10 Feb 2021

CAREER RESILIENCE

CAREER RESILIENCE

Come sottolineano Lyons, Schweitzer e Ng (2015), la resilienza è un termine che inizialmente si riferiva alla capacità umana di superare eventi estremamente avversi o traumatici, come la morte di un parente stretto o una situazione violenta o pericolosa per la vita (Bonanno 2004). Da allora, essa è diventata una parola molto utilizzata nella quotidianità, per indicare la capacità di mantenere un equilibrio in diverse circostanze avverse, incluso il posto di lavoro.

La Career Resilience o resilienza professionale (di carriera) include la capacità dell’individuo di adattarsi alle mutevoli circostanze e far fronte a situazioni lavorative negative (Noe, Noe & Bachhuber, 1990); essa può essere considerata una componente di mantenimento della motivazione professionale. La resilienza di carriera implica il tentativo, da parte del lavoratore, di mantenere livelli di prestazione ottimi di fronte a vincoli situazionali come pressioni di tempo, mancanza di risorse o indicazioni inadeguate da parte di colleghi e subordinati.

Le avversità sul posto di lavoro possono essere viste come qualsiasi evento o periodo negativo, stressante, impegnativo, difficile o addirittura traumatico che si incontra nell’esercizio della propria professione (Jackson, Firtko & Edenborough, 2007). Può riguardare ad esempio la necessità di far fronte al rifiuto che nell’attuale mercato del lavoro, sempre più competitivo dove c’è molta concorrenza per le posizioni in particolare per i neolaureati, ha un tasso di presenza estremamente elevato.

L’IMPORTANZA DELLA RESILIENZA NEL LAVORO

A questo proposito, per esempio, Waterman et al. (1994) hanno sostenuto che i lavoratori resilienti nella propria carriera, quindi focalizzati sull’apprendimento continuo, sull’adattamento al cambiamento, sull’autogestione della carriera e sulla soddisfazione delle esigenze in evoluzione del mercato, sono una fonte di vantaggio competitivo per le aziende che competono nell’economia globale. Inoltre, Noe et al. (1990) hanno dimostrato che le persone più resilienti nella loro carriera dimostrano maggiore: senso d’iniziativa, fiducia in sé stessi, creatività, assunzione di rischi, qualità del lavoro, sviluppo personale, prestazioni positive. Oltre a questo, essi hanno bassi livelli di assenteismo di fronte a vincoli situazionali come pressioni di tempo, risorse insufficienti e ambiguità di ruolo.

Uno dei primi riferimenti alla resilienza di carriera (CR) è stato fatto da London (1983) che lo ha identificato come uno dei tre domini della motivazione di carriera (gli altri due sono Career Identity e Career Insight). London (1983) ha definito la Career Resilience come “a person’sresistance to career disruption in a lessthanoptimalenvironment” e ha indicato come suo contrario la Career Vulnerability che ha descritto come “the extent of psychologicalfragility [. . .] whenconfronted by lessthanoptimal career conditions” (p. 621). Secondo London, ci sono tre sottodomini di CR: self-efficacy (autoefficacia), risk taking (assunzione di rischi) e dependency (dipendenza). È probabile che gli individui con un’elevata autoefficacia, una disponibilità a correre rischi e una minore dipendenza (in particolare in termini di necessità di approvazione) abbiano elevati livelli di Career Resilience.

Dagli anni Novanta, c’è stato un aumento delle pubblicazioni accademiche sulla resilienza di carriera dovuto al continuo cambiamento in atto nei contesti delle carriere (Baruch, Szűcs e Gunz, 2015). Nello specifico in alcune professioni è importante possedere una buona resilienza di carriera, soprattutto per le cosiddette “professioni di aiuto”, come l’insegnante (ad esempio, Gu, 2014; Mackenzie, 2012) o l’infermiere (ad esempio Hodges, Keeley, &Troyan, 2008; Ngoasong & Groves, 2016).

Tra gli studi che hanno approfondito la relazione tra la Career Resilience e i suoi esiti (come ad esempio Subjective Career Success e Job Satisfaction), ci sono quelli di Wei e Taormina (2014) e di Lyons, Schweitzer e Ng (2015). I primi hanno trovato una relazione positiva tra la resilienza di carriera e la percezione degli infermieri del proprio successo professionale. I secondi hanno visto che la Career Resilience media le relazioni tra personality (personalità), career self-evaluation (autovalutazione professionale) e modern career orientation (orientamento professionale moderno) con la soddisfazione professionale (career satisfaction).

BIBLIOGRAFIA

  • Baruch. Y.,Szűcs. N.,&Gunz. H. (2015). Career studies in search of theory: The rise and rise of concepts. Career Development International. 20: 3-20.
  • Bonanno. G.A. (2004). “Loss. trauma and human resilience: have we underestimated the human capacity to thrive after extremely aversive events?”. American Psychologist. 59 (1): 20-28.
  • Gu. Q. (2014). The role of relational resilience in teachers’ career-long commitment and effectiveness. Teachers and Teaching: Theory and Practice. 20: 502-529.
  • Hodges. H. F., Keeley. A. C.,&Troyan. P. J. (2008). Professional resilience in baccalaureate-prepared acute care nurses: First steps. Nursing Education Perspectives. 29: 80-89.
  • Jackson. D.,Firtko. A.,& Edenborough. M. (2007). Personal resilience as a strategy for surviving and thriving in the face of workplace adversity: A literature review. Journal of Advanced Nursing. 60: 1-9.
  • London. M. (1983). Toward a theory of career motivation. Academy of Management Review. 8: 620-630.
  • Mackenzie. S. (2012). I can’t imagine doing anything else: Why do teachers of children with SEN remain in the profession? Resilience. rewards and realism over time. Journal of Research in Special Educational Needs. 12: 151-161.
  • Ngoasong. M. Z.,& Groves. W. N. (2016). Determinants of personal resilience in the workplace: Nurse prescribing in an African work context. Human Resource Development International. 19: 229-244.
  • Noe. A., Noe. A. W. &Bachhuber. J. A. (1990). An Investigation of the Correlates of Career Motivation. Journal of Vocational Behavior. 37: 340:356.
  • Waterman. R. H., Jr., Waterman. J. A. & Collard. B. A. (1994). Toward a career-resilient  workforce. Harvard Business Review. 72(4): 87-95.
  • Wei. W. & Taormina. R. J. (2014). A new multidimensional measure of personal resilience and its use: Chinese nurse resilience. organizational socialization and career success. Nursing Inquiry. 21: 346-357.

 

 

03 Feb 2021

ANTECEDENTI DEL SUCCESSO DI CARRIERA

ANTECEDENTI DEL SUCCESSO DI CARRIERA

Negli anni ci sono stati numerosi studi che si sono focalizzati sugli antecedenti o sui predittori del successo di carriera, e nello specifico, su tutti quei fattori che potrebbero favorire o limitare la possibilità di raggiungere determinati obiettivi di carriera da parte dei lavoratori.

MODELLO CONCETTUALE DEL SUCCESSO DI CARRIERA DI JUDGE, CABLE, BOUDREAU E BRETZ (1995)

Secondo questo modello, tra i predittori del successo di carriera oggettivo ci sono:

  • Le variabili demografiche – ad esempio l’età predice positivamente il successo di carriera oggettivo (Cox & Nkomo, 1991) e gli individui sposati raggiungono livelli di successo oggettivo più elevati rispetto agli individui non sposati (Judge & Bretz, 1994).
  • Le variabili di capitale umano – la teoria del capitale umano postula che il mercato del lavoro premi gli investimenti che gli individui fanno in sé stessi e che questi investimenti portino a tassi di promozioni e salari più elevati (Becker, 1964). Il capitale umano include le esperienze formative, personali e professionali che fa un lavoratore.
  • Le variabili motivazionali – come, ad esempio, le ore di lavoro settimanali, la centralità del lavoro per la persona e l’ambizione (ovvero il desiderio di progredire nel proprio lavoro).
  • Le variabili organizzative, di settore e regionali – tra le variabili organizzative troviamo ad esempio la dimensione dell’organizzazione, il suo successo e la sua visibilità, ma visto che le organizzazioni operano in un ampio mercato del lavoro, che riflette differenze geografiche e settoriali, è necessario considerare anche questi aspetti.

Infine, in questo studio, Judge, Cable, Boudreau and Bretz (1995) hanno legato il successo di carriera oggettivo (predittore) a quello soggettivo.

LO STUDIO DI RASDI, ISMAIL E GARAVAN (2011)

Gli autori individuarono tre tipologie di approcci che possono influenzare il successo di carriera.

  • L’approccio individuale – simile a quello adottato da Judge et al. (1995), si basa su teorie demografiche, del capitale umano, dell’apprendimento sociale e della motivazione che enfatizzano il ruolo degli attributi individuali nel raggiungimento del successo di carriera.
  • L’approccio strutturale – esso tiene conto di tutte quelle caratteristiche strettamente legate all’organizzazione, come ad esempio la sua dimensione, che possono influenzare positivamente o negativamente la progressione di carriera di un lavoratore (Nabi 2003).
  • L’approccio comportamentale – si riferisce al comportamento messo in atto dagli individui; essi dovrebbero avere un certo controllo sulle scelte e sulle progressioni facenti parte della loro carriera. Dunque, è fondamentale enfatizzare l’importanza dei comportamenti proattivi degli individui, al fine di mettere in atto strategie volte a migliorare la propria situazione lavorativa (Abele e Wiese 2008).

LO STUDIO DI CHEN YU (2012)

In un altro studio, Chen Yu (2012) ha approfondito gli antecedenti del successo di carriera, prendendo in considerazione un campione costituito da 121 lavoratori (distinti in canadesi e cinesi), a cui è stato chiesto di attribuire un diverso livello di importanza a una serie di 12 fattori che, con la letteratura, sono stati considerati predittori del successo di carriera. Essi sono: personalità, età, supporto familiare, esperienza lavorativa, livello d’istruzione, proattività, numero di figli, genere, supporto organizzativo, buona padronanza della lingua inglese e francese, salario dei genitori, successo di carriera dei genitori. È stato visto che sia per i cinesi che per i canadesi, gli antecedenti considerati più importanti nell’influenzare il successo di carriera sono:

  • La personalità (P);
  • L’esperienza lavorativa (WE);
  • Il livello d’istruzione (E).

CONCLUSIONE

In conclusione, in questo articolo si è cercato di comprendere quali siano gli antecedenti più significativi del successo di carriera e per fare ciò si è accinto dalla letteratura scientifica, che però non può essere considerata esaustiva per raggiungere la piena comprensione del concetto.

BIBLIOGRAFIA

  • Chen Yu (2012). Career success and its predictors: comparing between canadian and chinese. International Journal of Business and Management. 7 (14): 88-95.
  • Judge. T. A., Cable. D. M., Boudreau. J. W., & Bretz. R. D. (1995). An empirical investigation of the predictors of executive career success. Personnel Psychology. 48: 485–519.
  • Rasdi. R.M., Ismail. M. & Garavan. T.N. (2011). Predicting Malaysian managers’ objective and subjective career success. The International Journal of Human Resource Management. 22 (17): 3528-3549.
03 Feb 2021

COSA SIGNIFICA “ASCOLTARE”?

COSA SIGNIFICA “ASCOLTARE”?

Ascoltare può sembrare un gesto semplice, invece custodisce in sé infinite possibilità, impegno e rispetto. Significa qualcosa in più del semplice “udire” ciò che gli altri ci dicono…

Ascoltare” significa innanzitutto fermarsi un attimo, mettere in pausa i propri pensieri, smettere per un attimo di voler far passare il proprio punto di vista e stare a sentire cosa ha da dire l’altro.

Ascolto significa tanto, significa tutto: prestare attenzione, rispettare, osservare, percepire, sentire.

Etimologicamente il termine “ascolto” è fortemente legato al concetto di attenzione. Bisogna prestare attenzione a cosa l’altro ci sta trasmettendo, al di là delle parole, e rispettare il momento in cui parla, osservando il modo in cui dice ciò che ci sta comunicando.

È come un’arte – l’arte dell’ascolto – perché il vero ascolto non è per niente facile. Infatti, è impegnativo mettersi volontariamente da parte per fare spazio all’altra persona; è quasi inevitabile continuare a pensare a ciò che ci preme e, quindi, ascoltare solo per metà.

Ascoltare” non significa solo sentire le parole dell’altro e comprenderle. Non si riduce alla logica che analizza e comprende. L’ascolto implica riconoscere e accettare l’altro come persona, dando valore e riconoscendone la dignità.

 “Ascoltare” significa anche comprendere le emozioni dell’altro e ciò che non viene detto. Saper ascoltare veramente genera fiducia e accoglienza reciproca. È la base di ogni vero rapporto interpersonale e sociale.

Senza la capacità di ascoltare non è possibile comprendere l’altro e risolvere o evitare i conflitti.

I TRE PASSI PER UN VERO ASCOLTO

Ascoltare è un’arte che si impara con la pratica e con il tempo.

Ma quali sono i tre passi principali per un buono e, soprattutto, vero ascolto?

  1. Fare silenzio – non si tratta solo di silenzio esterno, c’è bisogno anche di silenzio interno, di adottare un approccio empatico e dimostrare un sincero interesse;
  2. Osservare – osservando attentamente, si possono scoprire molte cose… si possono comprendere le emozioni sottostanti, le cose che l’altro ancora non ha detto, oppure se sta mentendo; non tutta la comunicazione avviene a livello verbale, molto importante è soprattutto la comunicazione non verbale, costituita da svariati elementi (il tono di voce, il ritmo, il volume, l’accento, …, la postura, la gestualità, la distanza mantenuta dall’interlocutore, l’abbigliamento, gli oggetti posseduti e molto altro);
  3. Ascoltare attivamente – l’ascolto richiede competenza e impegno, bisogna ascoltare in modo attivo cosa l’altro ha da dire e le sue motivazioni, senza esprimere giudizi; bisogna ripetere un concetto con le proprie parole per avere conferma di avere capito bene, magari facendo domande per chiarire meglio cosa l’altro vuol dire… è un ascolto attivo, non una discussione dove alla fine si propongono nuovamente le proprie idee! Alla fine si può dire la propria opinione sull’argomento, ma sempre rispettando la posizione dell’altro!

I BUONI ASCOLTATORI: chi sono?

Le persone in grado di ascoltare veramente sono una rarità.

In genere, risultano dei buoni ascoltatori le persone timide e chi ama veramente, ma anche chi ha compreso l’importanza strategica di saper ascoltare.

Le persone timide, proprio per la loro timidezza, sono portate ad osservare attentamente e fanno fatica a sostenere di fronte agli altri le proprie opinioni. Hanno, quindi, meno problemi a fare silenzio dentro se stesse, essendo da sempre abituate a mettere in secondo piano le proprie idee.

Per chi ama veramente qualcuno e vuole davvero il suo bene, invece, è in genere più facile mettere da parte il proprio ego e ascoltare la persona amata.

Chiunque, però, può diventare un buon ascoltatore. Il primo passo è imparare ad ascoltare se stessi!

27 Gen 2021

COVID E ANSIA: BINOMIO PERICOLOSO

COVID E ANSIA: BINOMIO PERICOLOSO

Da marzo 2020 siamo alle prese con una situazione irreale e in cui non avremmo mai immaginato di imbatterci; infatti, da allora siamo nel bel mezzo di una pandemia mondiale, che non dà segnali di resa.

La situazione sembra ora migliorare con l’avvento del vaccino, ma prima che si possa raggiungere il numero di somministrazioni sufficienti, dovranno passare molti mesi (si spera entro dicembre 2021). Dunque, dovremo combattere e convivere con il Covid-19 ancora a lungo.

ANSIA DA COVID-19

Il Covid-19 ha cambiato radicalmente la nostra quotidianità; basti pensare che tutto ciò che si faceva senza pensare, ora richiede la massima prudenza.

Questo drastico cambiamento ha provocato l’insorgenza, in alcune persone, della cosiddetta “ansia da Covid-19”. Quest’ultima è anche molto accentuata dalle notizie che trapelano dai giornali e dalle TV, che raccontano della situazione critica che li Mondo sta attraversando e di tutte le misure di contenimento (chiusure anticipate, lockdown e restrizioni).

Parallelamente all’ansia legata al Covid-19, si può annoverare la paura, ma anche una serie di sentimenti negativi che solo chi è risultato positivo può capire, come ad esempio: i sensi di colpa e la paura di aver contagiato qualcuno e di essere l’artefice del suo male.

CONSEGUENZE EMOTIVE LEGATE AL COVID-19

La forte trasmissibilità di questo virus causa la sua diffusione all’interno di famiglie e gruppi di amici ed è proprio questo che scatena il senso di colpa e l’autocolpevolizzazione di cui si è parlato prima.

Questo accade perché la persona “positiva” sente di essere la causa di eventuali altri contagi e sente di non aver rispettato le regole in modo corretto. A questo proposito la Dott.ssa Valentina Di Mattei, psicologa clinica dell’Ospedale S. Raffaele e professoressa associata dell’Università Vita Salute San Raffaele di Milano, afferma:

“Il senso di colpa ha il compito di inibire comportamenti ritenuti inappropriati, poco etici e morali, nel senso migliore del termine. Si presenta in conseguenza alla violazione di norme condivise dall’ambiente in cui si cresce e nel tempo interiorizzate (il famoso Super Io di Freud). Dunque, l’essere un veicolo di contagio può portare ad auto colpevolizzazione, rimorso e rimpianto. La possibilità di provare questo sentimento è legata in questo caso alla valutazione del soggetto di avere avuto la possibilità di agire diversamente, in modo più protetto e quindi socialmente più accettabile.”

Esso, quindi, emerge quando il “positivo” si rende conto che nei giorni passati avrebbe potuto agire in modo diverso ed in modo più cauto, ma così non è stato fatto.

Tutto questo è funzionale per il futuro, perché è da questi errori e, di conseguenza, dall’emergere di questi sentimenti negativi che l’individuo apprende e capisce come comportarsi in modo corretto nel futuro; a questo proposito, risulta disfunzionale colpevolizzarsi in modo eccessivo e auto-punirsi per non aver preso le giuste cautele in passato.

SUGGERIMENTI SU COME AFFRONTARE L’ANSIA DA COVID-19

Come può un “positivo” alleggerirsi del peso delle emozioni negative che lo inondano, quali senso di colpa e ansia? Bisogna:

  • Non colpevolizzarsi eccessivamente – come si è visto prima, il senso di colpa può essere utile per capire quali comportamenti mettere in atto in futuro, perché si è capito quali sono quelli sbagliati. A questo proposito, si deve considerare che alcune volte, non si ha il controllo degli eventi che si presentano davanti a noi, dunque, il colpevolizzarsi sull’essere stati infettati alle volte non serve, perché quel momento non era sotto il nostro controllo. Infatti, non si sa quasi mai precisamente ove si è stati infettati dal virus, in quanto è possibile solo fare delle deduzioni, ma niente di più.
  • Tollerare i giudizi negativi – i “positivi” vengono trattati come persone da evitare completamente e da cui stare alla larga per molto tempo; tutto questo causa forte ansia e senso di isolamento. Dunque, è necessario durante il periodo della malattia, resistere a questi giudizi negativi, perché tutto tornerà normale quando si guarirà, in quanto la persona tornerà sana fisicamente e i rapporti interpersonali si normalizzeranno tornando com’erano prima della “brutta notizia”.
  • Pensare e riflettere – quotidianamente si è dinanzi alla contrapposizione tra “ragione” ed “emozioni” e, in questo specifico caso, le seconde spesso si impongono sulla prima, soprattutto nei primi giorni, ma col passare del tempo è essenziale arrivare ad una razionalizzazione della situazione che porta a gestire il periodo in modo funzionale.

27 Gen 2021

IL SUCCESSO DI CARRIERA

IL SUCCESSO DI CARRIERA

Mentre nel precedente articolo si è parlato della carriera lavorativa e del suo mutamento fino a oggi (link), in questo ci si concentrerà sul successo di carriera. Quest’ultimo può essere definito come una serie di risultati lavorativi positivi sia da un punto di vista psicologico che lavorativo.

IL SUCCESSO DI CARRIERA: SOGGETTIVO E OGGETTIVO

Il successo di carriera soggettivo comprende una serie di giudizi degli individui sui loro successi professionali, comprese le valutazioni sull’autostima e sulle capacità (Chang, Ferris, Johnson, Rosen, & Tan, 2012) e la soddisfazione che provano nella loro carriera (Judge, Cable, Boudreau & Bretz, 1995). Esso viene generalmente misurato attraverso la soddisfazione professionale (Greenhaus, Parasuraman, & Wormley, 1990; Seibert, Kraimer, Holtom e Pierotti, 2013) o il successo professionale percepito (Heslin, 2003) e più recentemente attraverso la valutazione multidimensionale riguardante vari aspetti della carriera, come la crescita e lo sviluppo, la vita personale e l’autenticità (Shockley, Ureksoy, Rodopman, Poteat & Dullaghan, 2016).

Dunque, la variante soggettiva del successo di carriera presuppone che ognuno abbia una serie di valori, preferenze, priorità che delineano le scelte e gli obiettivi; quindi, è importante considerare che ognuno misura il proprio livello di soddisfazione riguardante la carriera lavorativa su fattori differenti e che le persone non condividono gli stessi metri di giudizio riguardo le proprie esperienze lavorative. In generale, si può dire che differenti lavoratori hanno diverse aspirazioni di carriera e attribuiscono un’importanza differente a fattori come: lo stipendio; la sicurezza lavorativa; la possibilità di apprendere; il bilanciamento tra la sfera lavorativa e quella privata/familiare; la possibilità di avere promozioni e di svolgere lavori differenti.

Il successo di carriera oggettivo è definito come osservabile direttamente dagli altri e misurabile in modo standardizzato (Arthur, Khapova and Wilderom, 2005), tipicamente valutando lo stipendio o le promozioni avute nel tempo (Dries, Pepermans, Hofmans & Rypens, 2009).

Dunque, il successo di carriera soggettivo può essere definito come la comprensione e la valutazione interiore di un individuo della propria carriera, considerando qualsiasi dimensione da lui ritenuta importante, mentre  la variante oggettiva riflette ad esempio le varie posizioni assunte nel corso della carriera lavorativa da parte di un lavoratore, il reddito individuale e lo status assunto nel tempo; tutti questi aspetti sono importanti per avere un punto di riferimento nella valutazione del movimento di un individuo nel corso delle esperienze lavorative.

RELAZIONE TRA IL SUCCESSO DI CARRIERA SOGGETTIVO E OGGETTIVO

Ci sono diverse possibilità riguardanti le direzioni dell’influenza tra il successo di carriera oggettivo e soggettivo (Abele & Spurk 2009b).

Una prima possibilità è che il successo di carriera oggettivo influenzi quello soggettivo; in questo caso quindi, il successo oggettivo potrebbe essere la base per la valutazione del successo soggettivo da parte del lavoratore, oppure alcuni autori sostengono che la percezione soggettiva del successo sia un sottoprodotto del successo oggettivo (Nicholson & De WaalAndrews, 2005). Ad esempio è stato visto che il reddito e le promozioni predicono la soddisfazione e l’atteggiamento di carriera (Gattiker & Larwood, 1989); oppure si è visto che il reddito, lo status e le promozioni predicono la soddisfazione professionale (Judge, Cable, Boudreau &  Bretz, 1995; Martins, Eddleston, & Veiga, 2002).

La direzione opposta dell’influenza è quella secondo cui l’esperienza soggettiva del successo porta a un maggiore successo oggettivo (Hall, 2002). Il successo soggettivo potrebbe agire sulla componente motivazionale del lavoratore, ad esempio rendendolo più sicuro di sé, più motivato e più direzionato nel raggiungimento dei propri obiettivi; questa componente potrebbe, nel corso del tempo, agire positivamente sul successo di carriera oggettivo. La base empirica, tuttavia, è molto limitata.

La terza prospettiva teorica riguarda l’interdipendenza (Arthur, Khapova, & Wilderom, 2005). Le persone sperimentano la realtà oggettiva, creano comprensioni e valutazioni su ciò che costituisce il successo professionale e quindi agiscono individualmente in base a queste comprensioni e queste valutazioni. Sulla base delle loro azioni ottengono dei risultati, che portano a comprensioni e valutazioni modificate, a cui seguono a loro volta altri comportamenti, e così via, creando un circolo d’influenza reciproca. L’unico modo attraverso cui ottenere conferme per l’interdipendenza tra il successo oggettivo e quello soggettivo è lo studio longitudinale, ma in letteratura non sembrano esserci.

CONCLUSIONE

In conclusione, si è visto che il successo di carriera può essere definito come una serie di risultati lavorativi positivi sia da un punto di vista psicologico che lavorativo. Esso può essere soggettivo o oggettivo e la relazione tra queste due tipologie è molto complessa e varia. Infine, sembra che la differenza tra il successo di carriera soggettivo e oggettivo sia principalmente di natura teorica (ad esempio Abele & Spurk, 2009a), dunque servirebbero ulteriori studi per approfondire questa tematica.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Abele. A. E. & Spurk. D. (2009a). The longitudinal impact of self-efficacy and career goals on objective and subjective career success. Journal of Vocational Behavior. 74: 53-62.
  • Abele. A. E. & Spurk. D. (2009b). How do objective and subjective career success interrelate over time? Journal of Occupational and Organizational Psychology . 82 . 803 –824.
  • Arthur. M. B., Khapova. S. N., & Wilderom. C. P. M. (2005). Career success in a boundaryless career world. Journal of Organizational Behaviour. 26: 177–202.
  • Chang. C. H., Ferris. D. L., Johnson. R. E., Rosen. C. C., & Tan. J. A. (2012). Core self-evaluations: A review and evaluation of the literature. Journal of Management. 38: 81–128.
  • Dries. N., Pepermans. R., & Carlier. O. (2008). Career success: Constructing a multidimensional model. Journal of Vocational Behavior. 73(2): 254–267.
  • Gattiker. U. E., & Larwood. L. (1989). Career success. mobility and extrinsic satisfaction of corporate managers. Social Science Journal. 26: 75-92.
  • Greenhaus. H. & Wormley. W. (1990). Effects of Race on Organizational Experiences. Job Performance Evaluations. and Career Outcomes. The Academy of Management Journal. 33(1):64-86.
  • Heslin. P. A. (2003). Self- and other-referent criteria of success. Journal of Career Assessment. 11: 262-286.
  • Judge. T. A., Cable. D. M., Boudreau. J. W., & Bretz. R. D. (1995). An empirical investigation of the predictors of executive career success. Personnel Psychology. 48: 485–519.
  • Martins. L. L., Eddleston. K. A., & Veiga. J. F. J. (2002). Moderators of the relationship between work–family conflict and career satisfaction. Academy of Management Journal. 45: 399–409.
  • Nicholson. N., & De Waal-Andrews. W. (2005). Playing to win: Biological imperatives selfregulation. and trade-offs in the game of career success. Journal of Organizational Behaviour. 26: 137–154.
  • Seibert. S. E., Kraimer. M. L., Holtom. B. C. & Pierotti. A. J. (2013). Even the best laid plans sometimes go askew: Career self-management processes. career shocks. and the decision to pursue graduate education. Journal of Applied Psychology. 98: 169-182.
  • Shockley. K. M., Ureksoy. H., Rodopman. O. B., Poteat. L. F. & Dullaghan. T. R. (2016). Development of a new scale to measure subjective career success: A mixed-methods study. Journal of Organizational Behavior. 37: 128-153.
20 Gen 2021

L’ARTETERAPIA

L’ARTETERAPIA

L’Arteterapia consiste nella ricerca del benessere psicofisico attraverso l’espressione artistica dei pensieri, dei vissuti e delle emozioni. L’arte permette un’espressione diretta, immediata, spontanea, arcaica ed istintiva di noi stessi, che non passa attraverso l’intelletto.

L’Arteterapia utilizza le potenzialità, che possiede ogni persona, di elaborare creativamente tutte quelle sensazioni che non si riescono a far emergere con le parole e nei contesti quotidiani. Per mezzo dell’azione creativa l’immagine interna diventa immagine esterna, visibile e condivisibile, e comunica all’altro il proprio mondo interiore emotivo e cognitivo.

La produzione artistica, però, non avviene in completa solitudine. La propria creazione viene osservata e discussa nell’ambito di una relazione tra due persone, il terapeuta e il paziente. Ognuno ha in sé delle risorse proprie e un potenziale auto-rigenerativo che va semplicemente stimolato. L’arteterapeuta deve essere capace di cogliere il significativo, il comunicativo.

OBIETTIVI, MODALITÀ E AREE D’INTERVENTO DELL’ARTETERAPIA

L’Arteterapia solitamente viene svolta in laboratori appositi che svolgono un vero e proprio setting terapeutico. In questi laboratori l’espressione dell’arte serve sia per raggiungere una propria autoconsapevolezza ma è, anche, utile per la “cura” di situazioni problematiche.

L’arteterapeuta gioca un ruolo importante perché, come si evince dal paragrafo precedente, deve cercare di evidenziare il lato significativo e comunicativo di questa terapia, piuttosto che il lato bello nel senso estetico. L’obiettivo fondamentale è creare una relazione empatica con il soggetto, cosicché egli possa esprimersi senza filtri e non mostrare ansia da prestazione.

L’Arteterapia, con le sue tecniche ed i suoi materiali, favorisce la conoscenza di sé stessi e delle proprie potenzialità e rende possibile l’integrazione di tutte le risorse di cui disponiamo per poter vivere meglio; svolge, quindi, la funzione non solo di trattamento di malattie, ma anche di trasformazione, evoluzione e crescita dell’individuo, consentendoci di credere ed essere fiduciosi nelle capacità che tutti quanti noi possediamo. Nello specifico, permette di:

  • migliorare le proprie capacità comunicative, affettive e relazionali, così da avere una crescita personale;
  • riconoscere la propria emotività, così da entrare in sintonia con il proprio mondo interiore;
  • “avvicinarsi” al proprio disagio, in modo tale da capire le proprie sofferenze rielaborandole in una nuova e personale chiave;
  • nel caso in cui la terapia venga effettuata in gruppo, cercare di condividere i propri stati interiori con gli altri così da creare uno spazio comune di riflessione.

L’obiettivo, quindi, dell’arteterapia non è tanto il prodotto artistico, piuttosto il percorso che l’utente attiva per raggiungere tale prodotto.

Le aree di intervento dell’Arteterapia sono essenzialmente tre:

  • Area Terapeutica;
  • Area Riabilitativa;
  • Area Preventiva ed Educativa.

IL LABORATORIO DI ARTETERAPIA

Questo particolare tipo di laboratorio mette a disposizione uno spazio ampio e molto luminoso, che rispetta tutte le regole del setting terapeutico: lo spazio ed il tempo sono ben definiti, e tutto ciò che accade all’interno di essi acquisisce un significato che facilita la comprensione del paziente. Inoltre, può essere un luogo ricchissimo di stimoli in cui si trova di tutto (carta, matite, colori, das, stoffe, lane, legno, farina, teli, burattini, strumenti musicali) oppure può anche essere uno spazio vuoto, libero da stimoli, da riempire come si vuole.

Nel laboratorio, su indicazioni dell’arteterapeuta, ci si può dedicare:

  • alle arti visive – si può disegnare, colorare, modellare das o creta, utilizzare fotografie o filmati;
  • alla musicoterapia – si può ascoltare musica per favorire una maggiore attivazione o il rilassamento;
  • alla danzaterapia – si può imparare a liberare il corpo consentendogli di esprimere pensieri, emozioni e sentimenti;
  • alla teatroterapia – che permette di comunicare con il corpo e con la voce, di osservare il mondo con gli occhi di un altro e di giocare con ciò che è finzione e ciò che è verità;
  • al gioco – si propongono i giochi che fanno i bambini: rubabandiera, nascondino, lanciare la palla, ecc. Il gioco allena il bambino (e anche l’adulto) alla vita e gli permette la ricerca del sé, di un sé corrispondente ai propri bisogni.

Ed è sempre nella direzione del gioco che viene svolto il lavoro nei laboratori artistici, affinché l’Arteterapia sia vissuta come un’attività “ludica e divertente” che accompagna l’individuo in uno dei viaggi più affascinanti dell’uomo: la scoperta di se stessi.

20 Gen 2021

LA CARRIERA LAVORATIVA E IL SUO MUTAMENTO FINO AD OGGI

LA CARRIERA LAVORATIVA E IL SUO MUTAMENTO FINO AD OGGI

Secondo Arthur et al. (1989) il concetto di “carriera” può essere definito come una sequenza di esperienze lavorative che una persona fa nel corso del tempo.

CARRIERA ESTERNA E INTERNA

Quando si parla di carriera, secondo Toderi e Sarchielli (2013), che riprendono Schein (1971), è indispensabile affrontare il tema della dualità tra “carriera esterna”, costituita da una serie di posizioni, responsabilità lavorative e aspettative organizzative, che si susseguono in una o più organizzazioni, e “carriera interna”, ovvero tutti i sentimenti, pensieri e cognizioni relativi al dove andare e al cosa dover fare per raggiungere l’obiettivo sperato e per superare gli ostacoli che si presentano nel cammino. In entrambe le accezioni, la carriera deve essere considerata come un processo lungo carico di atteggiamenti, comportamenti e sentimenti che si susseguono nella relazione tra persona e organizzazione.

LA CARRIERA DI PROPRIETÀ DEI LAVORATORI O DELLE ORGANIZZAZIONI

A questo proposito, la carriera può essere intesa da un lato di proprietà dei lavoratori, a cui spetta il compito di delineare il percorso utile al raggiungimento dei propri obiettivi, ma è anche di proprietà delle organizzazioni, in quanto con le loro pratiche, regole e direttive influenzano le esperienze lavorative e di conseguenza le carriere (Baruch, 2006). Quando si parla di carriera di proprietà delle persone, entra in gioco la contrapposizione tra “carriera soggettiva” e “carriera riuscita” proposta da Super, et al. (1996). La prima corrisponde ai tentativi individuali di esprimere in termini occupazionali cosa una persona vorrebbe essere e di ridefinire il proprio Sé mentre si affronta la realtà esterna, fatta di pressioni, difficoltà e cambiamenti. La carriera riuscita riguarda le percezioni e le emozioni che un lavoratore ha rispetto alla propria carriera, nello specifico rispetto al cammino intrapreso, al raggiungimento degli obiettivi prefissati e alla sua pienezza, oltre che alla somiglianza tra i valori personali e quelli organizzativi.

IL CAMBIAMENTO NELLA CONCEZIONE DELLA CARRIERA LAVORATIVA

La determinazione della carriera personale di un singolo lavoratore è fortemente cambiata negli ultimi anni, perché in passato il rapporto di lavoro prevedeva stabilità e sicurezza nel tempo, quindi le aziende assicuravano, secondo regole e direttive interne, una successione di promozioni basate in genere sull’anzianità di servizio e sull’impegno profuso; inoltre prevedeva maggiore libertà, autonomia e responsabilità per i lavoratori. Questi ultimi a loro volta avevano l’obbligo d’impegnarsi e dimostrarsi leali (Fraccaroli, 2005). Negli ultimi anni invece, si è parlato più frequentemente di precarietà lavorativa, di flessibilità nella carriera, di proattività, di auto-apprendimento e di auto-promozione; tutti questi concetti stanno acquisendo molta importanza per via del mutamento del mercato del lavoro, che non permette più, a differenza di prima, la possibilità di permanere nella stessa azienda per molti anni, ma che predilige rapporti di lavoro a breve termine. Questo è dovuto alla globalizzazione dell’ultimo secolo, con cui sono drasticamente aumentati scambi economici e rapporti internazionali, che vanno ad agire sulla competizione e sulla concorrenza; queste ultime a loro volta non permettono alle singole aziende di poter investire nel capitale umano a lungo termine, dunque per motivi puramente economici, si prediligono contratti brevi, aumentando la possibilità di sopravvivenza in un mercato competitivo e spietato, ove la parola d’ordine è “risparmio”.

BOUNDARYLESS E PROTEAN CAREER

A questo proposito, si possono presentare due nuovi costrutti di carriera: Boundaryless e Protean career (Hall, 2004). Boundaryless career o carriera senza confini è un concetto che si riferisce ai movimenti oggettivi che una persona compie all’interno degli stessi confini organizzativi o tra più posti di lavoro in diverse aziende (Hess, Jepsen & Dries, 2012). Queste transizioni non devono essere intese con un’accezione puramente negativa perché esse possono essere attraenti per tutti quei lavoratori che hanno acquisito, mediante tutte le varie esperienze (temporanee e non), una serie di competenze utili a mantenersi competitivi nel mercato del lavoro. A questo punto, l’idea secondo cui la carriera è delle persone assume sempre più importanza visto che, dal momento in cui essi escono dall’organizzazione, devono affrontare delle transizioni guidati dalle proprie aspettative e dalle proprie rappresentazioni. In secondo luogo, Protean career o carriera mutevole, al contrario del precedente costrutto, si riferisce alla parte soggettiva della carriera (Hall, 2004). Esso si concentra sulla necessità per il lavoratore di: ridefinire il Sé in risposta ai cambiamenti esterni; costruire il proprio capitale di carriera scegliendo le esperienze più significative; essere mutevoli per potersi adattare rapidamente all’uscita da un’azienda e all’ingresso in un’altra e di farsi personalmente carico della propria carriera.

CONCLUSIONE

Le carriere tradizionalmente erano lineari, ma stanno diventando sempre più spezzettate, visto che sono caratterizzate da ricollocamenti, mobilità, instabilità, contratti brevi e cambiamenti di lavoro. D’altro canto, gli stessi datori di lavoro non garantiscono stabilità dell’occupazione e sembrano aspettarsi lavoratori in grado di progettare e gestire autonomamente la propria vita personale e la propria carriera lavorativa; quest’ultima sarebbe caratterizzata dalla successione di contratti brevi e rinegoziabili. In questo contesto l’organizzazione non ha l’obbligo di prendersi cura delle singole carriere lavorative, che sono completamente nelle mani dei singoli lavoratori.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Arthur. M. B., Hall. D. T. & Lawrence. B. S. (1989). Generating new directions in career theory: The case for a transdisciplinary approach. Handbook of career theory: 7–25.
  • Baruch. Y. (2006). Career development in organizations and beyond: Balancing traditional and contemporary viewpoints. Human Resource Management Review. 16(2):125-138.
  • Fraccaroli. F. (2005). Progettare la carriera. Milano. Cortina.
  • Hall. D. T. (2004). The protean career: A quarter-century journey. Journal of Vocational Behavior. 65: 1-13.
  • Hess. N., Jepsen. D. M. & Dries. N. (2012). Career and employer change in the age of the “boundaryless” career. Journal of Vocational Behavior. 81: 280-288.
  • Schein. E. H. (1971). The Individual. the Organization. and the Career: A Conceptual Scheme. The Journal of Applied Behavioral Science. 7(4): 401–426.
  • Super. D. E., Savickas. M. L. & Super. C.M. (1996). The Life-span. Life-space Approach to Careers. in D. Brown & L. Brooks (Eds) Career Choice and Development. III ed. San Francisco. CA. Jossey-Bass: 121-178.
  • Toderi. S. & Sarchielli. G. (2013). Sviluppare la carriera lavorativa. Il Mulino. Bologna.

 

 

 

 

13 Gen 2021

LOCUS OF CONTROL

LOCUS OF CONTROL

Nella Teoria dell’Apprendimento sociale di Rotter (1966), il Locus of Control è inteso come il modo in cui una persona interpreta le cause dei vari eventi che si verificano nella sua vita quotidiana; nello specifico, esso è utilizzato per descrivere come viene percepita la relazione tra le azioni e le conseguenze di esse.

TIPOLOGIE

Gli eventi sono visti dalle persone in base al grado di controllo che loro hanno, ad esempio:

  • Coloro che hanno un Locus of control interno credono di avere il controllo sugli eventi, sia positivi che negativi, e attribuiscono i risultati delle loro azioni alle proprie capacità (risultati positivi) o alle loro mancanze (risultati negativi). Questi individui sentono di avere il controllo sul corso degli eventi nel mondo che li circonda e si sentono responsabili di ciò che accade loro.
  • Al contrario, le persone con un Locus of control esterno credono che il susseguirsi degli eventi lungo la propria vita sia fuori dal loro controllo e tendono a spiegarli e motivarli con fattori come la fortuna, il destino o le circostanze esterne imprevedibili.

COME SI SVILUPPA IL LOCUS OF CONTROL

La predominanza di una tipologia di Locus of Control sull’altra, in ognuno di noi, è influenzata da fattori come: la personalità, la famiglia di origine e la cultura.

Per quanto riguarda la famiglia, molte persone che presentano un locus of control interno, probabilmente sono cresciute in un ambiente in cui si pone particolare attenzione all’impegno, alla responsabilità e alla costanza nel raggiungere un obiettivo, viceversa è più probabile che chi ha un locus of control esterno provenga da un’ambiente in cui la concezione del controllo che si può avere sulla realtà esterna è basso e in cui non viene considerato centrale il tema dell’assunzione di responsabilità.

Dunque, la famiglia ha un’influenza diretta sulla direzione del locus of control, che a sua volta impatta sull’autostima. Infatti, il livello di quest’ultima è influenzato dalla credenza di poter raggiungere o meno un determinato obiettivo o un risultato desiderato. Quando non avviene una mescolanza equilibrata tra i due stili, l’autostima ne risente, a partire dallo strutturarsi del senso di colpa quando il locus of control è sempre interno, fino alla deresponsabilizzazione quando è esterno.

Infine, la cultura di appartenenza può avere un peso nello sviluppo del locus of control. Nelle culture individualiste, ad esempio, si crede maggiormente nelle proprie capacità di influenzare le situazioni e gli eventi della propria vita, sentendosi in grado di modificare l’ambiente circostante. Diversamente, nelle culture collettiviste, i valori dell’interdipendenza e dell’armonia con l’ambiente sono importanti, dunque si pensa che non si debba modificare l’ambiente, ma bisognerebbe adeguarsi a esso. In questo secondo caso, la sensazione di controllo sembra derivare dalla percezione di sapersi adattare e adeguare al contesto.

CONCLUSIONI

In conclusione, il modo in cui una persona interpreta le cause dei vari eventi che si verificano nella sua vita quotidiana influenza notevolmente i risultati che otterrà.

Infatti, per quanto riguarda i benefici a cui può portare avere l’una o l’altra direzione del locus of control, molti studi, coerenti con la definizione di Rotter, suggeriscono fortemente che l’interiorità è correlata a risultati complessivamente più positivi rispetto all’esternalità.

13 Gen 2021

L’IMPORTANZA DEGLI OBIETTIVI NEL LAVORO

L’IMPORTANZA DEGLI OBIETTIVI NEL LAVORO

L’obiettivo è un traguardo da voler raggiungere e può anche essere visto come una nuova sfida che entra nella vita della persona, che a sua volta proverà a vincere. Attraverso la giusta formulazione dell’obiettivo si può arrivare a un’importante crescita personale e professionale, inoltre se si riesce a raggiungere il risultato sperato, si sarà inondati da una serie di emozioni e sensazioni positive, come ad esempio: orgoglio, senso di soddisfazione e benessere generale percepito.

LAVORARE PER OBIETTIVI

A proposito di ciò nel biennio 2020/21 si vedono sempre più spesso annunci lavorativi, in cui si richiede una “buona capacità di lavorare per obiettivi”. Quest’ultima è una soft skill (di cui abbiamo parlato in un precedente articolo), attraverso cui la persona si pone una serie di traguardi da voler raggiungere nel breve e nel lungo periodo. Si è visto che questa competenza è positivamente correlata ad alta produttività del dipendente, che a sua volta permette un incremento del rendimento aziendale.

LE CARATTERISTICHE CHE DOVREBBERO AVERE GLI OBIETTIVI

La formulazione è forse il passaggio fondamentale per aumentare la probabilità di raggiungere quel determinato scopo finale, infatti se ciò che vorremmo raggiungere non ha delle caratteristiche prefissate, sarà difficile trarne uno giovamento.

Ecco quali sono le caratteristiche chiave:

  1. L’obiettivo deve essere SPECIFICO, DEFINITO e MISURABILE: più lo è più sarà raggiungibile. Per adempiere appieno a questo requisito, può essere utile rispondere a cinque domande:
    • Cosa vuoi fare?
    • Come?
    • Quando?
    • Dove?
    • Con chi?
  1. FISSARE UNA SCADENZA: è necessario stabilire un termine entro il quale dover raggiungere l’obiettivo, perché questo ci permetterà di essere più ansiosi e di converso più motivati.
  2. L’OBIETTIVO DEVE ESSERE ESPRESSO IN POSITIVO: perché esprimendolo in negativo, si tenderà a vedere ciò che non si vuole, dunque non bisogna dire ad esempio “Non voglio fare più questo lavoro”, ma bisognerebbe dire “Voglio fare ..”.
  3. FATTIBILE: deve essere raggiungibile, dunque non deve essere un obiettivo troppo ambizioso e quindi irraggiungibile, perché in questo caso si otterrebbe il risultato contrario, ovvero la demotivazione nel vedere il traguardo troppo lontano.
  4. MOTIVANTE: come si è visto prima, l’obiettivo deve essere fattibile, ma non deve essere troppo facile da raggiungere; bisognerebbe trovare il giusto equilibrio, affinché la motivazione nel perseguirlo possa salire.
  5. ESPRESSO IN FORMA SCRITTA: verba volant, scripta manent (lat. “le parole volano, gli scritti rimangono”), perché psicologicamente scrivere qualcosa è un impegno.
  6. NON DEVE ESSERE IN CONTRASTO CON I PROPRI VALORI: in questo caso bisognerebbe fare una lista dei propri valori per cercare, nella formulazione dell’obiettivo, di non andare in contrasto con alcuni di essi. Rispettare questo requisito è importante perché nel caso in cui si riuscisse ad arrivare al traguardo, ma senza rispettare un proprio valore, non si potrebbe godere appieno della felicità e del benessere.
  7. IMMAGINABILE: si dovrebbe riuscire a convertire l’obiettivo in un’immagine e avere quindi la possibilità di vederlo chiudendo gli occhi; si deve poter vedere e raccontare agli altri.
  8. SUDDIVISIBILE IN SOTTOBIETTIVI: è importante programmare vari step e sottobiettivi per arrivare al traguardo finale perché questo permette di stilare un piano d’azione e permette anche di alzare la motivazione progredendo tra i passi.

CONCLUSIONE

In conclusione, la corretta formulazione dell’obiettivo permette di avere maggiore motivazione e impegno nel cercare di raggiungerlo; questo influenza direttamente i risultati, aumentando la probabilità di raggiungerlo. Tutto questo significa, in un contesto lavorativo/aziendale, aumentare la produttività dei lavoratori e dunque aumentare il rendimento aziendale. Quindi, tutte le organizzazioni dovrebbero stilare correttamente obiettivi, per agire sulla propria produttività, che è influenzata da quella dei dipendenti.

16 Dic 2020

SOFT SKILL E HARD SKILL: QUALI SONO PIÙ IMPORTANTI NEL MERCATO DEL LAVORO ODIERNO?

SOFT SKILL E HARD SKILL: QUALI SONO PIÙ IMPORTANTI NEL MERCATO DEL LAVORO ODIERNO?

Questo articolo è importante perché cerca di far luce sul decennale dibattito tra le hard e le soft skill e su chi abbia maggiore influenza su un’ipotetica assunzione.

Distinzione tra soft skill e hard skill

Le hard skill sono delle competenze tecniche quantificabili e facilmente dimostrabili, che possono essere acquisite ad esempio a scuola, o durante i vari corsi di formazione o durante le varie esperienze lavorative. Esse sono il nostro bigliettino da visita, perché presenti nel curriculum che legge il selezionatore, il quale dovrà, attraverso una serie di screening curriculari, decidere chi chiamare per un colloquio di approfondimento.

Le soft skill sono delle competenze trasversali perché attraversano tutti gli ambiti lavorativi, dunque non sono competenze specifiche legate a un singolo compito o a una singola mansione (hard skill). Esse possono essere considerate delle caratteristiche personali che influenzano il modo in cui si affrontano le richieste dell’ambiente esterno (in questo specifico articolo ci si riferirà soprattutto all’ambito lavorativo, ma il discorso è facilmente espandibile a tutti i contesti della vita). Le principali soft skill, secondo il sito di AlmaLaurea sono: autonomia; fiducia in sé stessi; flessibilità/adattabilità; resistenza allo stress; capacità di pianificare e organizzare; precisione/attenzione ai dettagli; apprendere in maniera continuativa; conseguire obiettivi; gestire le informazioni; essere intraprendente/spirito d’iniziativa; capacità comunicativa; problem solving; team work e leadership.

Quando fare affidamento su di loro?

Come accennato in precedenza, le hard skill sono molto importanti soprattutto nella fase iniziale dell’iter di selezione, ovvero quando il selezionatore deve decidere chi è idoneo a ricoprire la posizione vacante all’interno dell’azienda; infatti, esse rappresentano i requisiti minimi che una persona deve avere per potersi candidare per l’offerta lavorativa. Le soft skill sono importanti nella fase centrale (presente soprattutto nelle grandi selezioni) e nella fase finale dell’iter di selezione, quando ad esempio si è convocati per un colloquio o per dei test. In questi ultimi due momenti si presuppone che tutti i candidati presenti abbiano i requisiti specifici (hard skill) per ricoprire al meglio la posizione, dunque si vuole verificare quali tra questi possiede competenze non strettamente legate al compito, ma che potrebbero portare a migliori performance.

Facciamo un esempio per capire meglio. Un’azienda cerca un nuovo collaboratore a cui affidare completamente sia la gestione di un punto vendita che la presentazione di nuovi prodotti in pubblico. Tra le hard skill troveremo ad esempio: capacità di gestire un punto vendita, con esperienza pregressa dimostrabile; conoscenza dei prodotti in vendita; padronanza dei principali sistemi informatici; etc. Mentre le soft skill potrebbero essere: autonomia (svolgere i compiti assegnati facendo affidamento solo alle proprie risorse, senza la necessità di essere affiancati da un supervisore); flessibilità/adattabilità (sapersi adattare facilmente a vari contesti e a differenti ambiti lavorativi); precisione (essere accurati e attenti a tutto ciò che si fa, curandone i dettagli); conseguire obiettivi (riuscire a raggiungere o a superare gli obiettivi prefissati); capacità comunicativa (trasmettere e condividere le informazioni con il proprio interlocutore in modo chiaro e sintetico, ma anche ascoltarli e confrontarsi con loro). Quindi, le prime hard skill saranno utili al selezionatore per scartare i candidati non idonei che non possono ricoprire la posizione lavorativa, mentre le soft skill sono importanti nel momento in cui si supera il primo step di selezione e si arriva a un colloquio o a un eventuale test. Dunque, entrambe sono molto importanti, ma in momenti differenti dell’iter selettivo.

Concezione passata delle competenze

Non sempre però la concezione di queste due macro-aree di competenze è stata la stessa, perché fino a qualche decennio fa, quando c’erano molte più possibilità lavorative rispetto ad adesso, si valutavano solo ed esclusivamente le cosiddette hard skill, dunque ai fini dell’assunzione si dava importanza alle competenze attinenti al lavoro che si sarebbe dovuto andare a svolgere. Con il passare del tempo, però, le soft skill sono divenute sempre più importanti, fino a ottenere una valenza di primissima fascia. Infatti, chi padroneggia queste ultime dispone di uno strumento utile a valorizzare le proprie competenze tecniche.

Conclusione

Non è possibile risolvere la diatriba tra coloro che sostengono le hard skill e coloro che sostengono le soft skill, perché sono entrambe molto importanti a seconda del momento di selezione in cui ci si trova.

Piccolo appunto però va fatto per i neolaureati, perché loro non hanno tante esperienze lavorative, dunque non potranno vantare, nel momento in cui mandano varie candidature per posizioni lavorative, un curriculum ricco di competenze tecniche. A questo proposito, per loro riveste particolare importanza riuscire, attraverso il proprio curriculum o il colloquio conoscitivo, a far emergere le competenze trasversali possedute.