel frattempo quel sito venga migliorato, difficilmente torneremo a visitarlo.

Sempre per quanto riguarda il web marketing, è stato notato che la qualità dei risultati di ricerca interna ad un sito influenza notevolmente il giudizio che hanno gli utenti sulla qualità del marchio e dei suoi prodotti.
Un ragionamento non logico, certo, ma è proprio questo l’effetto alone: passare direttamente dall’impressione di un aspetto al giudizio complessivo.

Cosa di non poco conto, ad esempio, per chi analizza le prestazioni di un sito, in quanto un calo degli utenti potrebbe rispecchiare l’effetto della loro prima impressione negativa su alcuni elementi di progettazione, contenuti o grafica.

La conclusione è che, non potendo essere immuni dall’effetto alone, dovremo sempre farci i conti, sia per considerare i nostri giudizi sia, per chi lavora nel marketing, tenerlo in considerazione

05 Giu 2019

Il ruolo della Gamification nella rivoluzione HR

Il ruolo della Gamification nella rivoluzione HR

Le aziende stanno attraversando un periodo di grandi trasformazioni e cambiamenti. Il modo di vivere e intendere il lavoro sta cambiando. Sul posto di lavoro vengono richieste sempre meno azioni meccaniche e ripetitive e sono necessari piuttosto creatività, coraggio e leadership.

I cambiamenti del mondo del lavoro hanno fatto nascere nuove esigenze, come la flessibilità in entrata e in uscita, la libertà di gestire il proprio orario, un mind setting diverso che punta all’obiettivo e alle soluzioni.

Termini come smart working, employee advocacy, paradigma BYOD (Bring Your own Device – porta il tuo device a lavoro), lavoro da remoto e intrapreneurship hanno fatto la loro prepotente comparsa nelle aziende, già profondamente cambiate dalle nuove tecnologie e dai nuovi modi di organizzare il lavoro.

Ad accelerare questo processo che dà sempre maggiore rilevanza alle soft-skill e alla capacità di imparare rapidamente adattandosi a un contesto mutevole sono diversi fattori.

Ma cos’è la Gamification? Il termine, com’è facile intuire, deriva dalla parola “Game”, cioè gioco, anche associato al semplice divertimento senza scopi particolari. La Gamification tuttavia non è semplicemente questo, non solo: traendo vantaggio dall’interattività concessa dai mezzi moderni ed ovviamente dai principi alla base del concetto stesso di divertimento, la Gamification rappresenta uno strumento estremamente efficace in grado di veicolare messaggi di vario tipo, a seconda delle esigenze, e di indurre a comportamenti attivi da parte dell’utenza, permettendo di raggiungere specifici obiettivi, personali o d’impresa. Al centro di questo approccio va sempre collocato l’utente ed il suo coinvolgimento attivo.
Il mercato videoludico si è fortemente sviluppato negli ultimi anni, con numeri che continuano a crescere senza segnali di cedimento o rallentamento, soprattutto in funzione dei profitti. Quella del videogioco è ormai un’industria enorme, in grado di creare prodotti per molteplici piattaforme, dalle console dedicate ai telefoni cellulari alle TV domestiche.

How-Gamification-Can-Take-Digital-Employee-Engagem

Ma la gamification funziona davvero?
Possiamo davvero ricreare quel legame motivazionale che esiste da oltre trent’anni tra videogioco e videogiocatore in ambito lavorativo? O, in realtà, queste società stanno vivendo una sorta di allucinazione collettiva, e le leve di motivazione e ingaggio possono essere usate solo in un contesto ludico e disinteressato, proprio perché esse stesse rappresentano un momento di evasione e relax?
È davvero possibile trasferire gli sforzi mentali e fisici a cui il videogiocatore è abituato durante le sessioni di gioco all’ambito lavorativo.

Quel mix di concentrazione, attenzione al particolare, coordinamento, strategia, creatività e attitudine al problem solving o al lavoro di squadra?
La risposta è sì, come dimostrato da moltissime case histories.

Case studies nel mondo aziendale
Nel mondo del lavoro la gamification può servire a completare le informazioni che riceviamo dal CV di una persona, permettendoci di avere un riscontro sulla sua tenacia, resilienza, capacità di adattamento, problem solving, gestione del breve-medio-lungo termine, sulla sua capacità di creare strategie e sulla costanza nel perseguirle. Per questa ragione molte aziende scelgono di arricchire i propri processi di recruitment, performance management e talent acquisition con tecniche di engagement e gamification.
Non a caso la neonata scienza della Gamification da 100 milioni di dollari di fatturato attestato nel 2010 ha raggiunto i 2,8 miliardi nel 2016.

Nel Febbraio 2015 MSC crociere ha inaugurato Inner Islands, un progetto digitale che ha portato 8 studenti e giovani laureati a un contratto di stage retribuito presso le sedi in Italia, Francia, Spagna e Germania. A essere rivoluzionaria è la modalità di selezione del nuovo personale, non più attraverso colloqui standard bensì con un grande gioco che funge da tool di recruiting e validazione delle capacità dei candidati.

Un esperimento affascinante e di larga portata sicuramente da citare in questo ambito è la partnership del 2012 di Yammer e Badgeville, che hanno interfacciato le loro due piattaforme: quella di Badgeville che è una “Behaviour Platform” con la quale è possibile introdurre logiche di gamification in contesti aziendali guidando azioni e change behaviour, permette agli utenti di ottenere dei badge, che in seguito all’accordo sono notificabili all’interno del network Yammer, nota piattaforma creata per facilitare la comunicazione e la condivisione all’interno dei team aziendali.

Altro importante esempio nel campo del recruiting viene dall’Ungheria: una soluzione creata da T-System, denominata “I KNOW IT“. Un business game che mette alla prova i candidati in quattro specifiche aree di interesse aziendale: service desk, support/operation, testing e project management. La piattaforma analizza i risultati e fornisce agli aspiranti lavoratori dei feedback utili e, contemporaneamente, sgrava l’azienda dalla lettura di migliaia di CV attraverso un primo screening automatico.
Siamo pronti a scommettere che la Gamification e l’engagement design giocheranno un ruolo di primo piano nella rivoluzione in atto, cambiando il loro mindset e arricchendo gli strumenti di gestione delle risorse umane a disposizione della Direzione del personale.

Un esempio pratico? L’integrazione di una piattaforma di talent assessment con l’ATS aziendale permetterà alle aziende di sfruttare la gamification e incorporarla nei propri processi di ricerca e selezione.

In questo momento storico, tutto ciò che interagisce con l’uomo sta cambiando e il settore HR, essendo la funzione aziendale più vicina alle persone, rappresenta un enorme “touching point” tra l’azienda e coloro che in essa vivono, lavorano e si sviluppano. Un laboratorio dove tutto viene progettato, sperimentato e divulgato ad un ritmo che si fa sempre più veloce e dove le innovazioni diventano sempre più radicali, pervasive e rilevanti per il miglioramento della vita delle persone.

Se sfruttate nel modo corretto le dinamiche di gioco possono davvero aiutarci a migliorare la qualità della vita delle persone (sia come singoli sia come collettività) sotto tantissimi punti di vista.

La gamification è quindi tutt’altro che un gioco: si tratta anzi un’importante risorsa da conoscere meglio e applicare con attenzione.

29 Mag 2019

Emozioni e razionalità: le emozioni sono davvero così irrazionali?

Emozioni e razionalità: le emozioni sono davvero così irrazionali?

Alzi la mano chi non ha mai riflettuto sulle proprie ed altrui emozioni o non si sia mai sentito ostacolato da esse in determinate situazioni. Quando parliamo di emozioni, le abbiniamo immediatamente all’irrazionalità. Gli studi psicologici, tuttavia, dimostrano che esse sono, invece, molto razionali, poiché partono comunque dall’intelletto, derivano dalle funzioni cerebrali, e aiutano, più che ostacolare, l’uomo ad agire e reagire in determinati contesti in modo immediato.

Le emozioni esercitano un’influenza molto forte nella vita quotidiana di ciascuna persona, al punto da influenzare, di conseguenza, il corso delle azioni e le scelte.

Il significato etimologico di ‘emozione’ (dal fr. émotion, der. di émouvoir ‘mettere in moto, eccitare’ •sec. XVII) indica propriamente il movimento, l’impulso che ci porta all’azione. Ogni emozione non fa altro che dare voce ai nostri istinti: l’istinto di conservazione, di preservazione della specie, di difesa, di attacco, ecc.

In psicologia, le emozioni sono spesso definite come uno stato complesso di sentimenti che si traducono in cambiamenti fisici e psicologici, che influenzano il pensiero e il comportamento. L’emotività è associata a una serie di fenomeni psicologici, tra cui il temperamento, la personalità, l’umore e la motivazione.

Non possiamo negare le emozioni, ma solo imparare a identificarle e a canalizzarle, per il nostro equilibrio psicofisico. Se non ascoltate a pieno o assecondate, possono dar vita a disturbi di vario genere, come problematiche di ansia, ecc.

La reazione derivante dal provare un’emozione non è di una sola natura, ma di varie, poiché si tratta di risposte fisiologiche, neurologiche e cognitive.

Le principali teorie psicologiche sulle emozioni.

La teoria di James-Lange. È uno degli esempi più noti di teoria fisiologica delle emozioni. Lo psicologo William James e il fisiologo Carl Lange proposero teorie simili sull’emozione. Entrambi vollero sfidare quella che essi definivano la ‘teoria del senso comune’, secondo cui quando a qualcuno viene chiesto “Perché piangi?” replica: “Perché sono triste”. Questa risposta implica la convinzione che prima vengono le sensazioni, le quali, a loro volta, producono gli aspetti fisiologici ed espressivi dell’emozione. Secondo James e Lange, noi non piangiamo perché siamo tristi, ma ci sentiamo tristi perché piangiamo; non sorridiamo perché siamo felici, ma siamo felici perché sorridiamo, ecc. In sostanza, la reazione emotiva dipende da come vengono interpretate le reazioni fisiche.

La teoria di Cannon-Bard.  Walter Cannon, nel 1927, pubblicò una critica alla teoria James-Lange, convincendo molti psicologi che fosse una teoria insostenibile. Cannon sollevò la questione che l’emozione non è accompagnata da un unico evento fisiologico; lo stato di attivazione del sistema nervoso simpatico è, al contrario, presente in molte e differenti emozioni. Ad esempio, gli stati viscerali che accompagnano la paura e la rabbia sono esattamente gli stessi che sono associati alle sensazioni di freddo e alla febbre. Non sembra, dunque, possibile che le modificazioni fisiologiche negli organi viscerali provochino stati emotivi riconoscibilmente differenziati. Questa ipotesi venne poi ripresa da Philip Bard (1929), che sottolineò il ruolo fondamentale del talamo nello svolgimento dell’esperienza emotiva. Per Cannon e Bard (teoria di Cannon — Bard), gli impulsi nervosi che fanno passare le informazioni sensoriali vengono poi ritrasmessi attraverso il talamo, che riceve questo input verso l’alto della corteccia (provocando un’esperienza emotiva soggettiva) e verso il basso ai muscoli, alle ghiandole e agli organi viscerali (producendo delle modificazioni fisiologiche).

La teoria di Schachter-Singer. Conosciuta anche come la teoria a due fattori di emozione, è un esempio di teoria cognitiva dell’emozione. Questa teoria suggerisce che l’eccitazione fisiologica si verifica prima, e poi l’individuo deve identificare il motivo di questa eccitazione per sperimentare ed etichettarlo come emozione.

Vengono prima i processi cognitivi o quelli emozionali?

Secondo la teoria della valutazione cognitiva, la sequenza degli eventi coinvolge prima uno stimolo, poi un pensiero, per portare all’esperienza simultanea di una risposta fisiologica e dell’emozione. Ad esempio, se incontriamo un serpente nel bosco, immediatamente realizziamo che potremmo essere in pericolo. Ecco che sopraggiunge l’esperienza emotiva, ovvero quella della paura, e le risposte fisiche associate alla reazione di combattimento o fuga. Allo stesso modo, quando ascoltiamo in radio la nostra canzone preferita (stimolo), si attivano immediatamente sia il pensiero relativo al testo e al ritmo di quella canzone che l’attivazione fisiologica del nostro corpo, che vive così l’emozione.

Quali sono le emozioni principali?

Esistono due tipi di emozioni: le emozioni fondamentali e le emozioni complesse.

Le fondamentali sono dette anche ‘emozioni primarie’ poiché si manifestano già nei primi anni di vita dell’uomo e accomunano la specie umana a molte altre specie animali.

Le 6 emozioni primarie sono:

  1. Rabbia: generata dalla frustrazione e si può manifestare attraverso l’aggressività.
  2. Paura: è un’emozione dominata dall’istinto; ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una situazione pericolosa.
  3. Tristezza: si origina a seguito di una perdita o di uno scopo non raggiunto.
  4. Gioia: è un’emozione positiva di chi ritiene soddisfatti i propri desideri.
  5. Sorpresa: si origina da un evento inaspettato, seguìto da paura o gioia.
  6. Disgusto: è caratterizzato da una sensazione di repulsione o evasione di fronte alla possibilità, reale o immaginaria, di entrare in contatto con qualcosa di nocivo, che abbia delle proprietà contaminanti o infestanti.

Le emozioni complesse (secondarie) sono, invece, la combinazione tra emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e l’interazione sociale. Alcune sono: invidia;  allegria; vergogna; ansia; rassegnazione; gelosia; speranza; perdono; offesa; nostalgia; rimorso; delusione.

Emozioni e ragione sono alleate.

La visione che intende ragione ed emozione come forze antagoniste è ormai obsoleta e, possiamo azzardare nel dire, falsa. Gerald L. Clore, professore di Psicologia presso l’Università della Virginia, afferma: <<Piuttosto che pensare all’emozione e alla cognizione come cavalli che corrono in direzioni differenti, dovremmo pensare ad essi come capi di una stessa corda, rafforzati dal loro essere strettamente intrecciati>>.

La verità è dunque che non c’è un confine netto che separa la ragione dall’emozione. Si tratta di due dimensioni dell’essere umano che agiscono sempre insieme. Le emozioni danno luogo a certi pensieri, e i pensieri, a loro volta, fanno nascere determinate emozioni. Tutte le emozioni sono, in un certo senso, “pensate”.

Se consideriamo la razionalità in termini di processo psicologico, è doveroso ammettere che l’uomo non è da definirsi razionale in senso stretto, poiché le sue decisioni sono prese in larga misura sulla base di elementi inconsci, intuitivi, emotivi e strutturati attorno ad euristiche (scorciatoie di pensiero). Non è la razionalità, intesa come ragionamento controllato e logicamente corretto, a guidare la maggior parte delle scelte umane, soprattutto se esse devono essere prese in un tempo limitato, spesso immediato. Nonostante ciò, nella stragrande maggioranza dei casi, le nostre conclusioni sono valide e adattive. Un interessante studio longitudinale (Block & Funder, 1986) ha dimostrato che le persone che fanno maggiore affidamento sulle euristiche sono anche più felici, sane e affermate rispetto a quelle che invece fanno maggiore affidamento sul ragionamento deliberato e logicamente corretto.

Dovremmo, inoltre, dare la giusta rilevanza ai casi in cui una schiacciante emozione determina il comportamento. Questi casi possono essere certamente molto spiacevoli, come un omicidio passionale, ma, fortunatamente, non sono la norma. Quest’ultima è che il comportamento “insegue le emozioni”, come affermano Baumeister et al., 2006. Le azioni sarebbero motivate da sensazioni ed emozioni anticipate.

Si tratta, in sostanza, della ricerca del piacere e della fuga dal dolore come maggiori determinanti del comportamento umano.

Diversi studi dimostrano l’efficacia dell’emozione nella stimolazione del pensiero. L’apprendimento può essere favorito dalle emozioni. Per esempio, far apprendere l’alfabeto ad un bambino con dei giochini è più semplice ed efficace, in quanto il bambino sperimenta gioia attraverso il gioco.

Inoltre, gli stati di felicità favoriscono l’adozione di un punto di vista globale, mentre gli stati di malumore favoriscono l’attenzione per i dettagli. Ad esempio, fare un viaggio di piacere genera gioia e ci porta a vedere tutto molto positivamente, anche gli aspetti più quotidiani; avere un litigio con una persona cara ci porta, invece, a rimuginare sull’accaduto, ripensando ai dettagli della discussione e distogliendo l’attenzione dalle altre attività della giornata.

Tuttavia, anche l’interpretazione cognitiva, al contrario, vincolerebbe il significato dell’emozione, ne indicherebbe l’oggetto. In questo senso, l’intensità di un’emozione o, più generalmente, di uno stato affettivo, sarebbe in funzione dell’analisi cognitiva del contesto. Ad esempio, proviamo rabbia e tristezza quando apprendiamo la notizia di un omicidio, poiché è un atto che va contro il principio morale del diritto alla vita, ma proviamo maggiore rabbia e tristezza se la vittima è un bambino, poiché l’atto è considerato, a livello cognitivo e sociale, più riprovevole.

Possiamo concludere, dunque, che emozioni e razionalità non sono opposte, ma complementari e strettamente interconnesse.

29 Mag 2019

Social media manager: chi è e cosa fa

Social media manager: chi è e cosa fa

Sempre più spesso nell’ultimo periodo si è sentito parlare di social media manager, ovvero quella figura professionale che è rivolta alle aziende, istituzioni e organizzazioni, ma anche a figure pubbliche che si occupano di curare la propria immagine sui social network.
Questa figura professionale opera attraverso i principali social tra i quali YouTube, Facebook, LinkedIn, Twitter, Instagram e tanto altro.
Gli obiettivi in genere sono diversi, ma quelli più noti sono i seguenti ovvero: aumentare le vendite di un prodotto, migliorare la notorietà di una marca oppure l’immagine di una azienda. Spesso si tratta di una persona che, comunque, segue un percorso scolastico e professionale ben definito.
Una gestione efficace delle pagine e dei contenuti condivisi, il coinvolgimento della fanbase e la risoluzione in tempo reale delle eventuali “crisi”, del resto, sono task fondamentali per chi ha intenzione di investire sui social e su una strategia digitale coerente.

Il social media manager possiamo dire che è quella figura professionale che, in qualche modo, rappresenta un’azienda, un’istituzione e ne cura il progetto sui social network.
I canali che utilizza un social media manager sono quindi quelli di un:

– libero professionista
– di un’azienda
– una realtà no profit

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Il lavoro però in genere non è per forza legato a generare profitti in modo diretto, ma più che altro a raggiungere degli obiettivi. Si tratta quindi di un professionista che lavora proprio sui social network che gestisce una o anche più piattaforme, in base a quelle che sono le proprie necessità. Ovviamente trattandosi di una figura professionale a tutti gli effetti, deve essere in possesso di determinati requisiti e quindi deve essere una persona competente, con esperienza e propensione verso il lavoro. Come abbiamo già anticipato, dunque, è una una figura professionale che si rivolge alle organizzazioni, alle aziende, alle situazioni ma anche a figure pubbliche che vogliono in un qualche modo curare la propria immagine sui social network.

Gli obiettivi possono essere davvero tanti, come ad esempio:

– aumentare le vendite di un determinato prodotto o servizio
– aumentare la notorietà di una determinata marca o di una determinata azienda

Detto ciò ci si chiede quali siano effettivamente i suoi compiti e quindi quale può essere il campo di azione. La risposta è piuttosto semplice, ovvero il social media manager si occupa di quelli che sono i profili Social e va a definire un vero e proprio piano editoriale per ogni canale, studiandone e creando i contenuti, ma soltanto dopo aver studiato un target di riferimento e stilato gli obiettivi ben precisi.

Una volta fissati questi ultimi, il social media manager va a studiare un piano specifico per il cliente andando anche ad individuare il social più adatto per raggiungere il suo obiettivo. Soltanto a questo punto sviluppa una strategia specifica e poi va a fissare quindi gli obiettivi, i competitor ed anche il budget. Soltanto in un secondo momento si va ad occupare della gestione operativa dei social, che si può anche organizzare insieme ad altre strutture figure professionali che facciano parte sempre del team. Successivamente deve necessariamente pensare a gestire il piano editoriale, andando a definire gli argomenti i tempi ed anche i formati.

In questa fase coinvolge anche altre figure professionali come il grafico, il copywriter, il montaggio video. Infine c’è una fase che dedicata alla gestione del pubblico e alla discussione con il pubblico, ovvero quella fase in cui la pagina Facebook diventa un vero e proprio canale di customer care.

Chiunque sia convinto che il lavoro del social media manager si limiti a postare contenuti su Facebook, Twitter e simili, e al massimo a rispondere a un paio di commenti, si sbaglia.
Curare i canali social di un’azienda, un ente, un’associazione o qualsiasi altro soggetto pubblico, infatti, significa mettere in gioco non solo conoscenze tecniche (rispondendo a specifiche domande, come: quali sono i tool migliori per la propria strategia digitale, come si calcola il ritorno sopra gli investimenti e come fare per massimizzarlo, quali sono le scelte di contenuto che premiano il coinvolgimento delle community), ma anche una serie di soft skill che hanno a che vedere, per esempio, con le dinamiche delle interazioni umane e i rapporti interpersonali.

Quello dei social media è un mondo in continua trasformazione: cambiano gli strumenti, cambiano gli algoritmi e, a volte, non basta “copiare” dai contenuti più virali del periodo i principi per una strategia social vincente. L’unica cosa che si può fare è rimanere costantemente aggiornati sulle novità del settore e imparare dalla propria stessa presenza in questi ambienti, anche quando ciò significa esporsi al rischio fail.

22 Mag 2019

L’ autostima: cos’è e com’è possibile migliorarla

L’ autostima: cos’è e com’è possibile migliorarla

Sentiamo spesso parlare di autostima e molte persone, professionisti e non, dispensano di frequente consigli sulle strategie per aumentarla. L’autostima, tuttavia, è un costrutto non semplice da descrivere.

Allora, cos’è esattamente l’autostima?

L’autostima può essere definita come “l’ insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di se stesso” (Battistelli, 1994).

A costituire il processo di formazione dell’autostima, vi sono due componenti: il sé reale e il sé ideale.

Il sé reale è una visione oggettiva delle proprie abilità, di quello che si è realmente; il sé ideale corrisponde a come l’individuo vorrebbe essere.

Maggiore sarà la discrepanza tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, minore sarà la stima di se stessi, anche in base alle esperienze vissute e al confronto con gli altri. Per ridurre questa discrepanza, la persona può ridimensionare le proprie aspirazioni, in modo da avvicinare il sé ideale a quello percepito, oppure potrebbe cercare di migliorare il sé reale (Berti, Bombi, 2005).

In base a quali aspetti, nello specifico, un individuo si valuta positivamente o negativamente?

Giudizi altrui, sia diretti che indiretti. Si tratta del cosiddetto ‘specchio sociale‘: tramite le opinioni comunicate da altri significativi, il soggetto si autodefinisce.

Confronto sociale: la persona si valuta confrontandosi con chi lo circonda, traendo una valutazione su se stesso.

Processo di autosservazione: l’ individuo si valuta osservandosi, come se fosse una persona esterna, e riconoscendo le differenze tra se stesso e gli altri.

Ad esempio, Kelly (1955), il padre della Psicologia dei Costrutti Personali, considera ogni persona uno ‘scienziato’ che osserva, interpreta, attribuendo significati alle proprie esperienze, e cerca di predire ogni comportamento o situazione, costruendo una teoria su di sé per facilitare il mantenimento dell’autostima.

Le persone si muovono attraverso dei piani ideali: alcuni sono legati ad aspetti concreti e quotidiani della vita (ad esempio: “studiare in modo costante per laurearsi in corso”), altri a questioni più astratte, da realizzare a lungo termine (ad esempio: “diventare un professionista di successo”).
Esistono, principalmente, due tipi di ideali: gli ideali propriamente detti, ovvero esperienze, concetti e standard di riferimento a cui riferirsi e a cui tendere , e gli ideali negativi, ovvero persone, mete e circostanze (anche simboliche), da cui gli individui cercano di distanziarsi perché le giudicano negativamente.

A volte, le autoanalisi che contribuiscono a definire l’autostima di una persona sono falsate dalle sue distorsioni cognitive, ovvero da pensieri che inficiano la considerazione di sé e che di frequente non corrispondono a realtà (o solo in parte), oppure vengono generalizzati a tutti i contesti, o vengono ingigantiti, o non permettono di apprezzare a pieno i successi.

 

Ma come possiamo accrescere la nostra autostima?

 

Secondo Toro (2010), per accrescere la percezione positiva di sé esistono diverse strategie, quali:

  • l’incremento delle capacità di problem solving, poiché spesso l’autostima è in funzione delle proprie capacità di risolvere i problemi.
  • Lo sviluppo di un dialogo interiore (self – talk) positivo. Ad esempio, ripetere a se stessi (quotidianamente o in caso di necessità): “posso farcela”, “sono in grado”, “anche se non è semplice, ho tutte le capacità per poterlo fare”, migliora la percezione di sé e, di conseguenza, la propria autostima.
  • La ristrutturazione dello stile di attribuzione, tesa a farci raggiungere una maggiore obiettività, grazie alla quale è possibile interpretare situazioni e avvenimenti che non dipendono da noi come semplicemente sfavorevoli.
  • Il miglioramento dell’autocontrollo.
  • La modifica degli standard cognitivi: ponendoci aspettative eccessivamente elevate corriamo il rischio di non essere all’altezza di quelle attese e, quindi, di influenzare negativamente l’autopercezione. E’ necessario, dunque, porsi obiettivi più facilmente raggiungibili, mantenendo il giusto grado di ambizione.
  • Il potenziamento delle abilità comunicative: imparare ad essere assertivi, ad esprimere le proprie opinioni, necessità ed emozioni senza difficoltà, all’interno dei contesti sociali.

Infine, quando parliamo di autostima, non possiamo non fare riferimento al concetto di autoefficacia.

Con il termine ‘autoefficacia’ (Bandura, 2000) si intende la fiducia nelle proprie capacità di escogitare le strategie che ci consentono di affrontare nel modo ottimale qualsiasi evenienza.

La nostra autoefficacia dipende da molte variabili, quali, ad esempio: l’esito positivo di situazioni e contesti problematici affrontati; le esperienze vicarie, cioè quelle vissute indirettamente tramite l’osservazione degli altri che hanno saputo fronteggiare brillantemente situazioni di difficoltà, e lo stato di benessere derivante dall’aver superato prove particolarmente impegnative.

 

 

 

21 Mag 2019

La figura del Navigator

La figura del Navigator

Il navigator è la nuova figura professionale prevista nel decreto del Reddito di Cittadinanza 2019 (RdC) per aiutare i cittadini a trovare un lavoro. Infatti all’interno del pacchetto di misure che regola il reddito di cittadinanza è stata introdotta la figura del “navigator”, o tutor del reddito di cittadinanza. Il suo compito principale è seguire il disoccupato dalla presa in carico nei Centri per l’Impiego fino all’assunzione.

Chi sono e che cosa faranno i navigator?

Il navigator deve facilitare l’incontro tra i beneficiari del programma RdC e i datori di lavoro, i servizi per il lavoro e i servizi di integrazione sociale. Ha dunque il compito di fornire assistenza ai CPI (Centri per l’Impiego) nel seguire i beneficiari del reddito di cittadinanza nella ricerca di una nuova occupazione, e al tempo stesso di controllare che tutte le attività proposte siano svolte nei modi e nei tempi stabiliti.

La prima fase del lavoro di un navigator è quindi prendere in carico l’utente nel Centro per l’Impiego. Tutti coloro che usufruiscono del reddito di cittadinanza devono infatti siglare un “Patto per il Lavoro” con un centro per l’impiego o un’agenzia di lavoro. Il patto stabilisce la disponibilità immediata al lavoro della persona e l’adesione ad un percorso di inserimento lavorativo individuale.

Proprio il navigator si occupa di strutturare i percorsi individuali necessari all’inserimento e al reinserimento nel mercato del lavoro. Il navigator fa un colloquio di orientamento con i singoli candidati, per stabilire un bilancio di esperienze e competenze. Confronta poi il profilo del candidato con la domanda di lavoro locale e nazionale, per individuare le offerte di lavoro più in linea con il candidato.

Il tutor dei Centri per l’Impiego svolge quindi un servizio di orientamento e sostegno nella ricerca di occupazione, spiegando tecniche, pratiche, canali e strumenti di ricerca lavoro. Se in linea con le possibilità del candidato, il navigator propone anche un percorso di informazione e sostegno all’autoimpiego (lavoro autonomo), all’impenditorialità e all’avvio di un’impresa. Da qui il significato di navigator: un professionista che possa indirizzare e guidare il disoccupato verso un nuovo lavoro, trovato o creatob36579863623f8260810818dd318c2c5

Quali sono le competenze del Navigator?

Il bilancio delle competenze può invece evidenziare la necessità di formazione o aggiornamento professionale in ottica di una ricollocazione del candidato sul mercato del lavoro. In questo caso il navigator crea per il beneficiario del reddito di cittadinanza dei percorsi di formazione e riqualificazione, inseriti all’interno di un “Patto di Formazione” stipulato con gli enti di formazione accreditati o con i datori di lavoro.
Un’altra mansione del navigator è quella di controllare e sorvegliare il beneficiario del RdC. Infatti per continuare a ricevere il reddito di cittadinanza bisogna rispettare alcuni obblighi, come la frequenza delle attività di formazione, l’accettazione di una delle prime tre offerte di lavoro congrue, e lo svolgimento di almeno 8 ore settimanali in progetti e lavori socialmente utili per la comunità. Il navigator quindi supporta il beneficiario del reddito di cittadinanza nella ricerca del lavoro e al tempo stesso controlla che si impegni attivamente a seguire il percorso proposto.
A livello pratico, per diventare navigator è richiesta una laurea magistrale in economia, giurisprudenza, sociologia, scienze politiche, psicologia o scienze della formazione. Oltre al requisito della laurea, il navigator sarà uno specialista che avrà conseguito quattro anni di esperienza nel settore delle consulenza per il lavoro.

É inoltre fondamentale che il navigator sappiaRead More

15 Mag 2019

Errare humanum est: un contributo per la gestione delle HR

Errare humanum est: un contributo per la gestione delle HR

Il desiderio principale dell’individuo oggi è la ricerca continua della perfezione.

Nonostante esso cerchi di non cadere negli errori, tende quasi sempre a imbattersi in essi.
L’errore però, non sempre viene tollerato e perdonato soprattutto nei luoghi di lavoro dove molte realtà aziendali hanno valori come la competitività e l’efficientismo, e alcuni sbagli possono limitare il raggiungimento dei loro obiettivi.
Oggi le aziende dovrebbero avere invece un atteggiamento più aperto a fronte della complessità della realtà e cercare di gestire gli errori umani.
“Errare” secondo Karl Popper, filosofo ed epistemologo viennese, significa ricercare la verità. Se l’uomo vuole migliorare se stesso deve essere critico e riuscire ad ammettere gli errori che compie.
Secondo la concezione connessionista, (modello delle scienze cognitive che per spiegare il funzionamento della mente si ispira alla struttura del cervello in quanto costituito da reti neurali) una impresa, l’uomo e le aziende si evolvono grazie agli errori e all’apprendimento che da questi ne deriva.
Si parte dal presupposto che un’azienda perfetta abbia bisogno di sbagliare altrimenti non sarebbe in grado di cambiare. Il cambiamento potrà essere positivo o negativo, sarà utile a essa per migliorarsi senza correre il rischio di rimanere chiusa entro i suoi limiti.
Chi lavora fa errori. Chi lavora molto fa molti errori. Chi non fa errori non lavora (Elmar von Lukowitz, direttore generale Uniroyal).
Sul posto di lavoro è facile sbagliare, soprattutto se il carico è alto. È fondamentale ammettere di avere dei problemi riguardo la consegna di un lavoro, spiegandone i motivi e offrendo una ipotetica via d’uscita.
Ammettere di avere sbagliato mostra un comportamento responsabile nei confronti del problema; bisogna riconoscere l’errore con le persone che si sono danneggiate affrontando la questione a viso aperto.
Si rischia di compiere un errore ancora più grande se dopo aver sbagliato non si è più in grado di lavorare come prima.

In questo modo le esperienze passate possono influire negativamente sul proprio operare e limitare la possibilità di rimettersi in gioco.
Nascondere un errore diventa l’errore stesso che una persona può commettere. Riconoscerlo e mostrarlo invece, incrementa lo sviluppodelle risorse dell’individuo.

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Karl Popper diceva: “L’unico errore che non ha scuse è cercare di nascondere o minimizzare un errore invece di cercare di imparare il più possibile dal medesimo”.

08 Mag 2019

Le persone al centro della trasformazione digitale

Le persone al centro della trasformazione digitale

Per QWERTY si intende semplicemente la sequenza delle lettere dei primi sei tasti della riga superiore della tastiera di ogni pc. Lo schema fu brevettato nel 1864: le coppie di lettere maggiormente utilizzate vennero separate così da evitare che i martelletti delle macchine da scrivere si incastrassero tra loro, costringendo chi scriveva a doverli sbloccare manualmente. Nel 1932 fu presentata una diversa tastiera, che avrebbe consentito di rendere molto più veloce la scrittura ma non venne accettata. Ormai tutti si erano abituati allo schema “qwerty”, perché cambiare?! Solo per rendere più veloce la battitura?! Da allora le tastiere sono rimaste inalterate, tanto “si è sempre fatto così…”. Potremmo tutti scrivere più veloci ma non lo facciamo. Creiamo macchine sempre più sofisticate e potenti ma siamo prigionieri dell’abitudine, anche se palesemente anacronistica.

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Teoricamente questo tipo di approccio in sé potrebbe essere considerato perfino corretto, così come lo è ogni abitudine. Tutti noi normalmente viviamo solo grazie alle nostre abitudini. Il nostro cervello sul piano fisiologico è alla costante ricerca di tutti i modi possibili per economizzare ogni sforzo. L’abitudine è la risposta quotidiana a questa necessità. Non è necessario pensare ogni volta a ciò che dobbiamo fare. La facciamo e basta, perché così abbiamo sempre fatto e ci siamo sempre trovati bene nel fare certe cose invece di altre.

Facciamo un esempio. Ogni mattina, quando dobbiamo andare al lavoro, per guidare l’auto attiviamo il “pilota automatico” dell’abitudine. Facciamo sempre lo stesso percorso senza pensarci. Liberata l’attenzione dal compito di decidere la strada possiamo dunque dedicarci ad altro. Da una parte saremo più vigili su imprevisti repentini come un ciclista che ci taglia la strada, dall’altra potremo lasciare spazio all’immaginazione o ad attività a maggior valore aggiunto come la pianificazione della giornata di lavoro.

La vita organizzativa tende a essere modellata sulla falsariga del meccanismo che regola la vita individuale. Poiché, però, il contesto e il mercato cambiano con sempre maggiore velocità mentre l’organizzazione tende a conformarsi ad abitudini e regole non scritte ma operanti nei fatti, è lecito aspettarsi una sempre maggior lontananza tra quello che avviene quotidianamente e quello che sarebbe auspicabile per massimizzare il rapporto costi – benefici. In questo senso l’organizzazione vive strutturalmente nel “non sufficientemente ottimizzata”.

L’ottimizzazione quasi sempre deve muoversi contemporaneamente su più versanti: tecnologico, organizzativo funzionale e gestionale e umano. Nel giro di breve i downsizing, che normalmente giocano solo sul versante delle risorse umane, hanno il fiato corto.

Il senso di urgenza è necessario ma da solo non può bastare. Per analogia, il cantiere dell’ottimizzazione continua ha bisogno di elargire gratificazioni ai promotori del cambiamento e a chi ne subisce più degli altri gli oneri immediati.

Nel contempo è necessario tranquillizzare chi non è investito immediatamente dai processi di riorganizzazione, affinché possa lavorare con serenità. È quindi sempre molto utile avviare una rassicurante attività di comunicazione interna e di sviluppo per tutta la rimanente parte dell’organismo che deve continuare a produrre con forte motivazione e sguardo al futuro.

Per attecchire realmente ogni cambiamento si dovrà poi trasformare a poco a poco in una nuova abitudine, una sorta di nuovo percorso per andare al lavoro, che io possa rifare tutte le mattine senza doverci sempre ripensare.